Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 novembre 2017, n. 28061

Tributi - Verifica generale - Accertamento parziale ex art. 41 -bis, D.P.R. n. 600 del 1973 - Motivazione per relationem al p.v.c. - Legittimità

 

Fatti di causa

 

1. S. S.r.l., successivamente incorporata in D. & G. S.r.l. con socio unico, ricorre con sei mezzi, nei confronti dell'Agenzia delle entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.T.R. della Lombardia ha rigettato l'appello da essa proposto, ritenendo legittimo il recupero a tassazione, a fini Irpeg e Irap relative all'esercizio chiuso al 31 marzo 2003, di ricavi non contabilizzati per un ammontare complessivo di € 2.445.810; ricavo operato con accertamento parziale sulla base delle segnalazioni conseguite ad una verifica generale svolta nei confronti anche della società controllante, D. & G. Industria S.p.A.. Dall'esame delle relazioni commerciali tra le due società era infatti emersa, secondo i verificatori, la tenuta, da parte di S., di una contabilità di magazzino assolutamente inattendibile quanto all'identificazione e alla valorizzazione delle rimanenze, non essendo queste raggruppate in categorie omogenee per natura e per valore.

Nel disattendere le contestazioni iterate dalla contribuente circa la legittimità del ricorso allo strumento dell'accertamento parziale oltre che del rinvio per relationem al p.v.c., nel merito i giudici d'appello hanno rilevato che "la ricorrente non aveva prodotto alcun documento contabile o extracontabile che consentisse una diversa valutazione di merito, ma si era limitata ad elaborare delle tabelle ricostruttive delle giacenze di magazzino con risultati diversi da quelli indicati dall'Ufficio ma anche diversi da quelli indicati in bilancio e nella nota integrativa" e, inoltre, quanto alla legittimità e attendibilità della ricostruzione induttiva dei ricavi omessi, che l'Ufficio era andato "concretamente a verificare che i valori forniti dalla società fossero effettivamente rispondenti alla merce di magazzino", accertandone la "discrepanza".

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ., con la quale ha chiesto in subordine applicarsi, per il principio del favor rei, il trattamento sanzionatorio previsto per le violazioni contestate quale risultante a seguito delle modifiche apportate, al d.lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 471, dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso S. S.r.l. denuncia violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., degli artt. 41-bis e 43, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, avendo i giudici d'appello ritenuto legittimo il ricorso allo strumento dell'accertamento parziale, ex art. 41-bis cit., pur a seguito di una verifica generale, che aveva dato luogo ad un processo verbale di constatazione, ciò in elusione del principio dell'unicità dell'accertamento sancito dalla seconda delle citate disposizioni, nonché dell'esigenza di tutela, costituzionalmente tutelata, dell'affidamento del contribuente sulla definitività della propria posizione fiscale.

La censura è infondata.

L'art. 41 -bis, comma primo, d.P.R. n. 600 del 1973, prevedeva, nel testo vigente sino al 31/12/2004, che "senza pregiudizio dell'ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall'articolo 43, gli uffici delle imposte, qualora, dalle segnalazioni effettuate al Centro informativo delle imposte dirette, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell'anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l'esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazioni in società, associazioni ed imprese di cui all'articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili. Non si applica la disposizione dell'articolo 44".

Disposizione analoga era recata — ed è recata tuttora — quanto all'IVA, dall'art. 54, comma quinto, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

L’art. 43, comma terzo, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, così infine recitava: "Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte".

A decorrere dall’ 1/1/2005, il testo dell'art. 41-bis, comma primo, d. P.R. n. 600 del 1973 si presenta, per quanto qui rileva, modificato con l'aggiunta dell'inciso: "... qualora dagli accessi, ispezioni e verifiche nonché dalle segnalazioni effettuati ...".

Come osservato, anche di recente, da questa Corte (Cass. 28/10/2015, n. 21992; 23/12/2014, n. 27323) non vi è nella norma "alcun appiglio testuale che lasci intendere che l’amministrazione non possa emettere un avviso parziale allorché disponga di elementi tali da consentire di procedere uno actu ad un accertamento unitario e globale della posizione del contribuente", essendo "ininfluente la circostanza che l'amministrazione possa procedere con un accertamento parziale solo se la segnalazione provenga da un soggetto ad essa estraneo".

L'accertamento parziale è dunque uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, laddove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano perciò, in ragione della loro oggettiva consistenza, l'esercizio di un ufficio valutativo ulteriore rispetto a quello che si risolve nel recepire e fare proprio il contenuto della segnalazione. Da qui la Corte ha tratto la convinzione, a cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, che l'accertamento parziale, normativamente distinto dall'accertamento integrativo, possa basarsi, pure nel testo vigente sino al 31/12/2004, anche su una verifica generale, in quanto "la segnalazione costituisce solo l'atto di comunicazione che consente l'accertamento, distinto dall'attività istruttoria, anche se di modestissima entità, da esso necessariamente presupposta" (Cass. n. 21992 del 2015, cit.; Cass. 13/11/2013, n. 25481; Cass. 26/05/2010, n. 12919; Cass. 05/02/2009, n. 2761).

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 42, commi secondo e terzo, d.P.R. n. 600 del 1973; 7, comma 1, legge 27 luglio 2000, n. 212; 3, commi 1 e 3, legge 7 agosto 1990, n. 241; nonché dell'art. 24 Cost., in relazione all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto legittimo l'accertamento impugnato benché carente della indicazione, in motivazione, degli elementi che giustificavano un accertamento di carattere induttivo ai sensi dell'art. 39, secondo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973. Secondo la ricorrente, invero, l'Amministrazione si è limitata a rilevare presunte irregolarità nella contabilità di magazzino, senza però affermare alcunché in ordine alle ragioni in forza delle quali le predette violazioni devono ritenersi di tale entità da comportare la non attendibilità delle scritture contabili nel loro complesso.

Anche tale doglianza si appalesa infondata.

Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il requisito motivazionale dell'avviso di accertamento esige, ai sensi dell'art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, l'indicazione delle norme in tesi violate e dei fatti che integrerebbero la relativa inosservanza, mentre non è necessaria la formulazione delle argomentazioni giuridiche a sostegno dell'atto, né la valutazione critica degli elementi acquisiti, restando la relativa problematica influente nel giudizio d'impugnazione dell'atto, al diverso fine dell'indagine sul fondamento della pretesa impositiva (Cass. 17/12/2001, n. 15914; v. anche, ex multis, Cass. 11/11/2011, n. 23615; Cass. 21/11/2001, n. 14700).

È poi appena il caso di rammentare che, secondo indirizzo altrettanto consolidato, l'onere dell'Ufficio, in tali limiti inteso, di mettere in grado il contribuente, attraverso la motivazione dell'atto impositivo, di conoscere le ragioni della pretesa tributaria, può essere assolto per relationem mediante il riferimento a elementi offerti da altri documenti conosciuti o conoscibili dal destinatario, come il processo verbale di constatazione della Guardia di finanza che sia stato — come nella specie, secondo quanto pacifico in atti — notificato o consegnato al contribuente; né un tale rinvio può considerarsi illegittimo, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (v. e plurimis Cass. 13/10/2011, n. 21119; Cass. 10/02/2010, n. 2907).

Alla luce di tali principi regolatori non può dubitarsi, nel caso di specie, del pieno rispetto da parte dell'Ufficio dell'onere motivazionale imposto dalla norma che si assume violata, anche con riferimento alla necessaria indicazione dei presupposti che giustificano il ricorso al mezzo induttivo; nel richiamato p.v.c., infatti, si dà atto — come testualmente desumibile dall'ampio stralcio che ne è trascritto nello stesso ricorso (v. pagg. 25-27) — dell'emergenza di "gravi incongruenze, inattendibilità e irregolarità riscontrate nella valutazione delle rimanenze" e si specificano anche gli elementi posti a base di tale valutazione attraverso il puntuale richiamo alle operazioni compiute e ad altre parti dello stesso processo verbale, restando, come detto, irrilevante ai fini del rispetto della norma predetta, la mancanza di ulteriori approfondimenti e argomentazioni critiche circa le ragioni che inducono a valutare in siffatti termini le emergenze indicate.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., in relazione all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. giudicato in base a un criterio di riparto dell'onere probatorio invertito rispetto a quello da applicarsi nella specie, avendo addossato alla contribuente l'onere di fornire la prova contraria all'affermazione dell'Ufficio.

Anche tale censura è infondata.

Non può negarsi, infatti, che il giudizio condotto dalla Commissione regionale si muova, almeno sul piano formale, secondo linee conformi ai criteri di riparto dell'onere probatorio in materia.

Occorre al riguardo rammentare che, ove ricorrano uno o più dei presupposti di cui al secondo comma dell'art. 39 d.RR. n. 600 del 1973, l'Ufficio procede all'accertamento "sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza". In tal modo esso è autorizzato a determinare il reddito complessivo del contribuente medesimo con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall'ufficio (v. Cass. 13/02/2006, n. 3115; Cass. 18/06/2003, n. 9755; Cass. 02/12/2002, n. 17016).

In tale prospettiva si è correttamente mosso il giudice di merito nel valutare la legittimità dell'accertamento, avendo ritenuto sussistente il presupposto previsto dalla norma citata e avendo conseguentemente spostato il baricentro del proprio ragionamento sull'esame dell'idoneità delle prove offerte dalla contribuente a condurre a una diversa valutazione di merito.

Le contestazioni mosse dal ricorrente, ancora una volta, attengono al merito di tale valutazione (essendo in particolare dirette a contestare la sussistenza o la gravità delle irregolarità contabili divisate a fondamento dell'accertamento induttivo: irregolarità, come detto, ritenute sussistenti dai giudici di merito), e come tali impongono nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell'onere probatorio.

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce poi violazione e falsa applicazione "del combinato disposto degli artt. 92, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986 e 39, comma primo, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973", in relazione all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere deciso secondo un'interpretazione delle norme inutilmente rigida, in quanto slegata dalle effettive modalità di svolgimento dell'attività da parte della società.

Posto infatti che questa aveva ad oggetto la rivendita all'ingrosso di capi di abbigliamento e accessori acquistati in stock promiscui, per prezzi prestabiliti in modo forfettario, sostiene che l'adozione della classificazione "per natura" della merce sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini della valutazione del valore del magazzino, oltre che inutilmente gravosa per la società, atteso che la stessa non avrebbe di fatto comportato una differente valorizzazione delle rimanenze finali, ciò in quanto i beni medesimi, una volta acquistati dalla società, perdono la loro identità "per natura", rilevano soltanto per numero e diventano distinguibili soltanto in base al loro valore.

La censura è inammissibile, in quanto non pertinente alla effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

Essa postula invero che, secondo la ricostruzione operata e avallata dalla Commissione regionale, all'accertamento relativo alla sussistenza di gravi e ripetute irregolarità nella tenuta delle scritture contabili, l'Ufficio sia pervenuto solo in ragione della adozione di un criterio di valutazione e raggruppamento delle rimanenze finali eccessivamente rigido e non consono alla natura e agli obiettivi propri dell'attività commerciale svolta.

Così non è, posto che dato di fondo è proprio rappresentato dalla accertata sussistenza, nella contabilità della società, di lacune o incongruenze tali da non consentire di riscontrare l'adozione di un sistema coerente e trasparente di catalogazione e valutazione delle rimanenze finali, seppur condotto secondo i criteri indicati come corretti dalla ricorrente, e ciò prima ancora di apprezzarne la correttezza in rapporto ai criteri dettati dall'art. 92 t.u.i.r..

Al di là di tale rilievo, di per sé assorbente, mette conto peraltro soggiungere che l'interpretazione delle norme poste a base della censura in esame non è condivisibile.

A norma dell'art. 92, comma 1, secondo periodo, d.P.R. n. 917 del 1986, "le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici o a norma dell'articolo 93, sono assunte per un valore non inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e per valore e attribuendo a ciascun gruppo un valore non inferiore a quello determinato a norma delle disposizioni che seguono".

Come fondatamente obiettato dall'Agenzia controricorrente, il tenore testuale della norma non autorizza, in alcun caso (salvo, come appresso sarà detto, quanto previsto dall'ultimo comma), l'adozione di criteri di valutazione delle rimanenze che possa prescindere dal previo raggruppamento dei beni "in categorie omogenee per natura e per valore".

La valutazione delle rimanenze incontra un passaggio obbligato nel raggruppamento dei beni per categorie omogenee per natura e per valore. I gruppi omogenei così individuati costituiscono l'unità minimale di valutazione cui applicare i criteri elencati di seguito.

La norma — analoga a quella dettata dall'art. 15, comma secondo, d.P.R. n. 600 del 1973 (il quale precisa che l'inventario, oltre agli elementi prescritti dal codice civile, deve indicare la consistenza dei beni raggruppati in categorie omogenee per natura e per valore e il valore attribuito a ciascun gruppo) — risponde all'esigenza di evitare incertezze e difficoltà tecnico-pratiche nei processi di valutazione delle rimanenze, atteso che l'omogeneità dei gruppi creati rende immediata la valutazione di quantità anche rilevanti di merci.

In particolare, il raggruppamento per natura dei beni va interpretato come riferimento alla natura economica e merceologica dei beni stessi, nel senso che i beni andranno catalogati in relazione alle loro proprietà e caratteristiche merceologiche, ossia al tipo di mercato cui sono destinati o al tipo di bisogno che tendono a soddisfare; il contestuale riferimento al valore deve poi esser inteso come riferimento a beni di identico contenuto economico che determina anche un identico valore monetario al momento dell'aggregazione. Il gruppo, in altre parole, andrà determinato raggruppando beni con caratteristiche merceologiche identiche e con valore unitario più o meno coincidente. Detti criteri, se da un lato evitano di includere nello stesso gruppo beni aventi natura differente, ma con valore unitario simile, dall'altro, portano a non poter aggregare beni di identica natura economico-merceologica, ma con valore monetario notevolmente differente.

Né deroga alcuna all'adozione di tali criteri è prevista ove si tratti di impresa sottratta all'obbligo di tenuta delle scritture ausiliarie previste dall'art. 14 d.P.R. n. 600 del 1973. Il comma 1, sopra trascritto, dell'art. 92 t.u.i.r. individua bensì, infatti, quale criterio primario di valutazione delle rimanenze di magazzino, quello dei costi specifici, quali desumibili per l'appunto dalle scritture ausiliarie di magazzino; in alternativa, tuttavia, la stessa disposizione prevede che la valutazione delle rimanenze di magazzino, raggruppate per categorie omogenee, possa essere fatta con qualsiasi criterio o metodo di stima, con la limitazione che il valore liberamente determinato non sia inferiore a quello determinato in base ai criteri di valutazione successivamente elencati ai commi 2, 3 e 4.

Conferma indiretta della insostenibilità della interpretazione proposta dalla ricorrente può infine ricavarsi dalla norma di cui al comma 8 dello stesso art. 92 t.u.i.r.

Questo prevede — ma solo per gli esercenti attività di commercio al minuto, quale non può considerarsi per sua stessa ammissione la società odierna ricorrente, ed al fine di rispondere ad esigenze di semplificazione e di razionalizzazione nella gestione dell'attività comprendente beni con caratteristiche merceologiche talvolta notevolmente differenti — la possibilità di applicazione del metodo di valutazione del prezzo al dettaglio (c.d. Retail Inventory Method), disponendo che il valore determinato in applicazione di detto metodo f risulta fiscalmente rilevante anche in deroga al criterio del valore minimo di valutazione previsto al comma 1 dello stesso articolo.

In sede di aggiornamento dell'OIC 13 è stato precisato che tale metodo "approssima il costo effettivo delle rimanenze quando si valutano rimanenze di grandi quantità di beni soggetti a rapido ritiro con margini di importo simile e per le quali è particolarmente difficoltosa l'adozione di altri metodi di calcolo del costo".

Secondo espressa previsione della norma, però, l'adozione di un siffatto metodo è consentita a condizione che nella dichiarazione dei redditi o in un prospetto allegato siano illustrati dettagliatamente i criteri e le modalità di applicazione dello stesso. È da ritenere, pertanto, che la mancanza del prospetto di dettaglio autorizzi l'Amministrazione finanziaria a riprendere a tassazione il maggior valore delle rimanenze determinato in base ai criteri ordinari di cui allo stesso art. 92.

Non sarà inutile al riguardo rimarcare, in conclusione, che ai sensi dell'art. 1, lett. d), (inattendibilità della contabilità degli esercenti attività d'impresa) del d.P.R. 16 settembre 1996, n. 570 (Regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli esercenti attività d'impresa, arti e professioni), le irregolarità delle scritture obbligatorie degli esercenti attività d'impresa si considerano gravi e rendono inattendibile la contabilità ordinaria di tali soggetti, quando, fra l'altro, "i criteri adottati per la valutazione delle rimanenze non sono indicati nella nota integrativa o nel libro degli inventari".

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia insufficiente motivazione in ordine a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., in relazione alla affermata sussistenza di una "discrepanza" tra l'ammontare delle rimanenze finali risultanti dalla contabilità della società e le giacenze fisiche presenti nel magazzino.

Ribadito che, trattandosi di vendita di articoli di abbigliamento quale impresa stocchista, la merce assume rilevanza in relazione non alla natura o alla tipologia, ma al numero dei pezzi, raggruppati e distinti solo in relazione al valore d'acquisto, secondo prezzi rimasti costanti nel tempo (donde l'errore in cui sarebbe incorso l'Ufficio nel prendere in considerazione il numero di "capi" di abbigliamento invece che quello, maggiore, dei "pezzi" di cui ciascuno di questi è composto, e nel pretendere inoltre l'indicazione di voci distinte per anno di formazione) — lamenta la ricorrente che la C.T.R. ha invece tout court avallato tale ricostruzione senza spiegare le ragioni del proprio convincimento e senza esaminare gli elementi indicati da essa ricorrente a giustificazione della diversa contabilizzazione delle rimanenze di magazzino: omissione — aggiunge — tanto più rilevante considerato che in sede di verifica nessun tipo di controllo era stato effettuato sulle giacenze fisiche presenti in magazzino e che, inoltre, secondo quanto non controverso in causa, la società non aveva l'obbligo di tenere le scritture ausiliarie di cui all'art. 14 d.P.R. n. 600 del 1973.

6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, infine, analogo vizio motivazionale in relazione all'operato recepimento, in sentenza, della determinazione del valore delle rimanenze finali.

Rileva che, come dedotto nei gradi di merito, anche a seguire i criteri adottati dai verificatori, la quantificazione del valore delle rimanenze finali risulterebbe diversa da quella determinata nel p.v.c.

e, conseguentemente, nell'avviso di accertamento.

Richiama al riguardo, trascrivendole per ampi stralci, le osservazioni critiche svolte nell'atto d'appello con riferimento agli elaborati allegati al p.v.c., rilevando in particolare:

a) quanto al primo di essi (prospetto dettagliato degli acquisti effettuati dal fornitore D&G raggruppati per categoria: all. 1/6), l'incomprensibile determinazione dei prezzi unitari;

b) quanto al secondo (prospetto dettagliato delle vendite dei medesimi articoli, raggruppati per categoria: all. 1/7) che la descrizione degli articoli contenuta nei raggruppamenti non corrisponde a quella del primo allegato, emergendo evidenti

incongruenze, anche numeriche (il totale di pezzi nella categoria acquisti essendo di n. 139, quello di pezzi nella categoria vendita di n. 14.742).

Soggiunge di avere anche evidenziato l'esistenza di differenze positive (in alcuni casi cioè gli articoli venduti risultano, secondo le classificazioni elaborate dai verificatori, superiori alla corrispondente categoria di acquisti), delle quali però l'Ufficio non ha tenuto conto, limitandosi a presumere maggiori ricavi relativamente alle categorie per le quali emergevano differenze negative (un numero di acquisti, cioè, superiore alle vendite).

Rileva ancora di avere pure rimarcato che nel secondo prospetto, nella categoria accessori, sono sicuramente da eliminare n. 27.260 pezzi relativi a accessori interni per abiti; che, comunque, associando il prezzo medio ponderato di vendita utilizzato dall'Ufficio al numero totale dei pezzi la cui cessione è stata presunta in sede di accertamento (pari a 126.679), si sarebbe dovuto giungere a un ammontare complessivo dei maggiori ricavi lordi pari a € 541.488,13 e non a € 2.445.810; che, infine, avrebbe dovuto tenersi conto dei costi relativi ai maggiori ricavi presunti; che il procedimento penale, nei confronti del legale rappresentante della società, per infedele dichiarazione dei redditi, si è concluso con l'archiviazione dello stesso; che infine le contestazioni mosse all'accertamento erano state anche suffragate dall'analisi, in punto di tecnica economico-aziendale, effettuata dal Prof. L. P., associato di Economia Aziendale presso l'Università Commerciale Bocconi di Milano.

Tutto ciò premesso la ricorrente lamenta l'omesso esame da parte dei giudici d'appello di tali argomenti ed allegazioni.

7. Anche detti motivi, congiuntamente esaminabili stante la loro intima connessione, sono infondati.

Le censure appaiono invero nel loro complesso dirette a prospettare diversi criteri di calcolo o, più in generale, questioni e argomenti difensivi prettamente di merito, perlopiù attraverso la mera trascrizione di ampi stralci del ricorso in appello, mancando invece una specifica e puntuale indicazione di fatti decisivi (ossia obiettivamente e univocamente idonei a condurre a una diversa decisione) e controversi di cui è stata omessa la valutazione o in ordine ai quali questa si riveli insufficiente o contraddittoria.

È giurisprudenza consolidata di questa Corte che il ricorso per Cassazione con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato ovvero la specificazione d'illogicità, consistente nell'attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l'insanabile contrasto degli stessi.

Ne consegue che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito all'opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti dei fatto, attengono al libero convincimento dei giudici e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5.

Diversamente il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito cui non può imputarsi d'avere omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa all'esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr. tra le altre, Cass. 25/05/2006, n. 12446; Cass. 27/04/2004, n. 8718; Cass. 30/03/2000, n. 3904; Cass. 06/10/1999, n. 11121).

Alla luce dell'indicato principio la sentenza impugnata resiste alle svolte censure.

Posta invero la divisata legittimità del ricorso all'accertamento induttivo, sulla base di presunzioni c.d. supersemplici — del che la C.T.R. ha ravvisato i presupposti con motivazione stringata ma ineccepibile alla stregua delle considerazioni che precedono — ne discende anche l'incensurabilità dell'avallo del metodo seguito dall'Ufficio per la ricostruzione del reddito (attraverso l'esame delle fatture di acquisto e vendita; la media ponderata dei prezzi di vendita dei singoli tipi di merce acquistata; il raggruppamento di tale merce per categorie omogenee; il recupero come ricavi non contabilizzati delle differenze tra merci di una certa categoria acquistate e merci della medesima categoria rivendute, valorizzando tali differenze ai prezzi di vendita medi ponderati).

In ordine a ciascuno di tali passaggi la ricorrente non prospetta rilievi dotati di obiettività ed evidenza tali da imporsi quali indicatori di rilevanti omissioni o vizi motivazionali.

L'errore di calcolo, in particolare, è affermato in termini non verificabili. Non vengono specificati i presupposti numerici del calcolo la cui determinazione da parte dell'Ufficio sarebbe da considerare inesatta e tale da inficiarne la tenuta logica, né soprattutto da quale fonte di prova ritualmente acquisita al processo e che non sarebbe stata considerata dai giudici emergerebbe univocamente il dato che dovrebbe invece considerarsi esatto e tale da condurre al diverso calcolo proposto.

Quanto alla dedotta necessità di detrarre i costi relativi alla produzione dei maggiori ricavi, va evidenziato che gli stessi non possono essere presunti dall'Ufficio ma vanno provati dal contribuente. Va in proposito rammentato, infatti, che, in presenza dei presupposti per procedere ad accertamento induttivo ai sensi dell'art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 la norma non impone altro onere all'amministrazione ma piuttosto faculta (e onera) il contribuente a offrire la prova contraria, in particolare, quella dell'esistenza di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi. Inoltre, poiché nei poteri dell'amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa, l'onere della prova dell'inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).

Quanto poi all'archiviazione del procedimento penale a carico del legale rappresentante della società, è appena il caso di rilevare che, stante la diversità dei piani valutativi, nessun vincolo o rilevanza se ne può trarre ai fini della presente controversia tributaria.

8. Come si è sopra anticipato, la ricorrente, con la memoria, ha chiesto l'applicazione dello ius superveniens di cui al d.lgs. n. 158 del 2015 e, di conseguenza, la rideterminazione delle sanzioni applicate con riferimento alla ripresa cui si riferisce la vicenda giudiziale.

Tale richiesta non può essere accolta.

Come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, alla stregua di orientamento prevalente al quale si ritiene di dover dare continuità, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non rendono la sanzione irrogata automaticamente illegale, perché non operano in maniera generalizzata quale favor rei, escludendosi pertanto che la

mera deduzione, in sede di legittimità, dello ius superveniens, senza specifiche allegazioni riferite al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione entro la cornice edittale, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata (v. Cass. 07/10/2016, n. 20141; 03/02/2017, n. 2880; 12/04/2017, n. 9505).

Nel caso di specie, il riferimento al fatto che le sanzioni siano state commisurate in importo pari al minimo del range in allora previsto non può al riguardo considerarsi dato decisivo.

Non è dato infatti verificare, in mancanza della riproduzione degli elementi considerati dall'Amministrazione per la commisurazione della sanzione, se questa sia stata quantificata nel minimo all'epoca dei fatti previsto in assenza di ogni altra considerazione dei criteri evocati dall'art. 7 del d.lgs. n. 472/97, proprio perché era il minimo consentito dalla legge, in quanto tale, a ritenersi sanzione congrua, oppure se l'Ufficio abbia quantificato la sanzione avuto riguardo al quantum, indipendentemente dal fatto che esso fosse anche la sanzione minima allora applicabile, ritenendo che proprio quel quantum fosse di per sé adeguato alla gravità dell'illecito accertato, in base tra l'altro alla condotta dell'agente ed alle sue condizioni economiche e sociali (cfr. Cass. 09/06/2017, nn 14406 e 14407; Cass. 13/09/2017, n. 21253).

Il fatto che sia tuttora prevista una forbice tra un minimo ed un massimo non consente di procedere ad un'automatica applicazione della novella, come questa Corte ha fatto in relazione ad altri casi in cui ha potuto direttamente tener conto di una modifica favorevole (a proposito di sanzioni per il ritardo nel versamento dell'accisa su birre e bevande alcoliche, vedi Cass. n. 8751 del 2013); d'altronde, la circostanza che il quantum applicato sia tuttora compreso nella forbice edittale rende incensurabile la statuizione (v. in termini Cass. 14/04/2017, n. 9670).

9. In ragione delle considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.