Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 10 novembre 2017, n. 26651

Tributi - IRAP - Professionisti - Accertamento - Istanza di rimborso

 

Fatti di causa

 

G.M. con ricorso del 15 giugno 2912 ha chiesto a questa Corte, la cassazione della sentenza n. 150/22/11 con la quale la Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha riformato la sentenza n. 120/17/2009 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma che aveva accolto il ricorso di G.M. avverso il silenzio rifiuto che si era formato sull'istanza presentata all'Agenzia delle Entrate, diretta ad ottenere il rimborso dei versamenti Irap effettuati per gli anni di imposta 1999-2003. Secondo La CTR del Lazio, il rimborso non era dovuto per gli anni 1999-2002 perché era stata presentata istanza di condono fiscale la quale preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità di imposta definite in via agevolata ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto (nella specie Irap), per l'anno 2003 per la ragione assorbente che contribuente rientrava in quella categoria di lavoratori autonomi la cui attività è caratterizzata da quegli elementi che configurano un'autonoma organizzazione.

La cassazione è stata chiesta per sei motivi: 1) per violazione dell'art. 23 del Dlgs n. 546 del 1992 del principio di parità delle armi, in relazione all'art. 360 n. 4 cod. proc. civ., per avere la sentenza accolto l'eccezione di merito tardivamente proposta senza rilevare la verificata preclusione per omessa formulazione dell'eccezione nell'atto di controdeduzioni; 2). Per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ., omessa pronuncia per non avere il giudice di appello esaminato l'eccezione di inammissibilità delle nuove prove in appello; 3) per violazione dell'art. 58 secondo comma del D.lgs 546 del 1992 in relazione all'art. 360 n. 4 cod. proc. civ., nonché del principio delle parità delle armi in funzione di un giusto processo; 4) per violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. nonché dell'art. 23 del Dlgs n. 546 del 1992 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per omessa rilevazione del non contestazione dell'Ufficio sui fatti fondato la pretesa del contribuente: 5) per omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. sul fatto decisivo della natura parasubordinata dell'attività svolte dal ricorrente, essenzialmente sindaco e revisore di società; 6) per violazione degli artt. 2 e del D.lgs n. 446 del 1997 come interpretati dalla sentenza n. 156 del 2001 della Corte costituzionale in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere assunto una nozione di attività professionale autonomamente organizzata non suffragata dal dato normativo e dal diritto vivente. L'Agenzia delle Entrate, in questa fase non ha svolta attività giudiziale. Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente si duole del fatto che la CTR del Lazio abbia accolto l'eccezione proposta dall'Ufficio finanziario con la quale veniva dedotto la definizione delle annualità 1999-2002 per effetto di presentazione di dichiarazione integrativa, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 289 del 2002, senza considerare che l'eccezione di che trattasi non poteva trovare utilmente ingresso, in quanto proposta, tardivamente, nel giudizio di primo grado e, cioè, soltanto, con la memoria del 29 gennaio 2009.

1.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte, con la sentenza delle Sezioni Unite 3 febbraio 1998 n. 1099, ha affrontato il tema della distinzione tra eccezioni in senso stretto e non, e della rispettiva loro rilevabilità e, dopo aver ricordato che le prime ricorrono quando la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, ha ritenuto che il giudice deve tener conto dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di utilizzare la sua scienza privata o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere-dovere di rilievo d'ufficio delle eccezioni, facente capo al giudice, si traduce solo nell'attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista; ha quindi precisato che, in entrambi i casi, è necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile. In altre parole, con estrema chiarezza, la Corte, non solo ha distinto tra allegazione dei fatti e loro rilevazione, ma ha precisato che della prima, non solo deve necessariamente farsi carico la parte, ma che questa deve provvedere alla loro acquisizione-allegazione nel rispetto dei tempi processuali previsti dalla legge, per cui, con singolare forza, ha ribadito che, per essere valutati dal giudice, quei fatti devono essere dedotti rite et recte, ossia nella prima difesa utile rispetto al momento della conoscenza - disponibilità dei fatti stessi, ovvero, dal loro emergere come processualmente rilevanti (principi ribaditi, tra le altre, da Cass. Sez. IlI, n. 14581/2007; 7542/2012 e Sez. lav. n. 12353/2010). E, questa Corte ha ribadito in più occasioni che "far valere nei confronti del creditore quale fatto estintivo l'esistenza di una conciliazione (o transazione) non integra un'eccezione in senso stretto, ma la relativa circostanza, per essere presa in esame dal giudice, deve essere dedotta nella prima difesa utile e, quindi, anche nel corso del giudizio, sempre che la conciliazione stessa sia avvenuta quando già detto giudizio pendeva, nel qual caso va allegata nella prima udienza successiva" (Cass. n. 3322/2008).

Tuttavia, considerato che il processo tributario è uniformato a principi non sempre riconducibili alla normativa che disciplina il processo civile e considerato che nel processo tributario, ai sensi dell'art. 58 del Dlgs 546 del 1992 nel giudizio di appello è possibile depositare documenti nuovi per la prima volta (e dunque anche quei documenti che non sono stati depositati nel giudizio di primo grado) è conseguenza diretta ritenere che l'atto di transazione, in questo caso, rappresentato dall'atto di condono di cui si dice, poteva essere depositato, anche, successivamente alla prima difesa ovvero successivamente al deposito dell'atto di costituzione. Con la conseguenza che nel caso specifico e avuto riguardo alla peculiarità del processo tributario, correttamente, l'Ufficio finanziario ha fatto valere la transazione (cioè il condono) come fatto impeditivo o estintivo del diritto al rimborso azionato, anche, se eccepito in un tempo successivo alla costituzione in giudizio da parte dell'Ufficio finanziario.

2. Il ricorrente si duole, ancora:

a) con il secondo motivo, del fatto che la CTR del Lazio abbia omesso di esaminare la questione prospettata dall’appellato (attuale ricorrente) in ordine alla ammissibilità del documento prodotto in appello dall'Ufficio finanziario a sostegno dell'eccezione relativa alla dichiarazione integrativa di condono.

b) con il terzo motivo, del fatto che la CTR del Lazio abbia consentito la produzione di un documento nuovo in appello senza considerare che ai sensi dell'art. 58 del Dlgs n. 546 del 1992 se correttamente interpretato non consentirebbe la produzione di un documento la cui mancata allegazione in prime cure era dipesa da pura e semplice negligenza della parte resistente. Piuttosto, se la facoltà di produzione di nuovi documenti in appello fosse illimitata, ciò altererebbe l'equilibrio naturale del processo di impugnazione potenzialmente dilatando i tempi della decisione e sacrificando, invece, il corretto sviluppo del contraddittorio. Senza dire, ritiene il ricorrente, che mentre tutti gli altri processi stringono le maglie dell'impugnazione e tendono a consolidare la natura del giudizio di appello come revisio solo nel rito tributario si perpetua quella anomalia data dalla produzione senza limiti di nuovi documenti.

2.1. La Corte rileva l'infondatezza delle dette censure che, per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di trattazione e di motivazione, possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutte - o direttamente o indirettamente - la questione (sia pure sotto profili diversi) dell'ammissibilità di documenti nuovi nel giudizio di appello tributario.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, in tema di appello avverso le decisioni delle Commissioni Tributarie di primo grado, l’art. 58, comma secondo, del D.Lgs. n. 546 del 1992, fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dalla impossibilità dell'interessato di produrli in prima istanza, per causa a lui non imputabile (requisito, quest'ultimo, richiesto dall'art. 345, ultimo comma, cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 52 della legge n. 535 del 1990), ma non dal citato art. 58, con la conseguenza che costituisce erronea applicazione della norma in parola l'affermazione secondo cui la produzione documentale nel giudizio d'appello risulta illegittima ove non sia stata provata l'impossibilità incolpevole di versarla agli atti del giudizio di primo grado (Cassazione n. 9604 del 2000; n. 2027 del 2003; n. 23616 del 2011).

3. Con il quarto motivo il ricorrente si duole del fatto che la CTR del Lazio non abbia considerato che l'Agenzia delle Entrate con le controdeduzioni dell'Ufficio presentate in primo grado non aveva contestato le circostanze di fatto poste a fondamento della domanda di rimborso ed in particolare che il ricorrente avesse svolta la sua attività professionale da sindaco ed da revisore contabile in modo personale e senza prevalente impiego di capitali e di lavori dipendente altrui. Ove si vuole considerare che l'Agenzia delle Entrate solo con la memoria di udienza contestava che da un attento esame delle dichiarazioni dei redditi per gli anni oggetto di contestazione si rilevavano importi di non lieve entità, oltre alla presenza di personale, tale contestazione andava ritenuta tardiva ed inidonea ad evitare la qualificazione di quei presupposti già prima indicati, quali fatti pacifici perché non contestati e quindi sottratti alla valutazione probatoria del giudice. Non può ammettersi, secondo il ricorrente, che la possibilità di contestazione dei fatti dedotto in ricorso , per la parte resistente, permangono per tutto l'arco del processo di primo grado perché se così fosse la parte ricorrente resterebbe fino all'ultimo nell'incertezza se dover provare o meno i fatti costitutivi della propria pretesa ovvero se poter limitare la prova ai soli fatti contestati

3.1. Il motivo è infondato.

Va osservato che non sussistendo nel vigente ordinamento processuale un onere, per la parte, di contestazione specifica di ogni fatto dedotto ex adverso, la mera mancata contestazione in quanto tale non può avere automaticamente l'effetto di prova, onde il giudice che ritenga non raggiunta la prova di una circostanza, consistente in un fatto dedotto in esclusiva funzione probatoria, semplicemente allegata dall'attore, non incorre in violazione di legge o vizio di motivazione nel non aver tenuto conto, quale elemento probante, della non contestazione da parte del convenuto, idonea a superare la carenza di prova, giacché ciò significa immutare i termini della domanda, azionando una diversa causa petendi.

Correttamente, dunque, la CTR del Lazio ha ritenuto valorizzando gli atti acquisiti in giudizio che il contribuente rientrava nella categoria di quei lavoratori autonomi la cui attività è caratterizzata da quegli elementi che la sentenza n. 156del 2001 della Corte costituzionale, ritiene configurino una autonoma organizzazione.

4. Il ricorrente sostiene, ancora:

a) con il quinto motivo che la CTR del Lazio non ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di qualificare l'attività dell'attuale ricorrente quale attività organizzata non tenendo conto che le spese non sono dimostrative di un'attività organizzata e che gli apporti di lavoro erano occasionali e non strutturati. E di più, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio non avrebbe tenuto conto che il sindaco e il revisore contabile svolgo un'attività parasubordinata, nel senso che sono gli stessi soggetti ai quali l'attività viene prestata a garantire la predisposizione di un contesto organizzativo nel cui ambito il lavoro professionale viene sviluppato, tanto che se tale attività venisse svolta al di fuori dell'esercizio di una professione, non sarebbe neppure soggetta ad imposta sul lavoro aggiunto e andrebbe qualificata ai fini dell'imposta sul reddito come attività assimilata a lavoro dipendente.

b) con il sesto motivo, che la CTR del Lazio abbia fatto coincidere l'organizzazione con la rilevanza economica dell'attività svolta, senza valutare, invece, il rapporto esistente tra il valore aggiunto dal professionista ed i mezzi impiegati (capitale, lavoro finanziamento, nella specie del tutto assenti. E, comunque, ritiene il ricorrente la CTR del Lazio avrebbe stravolto i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, la quale ha sancito l'Impossibilità di identificare a priori un'attività professionale organizzata sulla base di presupposti quantitativi, ben potendosi avere una significativa e, anzi, molto redditizia attività professionale in attività impostate esclusivamente sull'apporto personale del professionista.

4.1. La Corte rileva l'infondatezza delle dette censure che, per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di trattazione e di motivazione, possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutte - la questione (sia pure sotto profili diversi) relativa alla corretta valutazione dei dati acquisiti in giudizio in merito alla natura dell'attività svolta da M.G..

Va qui premesso che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Nel caso in esame, sia pure in forma sintetica, la CTR del Lazio ha chiarito che le spese per quote di ammortamento e spese per l'acquisto di costo unitario non superiore ad €. 516,46, le spese relative ad immobili, per compensi corrisposti a terzi, per consumi e per altre spese documentate indicavano con tutta evidenza che il contribuente rientrava nella categoria di lavoratori autonomi con autonoma organizzazione.

A fronte delle valutazioni della CTR del Lazio, il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, né può il ricorrente pretendere il riesame del merito sol perché la valutazione delle accertate circostanze di fatto, come operata dal giudice di secondo grado, non collima con le proprie aspettative.

In definitiva, il ricorso va rigettato. Non occorre provvedere al regolamento delle spese, dato che l'Agenzia delle Entrate non ha svolto in questa fase alcuna attività giudiziale.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.