Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 settembre 2016, n. 18447

Studi di settore - Contribuente lavoratore dipendente e artigiano nel tempo libero - Dimostrazione - No all’accertamento

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza n. 13 del 28 gennaio 2009, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della CTP di Pavia che a sua volta aveva accolto il ricorso che il contribuente G.G., esercente attività artigianale di elettricista, aveva proposto avverso l’avviso di accertamento emesso ai sensi degli artt. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, con cui l’Amministrazione finanziaria aveva accertato ai fini IRPEF, IRAP ed IVA in relazione all’anno di imposta 2001 maggiori ricavi per 9.962,45 euro ed un maggior reddito d’impresa per 10.229,97 euro rispetto a quello di appena 267,52 euro dichiarato dal contribuente.

1.1. Sosteneva il giudice di appello che l’Ufficio aveva correttamente accertato, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti (quali l’emissione di una sola fattura nell’anno di imposta 2001 per soli 267,52 euro nonostante l’inizio dell’attività nell’aprile del 1999, comprovata dalla richiesta di attribuzione del numero di partita IVA, e la nomina di un responsabile tecnico per la certificazione degli impianti), il comportamento palesemente antieconomico tenuto dal contribuente, così spostandosi su quest’ultimo l’onere della prova, dal medesimo non adeguatamente assolta, in quanto, pur avendo dedotto di essere dipendente della I.I. s.p.a., non aveva specificato se era impiegato con contratto a tempo pieno o parziale. Conseguentemente era legittimo l’accertamento che aveva rideterminato i maggiori ricavi considerato tre ore al giorno di attività per 222 giorni al costo di 15,49 euro ad ora, ricavato dall’unica fattura emessa dal contribuente.

2. Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.

 

Considerato in fatto

 

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, 4 e 5, c.p.c., sia il vizio di violazione di legge, in relazione agli artt. 115, 116 e 324 c.p.c. e 2909 cod. civ., sia il vizio di motivazione della sentenza gravata.

1.1. Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata non era sufficientemente motivata sulla questione relativa allo svolgimento del rapporto di lavoro alle dipendenze della I.I. s.p.a., idoneo a giustificare il rilevato scostamento tra redditi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore, avendo i giudici di appello ravvisato il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura di quel rapporto - se cioè a tempo pieno o parziale - nonostante dal ricorso in primo grado e dalle controdeduzioni d’appello (le cui parti rilevanti il ricorrente ha trascritto nel ricorso) nonché dal contenuto della sentenza di primo grado (ritrascritta nella parte in cui indicava in £. 49.547.000 l’entità del reddito annuo conseguito quale lavoratore dipendete) emergesse che si trattava di rapporto di lavoro a tempo pieno.

1.2. Con riferimento alla medesima questione il ricorrente deduce altresì l’omessa valutazione di prove e di atti processuali da parte del giudice di appello, integrante violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed eccepisce la formazione del giudicato sul punto relativo alla produzione del reddito da lavoro nella misura sopra indicata, accertato dal giudice di primo grado, in quanto non censurata dall’Ufficio in grado di appello, con conseguente violazione da parte del giudice di appello degli artt. 2909 cod. civ. e 324 c.p.c.

1.3. In relazione a tali censure ha formulato il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., chiedendo a questa Corte di dire <se ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c., pur nella formulazione vigente sino al 4.7.2009, il Giudice del merito debba valutare come argomento di prova tutte le risultanze degli atti processuali e se così facendo, in assenza di contestazione di una determinata circostanza di fatto e di sussistenza di giudicato su un’altra circostanza rilevante, possa ritenere come accertato un fatto dedotto dalla parte, del quale tenerne conto nella valutazione presuntiva>.

2. Il motivo, siccome proposto in maniera cumulativa, con riferimento a tutte le diverse ipotesi previste dall’art. 360 cod. proc. civ., è inammissibile, <non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l'insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d'appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi.

Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esso (cfr. ex multis Cass. n. 19443 del 2011; n. 2299 del 2013; n. 25722 del 2014). A tale ultimo riguardo va osservato che l’inestricabile modalità in cui si dispiegano le argomentazioni sviluppate nel motivo e la formulazione di un unico quesito ex art. 366 bis c.p.c. - in violazione del principio più volte ribadito da questa Corte (ex multis, Cass. n. 16345 del 2013), in base al quale l’ammissibilità di motivi formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, è comunque condizionata alla formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati nel motivo cumulativo - rende impossibile cogliere con chiarezza le doglianze prospettate e procedere ad un separato esame delle singole doglianze (come sollecita Cass. Sez. Un. n. 9100 del 2015).

2.1. Del primo motivo inammissibile è anche il quesito che lo conclude, in quanto meramente generico e teorico (v. ex multis Cass. S.U. n. 3519 e 6420 del 2008; n. 4044 del 2009) privo di una idonea specificazione della correlazione con il decisum della corte territoriale, la cui formulazione si risolve - come nel caso in esame - in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presupponga la risposta (cfr. Cass., Sez. un., n. 28536 del 2008 e n. 21672 del 2013), come tale certamente non congrua ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (Cass. n. 4935 del 2014).

3. Con il secondo motivo il ricorrente prospetta due distinti vizi, di violazione di legge (primo profilo) in relazione agli artt. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, nonché vizio logico di motivazione (secondo profilo), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, 4 e 5, c.p.c.

3.1. Lamenta la insufficienza e la illogicità della motivazione della sentenza impugnata laddove i giudici di appello avevano desunto il comportamento antieconomico del contribuente dalla richiesta di attribuzione del numero di partita IVA, che collocava l’inizio dell’attività nell’aprile del 1999, e dalla nomina di un responsabile tecnico per la certificazione degli impianti, posto che la prima circostanza era smentita dalla certificazione prodotta nei giudizi di merito, da cui risultava che l’attività era iniziata il 9 maggio 2000, e la seconda era del tutto irrilevante in quanto la nomina di un responsabile tecnico per la certificazione degli impianti - peraltro neanche retribuito - rispondeva ad un preciso obbligo di legge. Analoghi vizi motivazionali il ricorrente deduce con riferimento alla ritenuta legittimità dell’accertamento di maggiori ricavi desunti dallo svolgimento di una media di tre ore giornaliere di lavoro per 222 giorni all’anno, così determinata sulla base delle circostanze sopra indicate e senza avere adeguatamente valutato l’incidenza del contemporaneo svolgimento di lavoro dipendente a tempo pieno.

3.2. Contesta, infine, il ricorso all’accertamento induttivo di cui agli artt. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, in presenza di contabilità regolarmente tenuta ed in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti da cui potesse evincersi la <incompletezza, falsità, o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione dei redditi e nei relativi allegati> o dai quali si potesse evincere <omissioni e le false o inesatte indicazioni>, come espressamente richiesto dalle citate disposizioni.

3.3. In relazione a tali censure formulava il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., chiedendo a questa Corte di dire <se ai sensi dell’art. 39, DPR 600/73 e dell’art. 54, DPR 633/72 si possono desumere attività non dichiarate dal contribuente sulla base di presunzioni semplici pur in presenza di contabilità regolarmente tenuta e senza l’indicazione di indizi gravi, precisi e concordanti dai quali si possa evincere "incompletezza, falsità, o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione dei redditi e nei relativi allegati> o di <omissioni e le false o inesatte indicazioni", pur in presenza di contestuale rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e di reddito da lavoro dipendente di 49.000.000 di lire annuix.

4. Anche con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente prospetta due distinti vizi, di violazione di legge (primo profilo) in relazione agli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione (secondo profilo), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, 4 e 5, c.p.c.

4.1. Lamenta la violazione da parte del giudice di merito delle citate disposizioni civilistiche e l’insufficienza della motivazione laddove la CTR aveva dedotto il fatto ignoto dello svolgimento di attività artigianale per tre ore al giorno per 222 giorni all’anno, da una serie di fatti noti - costituiti dall’attribuzione di una partita IVA nel maggio 2000, dalla nomina di un responsabile tecnico (peraltro in adempimento di un obbligo di legge), dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, dal conseguimento da tale lavoro dipendente di un reddito di 49 milioni di lire, dalla contabilità regolarmente tenuta - che quel fatto ignoto invece escludevano.

4.2. Deduce, altresì, il vizio di motivazione per avere la CTR omesso di spiegare le ragioni che l’avevano indotta a ritenere corretto il calcolo dei ricavi lordi così come effettuato dall’Ufficio finanziario ed infine, in via subordinata, la violazione del disposto di cui al secondo comma dell’art. 2697 cod. civ., per avere escluso che lo svolgimento di attività dipendente a tempo pieno consentisse il superamento della prova presuntiva.

4.3. Conclude tali censure chiedendo a questa Corte di dire <se ai sensi dell’art. 2697 c.c. sia onere dell’Amministrazione finanziaria provare la pretesa addotta con l’accertamento e se tale onere possa ritenersi assolto ai sensi dell’art. 2727 c.c. pur in assenza di una puntuale indicazione e valutazione di tutte le risultanze processuali ed in particolare delle seguenti circostanze pacifiche: esistenza di un rapporto di lavoro subordinato per 365 giorni all’anno e 8 ore al giorno, reddito da lavoro dipendente di 49 milioni di Lire>.

5. Ritiene la Corte che i motivi, che vanno esaminati congiuntamente essendo strettamente connesse le questioni ivi poste, convergenti circa la critica di inidoneità della motivazione resa dai giudici di appello, siano fondati per le ragioni di seguito illustrate.

6. Va preliminarmente precisato che quelle relative alla tipologia di lavoro subordinato espletato (cioè, a tempo pieno) e all’entità del reddito conseguito (pari a 49.000.000 di lire annui), costituiscono chiare indicazioni dei fatti controversi in relazione ai quali il ricorrente assume che la motivazione sia insufficiente ed inidonea a giustificare la decisione, così consentendo di ritenere adeguatamente formulato, oltre ai quesiti di diritto, anche il c.d. quesito di fatto con riferimento ai dedotti vizi motivazionali.

7. Ricordato, poi, che il vizio di motivazione consiste in un errore intrinseco al ragionamento del giudice verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato (Cass. n. 50 del 2014) e che esso ricorre allorché nel complesso della sentenza sia evincibile la carenza del procedimento logico che ha indotto il giudice al suo convincimento, non chiarendo il percorso motivazionale illustrato dal decidente nella redazione della sentenza, valutato alla stregua di un criterio che prescinde da ogni aspettativa di parte, il nesso di necessaria coerenza logico-argomentativa che in rapporto agli elementi probatori acquisiti nel corso del processo giustifica la regolazione del caso concreto in base alla norma applicata (in termini cfr. Cass. n. 9878 del 2016), osserva la Corte che nella fattispecie in esame è innegabile la sussistenza del lamentato vulnus motivazionale.

7.1. Invero, la CTR nel giudicare la fondatezza dei maggiori ricavi accertati sulla base dello studio di settore applicato al contribuente per l’esercizio dell’attività artigianale di elettricista, ha offerto una giustificazione del proprio assunto, che, in disparte sua correttezza in punto di diritto (pure censurato nei motivi di ricorso), risulta palesemente approssimativa ed insufficiente in relazione alle questioni poste dal ricorrente nelle censure in esame. E ciò alla luce del fatto che, nonostante la puntuale deduzione in ordine allo svolgimento di lavoro a tempo pieno alle dipendenze della I.I. s.p.a. fatta dal contribuente sia nel ricorso di primo grado che in quello di appello ("in parte qua" trascritti ai fogli 6 e 7 del ricorso per cassazione, in ossequio al principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione) e nonostante dalla sentenza di primo grado (opportunamente trascritta in parte qua al foglio 8 del ricorso) risultasse che il contribuente avesse conseguito un reddito da lavoro dipendente di oltre 49 milioni delle vecchie lire, sicuramente incompatibile con lo svolgimento solo parziale di quell’attività lavorativa, i giudici di appello hanno affermato che il ricorrente nulla aveva detto <in ordine al tipo di rapporto di lavoro, se a tempo pieno o parziale; per il che, ed in mancanza di tale esaustiva prova, la valutazione operata dall’Ufficio> poteva ritenersi sufficiente a legittimare l’accertamento di maggiori ricavi.

7.2. Peraltro, i giudici di appello, pur in presenza dei suddetti elementi probatori, hanno erroneamente rilevato l’omesso adempimento da parte del ricorrente all’onere - sul medesimo incombente - di <allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato> (Cass. n. 3415 del 2015) e, quindi, vincere la presunzione di maggiori ricavi accertati in applicazione degli studi di settore, in tal modo altresì dimostrando di non aver fatto buon governo della prova, anche di tipo presuntivo, giacché il contribuente aveva fornito prova di svolgere una concomitante attività lavorativa dipendente dalla quale conseguiva redditi che lasciavano logicamente presumere lo svolgimento di quell’attività a tempo pieno, che è circostanza che richiedeva ai giudici di appello un più adeguato ed approfondito sforzo motivazionale nello statuire la legittimità dell’accertamento di maggiori ricavi che l’Amministrazione finanziaria aveva fondato sull’espletamento dell’attività artigianale per un monte di tre ore giornaliere per 222 giorni all’anno.

8. In conclusione, il secondo e terzo motivo di ricorso vanno accolti, il primo dichiarato inammissibile, la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia affinché riesamini la fattispecie e regoli le spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.