Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 aprile 2017, n. 10122

Tributi - Accertamento parziale - Recupero di costi indebitamente dedotti - Acquisto di separate porzioni di una unità immobiliare

 

Fatti di causa

 

La società Nuova R. s.a.s. e uno dei soci (V. O.) hanno acquistato separate porzioni di una unità immobiliare in Venezia, per il prezzo di € 2.560.000,00 le porzioni acquistate dalla società e per il prezzo di € 290.000,00 la porzione acquistata dal socio.

L'Agenzia delle Entrate ha rilevato che i valori unitari della porzione acquistata dal socio erano inferiori rispetto quelli delle porzioni acquistate dalla società. Da ciò n'è derivato, previa riconduzione dei rispettivi acquisti a proporzioni coerenti con il valore acquistato da ciascuno, l'emissione nei confronti della società di due avvisi di accertamento, con i quali, in relazione alla vicenda di cui sopra, furono determinati maggiori ricavi per gli anni 2005 e 2006, aumentati (i ricavi del 2005) di un ulteriore importo derivante dalla vendita di due unità immobiliari, che l'Amministrazione finanziaria assumeva ceduti dalla società a prezzi inferiori ai valori OMI.

Di riflesso ulteriori avvisi furono emessi nei confronti dei soci ai fini Irpef.

I contribuenti hanno impugnato gli avvisi senza esito davanti alla Commissione tributaria provinciale di Venezia, che ha rigettato il ricorso con sentenza poi confermata dalla Commissione tributaria regionale del Veneto (Ctr).

Contro la sentenza in grado d'appello la società e i soci propongono ricorso per cassazione sulla base di dieci motivi, cui l'Agenzia delle Entrare reagisce con contro ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Fra la pluralità dei motivi di ricorso, riveste carattere logicamente prioritario il secondo motivo (prima parte), con il quale i ricorrenti deducono, con riferimento all'annualità 2005, la violazione degli artt. 39 e 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973. In particolare la violazione di legge è denunciata sotto un duplice profilo: perché l'art. 41-bis legittimerebbe l'accertamento parziale solo sulla base di elementi certi e non di presunzioni; perché la rettifica parziale in ogni caso potrebbe avere ad oggetto solo elementi positivi di reddito, mentre nella specie l'accertamento avrebbe fatto emergere non ricavi, ma semmai costi non inerenti.

Il motivo è infondato. È stato chiarito che "l'accertamento parziale, che è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n.633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare (Cass. n. 21984 del 2015)".

In quanto al fatto che l'accertamento parziale non potrebbe essere utilizzato per il recupero di costi indebitamente dedotti, la censura non è pertinente alla fattispecie, in quanto la Commissione tributaria regionale ha ritenuto integrata l'ipotesi dei maggiori ricavi e quella della deduzione di costi non inerenti.

Solo per completezza di esame si rileva che la interpretazione della  data dai ricorrenti non è coerente con il testo della norma dell'art. 41 -bis cit. applicabile ratione temporis, che nella seconda parte legittimava (e legittima ancora) l'accertamento parziale anche quando risultino elementi "che consentono di stabilire [...] l'esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti".

Con la seconda parte del motivo, la sentenza è censurata ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., proprio in relazione al fatto che la Ctr aveva ritenuto ricavi non contabilizzati quelli che al limite avrebbero potuto essere recuperati quali costi non inerenti.

Per questa parte il motivo è privo di profili autonomi rispetto alla censura avanzata con il primo motivo, al cui esame pertanto si rinvia.

Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti, ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c, censurano la sentenza per non avere tratto le esatte implicazioni dalla premessa di fatto secondo cui la società e il socio acquistarono distinte porzioni del medesimo immobile per valori diversificati.

Il motivo attacca la sentenza in due punti: a) le conseguenze tratte dalla diversità dei valori unitari dei due acquisti, che sono consistite in una diversa distribuzione del prezzo complessivo del fabbricato fra i due acquirenti, operata mediante attribuzione di un valore inferiore alle porzioni acquistate dalla società con un correlativo aumento, per identico importo, del valore delle porzioni acquistate dal socio; b) le implicazioni di tale diversa ripartizione: la Ctr, posta la diversa ripartizione del complessivo valore di acquisto, ha ulteriormente ritenuto che la parte di prezzo e dei costi sostenuti dalla società, in eccedenza rispetto a quelli derivanti da quella ripartizione, costituissero maggiori ricavi, mentre coerentemente avrebbero dovuto essere considerati costi non inerenti.

Il motivo è inammissibile. Nel caso di specie è applicabile, in relazione alla data di pubblicazione della sentenza, la norma dell'art. 54, co. 1, del d.l. n. 83 del 2012, convertito in I. n. 134 del 212, che ha modificato il n. 5 del primo comma dell'art. 360 c.p.c, prevedendo, quale motivo di ricorso per cassazione, l'"omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti". Le Sezioni Unite di questa Suprema corte (sentenza n. 8053 del 2014) hanno delineato l'ambito del controllo demandato al giudice di legittimità sulla base della riformulazione della norma in questi termini: "Il controllo previsto dall'art. 360. c.p.c., nuovo n. 5) concerne [...] l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extra testuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti [...]. La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 - il fatto storico in cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra testuale (emergente dagli atti processuali) da cui ne risulti l'esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione fra le parti, la decisività del fatto stesso".

Nella stessa pronuncia le Sezioni Unite hanno inoltre evidenziato come "nella riformulazione dell'art. 360, c.p.c., n. 5) scompare ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (che pur cambia in buona misura d'ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà".

Venendo ora all'esame del motivo di ricorso, va rilevato che esso è coerente con la nuova formulazione dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. solo nella rubrica, nella quale si fa riferimento all’"omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti", mentre nella sostanza deduce non un "omesso esame", bensì un "vizio di motivazione": in realtà il motivo è evidentemente inteso a sostenere che il fatto all'origine dell'accertamento (e cioè la diversità dei valori unitari di acquisto e il conseguente rilievo della non coerente ripartizione dei costi) avrebbe giustificato una conclusione diversa rispetto a quella fatta propria dalla sentenza, semmai un accertamento nei confronti della socia e non, come di fatto avvenuto, nei confronti della società; e in ogni caso che l'accertamento nei confronti della società avrebbe al limite potuto fare emergere costi non inerenti e non ricavi non contabilizzati.

Il terzo motivo deduce contemporaneamente profili di censura incompatibili, quale l'omesso esame di fatti decisici (art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.) e la nullità della sentenza per incongruenza e apparenza della motivazione (art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.).

Il motivo non fa altro che ripercorrere le medesime censure dedotte con il primo motivo, differenziandosene perché fra i fatti di cui si lamenta l'omesso esame da parte della Ctr è inserito il criterio in base al quale fu operata la diversa distribuzione fra i due acquirenti del prezzo complessivo del fabbricato, essendo stato utilizzato il valore delle porzioni post ristrutturazione, laddove, secondo i ricorrenti, sarebbe stato più corretto utilizzare i metri quadri o i valori millesimali.

Il motivo è inammissibile, perché anche in questa caso, sotto la veste formale dell’"omesso esame", la ricorrente deduce in realtà un "vizio di motivazione". A tale profilo di inammissibilità se ne deve aggiungere un altro, derivante dal fatto che i ricorrenti si dolgono dei criteri utilizzati dal Fisco per operare la diversa ripartizione del prezzo di acquisto e ne propongono degli altri, in modo però solo formale, senza alcuna spiegazione del perché tali diversi criteri avrebbero garantito un risultato più attendibile e diverso rispetto al metodo in concreto utilizzato. Il fatto a cui impropriamente i ricorrenti riferiscono l'omesso esame, pertanto, non è neanche decisivo.

Il quarto motivo deduce violazione dell'art. 7 della I. 212 del 2000 e dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973; contemporaneo omesso esame di fatti decisici per il giudizio sotto il profilo di una motivazione incongrua e solo apparente in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.

Il motivo presente una pluralità di profili inammissibilità. In primo luogo perché sono mescolati profili di censura eterogenei e incompatibili; in secondo luogo per difetto di autosufficienza: la sentenza è censurata per non avere rilevato carenze motivazionali dell'avviso di accertamento, che però non è trascritto (Cass. n. 3289/2014); in terzo luogo perché i medesimi fatti sono ora censurati con riferimento all'avviso di accertamento, ora con riferimento alla motivazione della sentenza, in un coacervo inestricabile di censure dove sono confusi due piani diversi.

E' in ogni caso manifestamente errata la tesi secondo cui i provvedimenti impositivi possono essere sì motivati per relationem, fermo restando che l'atto richiamato deve comunque essere allegato all'avviso di accertamento, anche se questo ne riproduca il contenuto essenziale o se il diverso atto sia stato già portato a conoscenza del contribuente.

La tesi è, infatti, manifestamente contraria alle norme e alla giurisprudenza di questa Suprema corte in tema di motivazione per relationem degli atti impositivi. E' vero che l'art. 7, comma 1, della I. 212 del 2000 prevede che l'atto richiamato debba essere allegato; ma nelle singole leggi di imposta si ammette che l'atto richiamato possa non essere allegato, se l'avviso di accertamento ne riproduce il contenuto essenziale (d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42; d.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma quinto). La giurisprudenza ha poi chiarito che possono non essere allegati gli atti già conosciuti dal contribuente, come il processo verbale di constatazione, o già notificati o comunque noti o in possesso del contribuente (Cass. n. 2462/2001; n. 7360/2011).

E' inammissibile anche il quinto motivo, con il quale si deduce l'omesso esame di fatti decisivi e contemporaneamente nullità della sentenza in relazione ai sensi dell'art. 360 per omessa pronuncia sulla eccezioni cui i ricorrenti avevano denunciato l'illegittimità del metodo seguito per l'accertamento.

Ancora una volta i ricorrenti ripercorrono la vicenda, dolendosi del fatto che la Commissione tributaria regionale aveva ritenuto che la società si fosse accollata i costi della complessiva operazione oltre la misura di sua competenza. Ma è chiaro che in questo modo non si deduce alcuna "omissione" nel senso richiesto dall'art. 360, comma primo, n. 5, ma nella sostanza è censurata la valutazione complessiva che la sentenza ha dato della vicenda, pretendendone una diversa.

In ordine alla seconda parte del motivo (omessa pronuncia sulla deduzione con cui fu denunciata l'illegittimità del metodo seguito per operare la rettifica), si è in presenza di un chiaro esempio di rigetto implicito: nel momento in cui la Commissione tributarie regionale ha rigettato l'appello, ha implicitamente rigettato ogni deduzione incompatibile con quell'esito del giudizio, comprese naturalmente le deduzioni intese a minare la legittimità del metodo accertativo (Cass. n. 17956/2011).

Con il sesto motivo la sentenza è censurata per violazione degli art. 13, 21, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, degli art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 62-sexies d.l. 431 del 1993, là dove aveva ritenuto che lo scostamento del prezzo dai valori OMI fosse sufficiente a giustificare l'accertamento.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza: in mancanza di trascrizione dell'avviso di accertamento non è possibile stabilire quali siano stati i criteri utilizzati per la rideterminazione del valore di vendita dei due immobili ceduti dalla società nel 2005, in particolare se effettivamente l'accertamento su questo diverso aspetto si giustificasse esclusivamente sul rilievo dello scostamento del prezzo dai valori OMI o se c'erano altri elementi, come si sostiene da parte dell'Agenzia delle Entrate nel controricorso.

Il settimo motivo deduce omesso esame di fatti controversi, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. e contemporanea nullità della sentenza per motivazione apparente, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.

Di là dalla discutibile scelta di mescolare profili di censura eterogenei e logicamente incompatibili, il motivo reitera censure già proposte nei precedenti motivi. Si può aggiungere in relazione ai profili di censure dedotti come errores in procedendo (art. 360, n. 4) che la mancanza della motivazione si configura quando la motivazione "manchi del tutto - nel senso che alla premessa del decidere segua l'enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione - ovvero essa formalmente esista come parte del documento, ma la le sue argomentazione siano svolta in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla come giustificazione del decisum (Cass. S.U., n. 8053/2014 cit; conf. Cass. n. 20112/2009).

L'una e l'altra eventualità non sono ravvisabili nel caso in esame, in cui la motivazione esiste come parte del documento e le argomentazioni svolte permettono di individuarla come giustificazione del decisum.

Con l'ottavo motivo i ricorrenti censurano la sentenza nella parte in cui fu avallata la scelta del Fisco di applicare l'iva sui ricavi presuntivamente accertati e nel non aver colto l'ulteriore errore incorso nell'applicazione dell'aliquota, addebitata in misura del 10%, mentre l'acquisto personale del socio aveva scontato l'aliquota del 4%.

Il motivo presenta più profili di inammissibilità, in primo luogo per la solita mescolanza di censure diverse; in secondo luogo per difetto di autosufficienza, perché la mancata trascrizione dell'avviso non permette di identificare i termini esatti della vicenda e, conseguentemente, di comprendere il significato della censura, che sembra poi preludere non a un errore di fatto, ma semmai di diritto, per cui andava censurata ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c.

E' inammissibile anche il nono motivo, che, sempre con la medesima tecnica della mescolanza di mezzi di impugnazione eterogenei e incompatibili, censura la sentenza per non avere esaminato le eccezioni dei ricorrenti a proposito delle sanzioni comminate alla società e ai soci; a tale profilo di inammissibilità se ne deve aggiungere un altro, derivante dal fatto che le censure sembrano immediatamente riferite all'avviso all'accertamento piuttosto che alla sentenza, fermo l'ulteriore profilo di inammissibilità, già rilevato nell'esame del sesto e dell'ottavo motivo di ricorso, che la mancata trascrizione dell'avviso di accertamento impedisce di comprendere il senso della censura.

E' ugualmente inammissibile il decimo motivo, con il quale si deduce l'omesso esame delle censure riguardanti gli avvisi notificati ai soci. A prescindere dalla solita discutibile tecnica di mescolare mezzi di impugnazione incompatibili, l'omissione non sussiste: la Ctr rigettando il ricorso ha pronunciato sulla totalità delle ragioni di censura che erano state mosse nell'atto di appello, comprese quelle personali ai soci.

In conclusione il ricorso va interamente rigettato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 7.200,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell'art. 1 -bis dello stesso articolo 13.