Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 16 maggio 2016, n. 10017

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Intercettazioni disposte in un processo penale - Procedimento disciplinare ex art. 7 della l. n. 300 del 1970 - Utilizzabilità - Condizioni - Fondamento.

 

Svolgimento del processo

 

1 - La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 27 giugno 2014, ha respinto il reclamo ex art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, proposto da G. S. avverso la sentenza del locale Tribunale che, confermando l'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, aveva rigettato la domanda del ricorrente volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia, illegittimità o nullità del licenziamento intimatogli dalla s.p.a. T. con missiva del 20.12.2012.

2 - La Corte territoriale, quanto alla ricostruzione dei fatti storici che avevano preceduto il licenziamento, ha osservato che:

a) in data 5 ottobre 2011 la società aveva adottato nei confronti del S. provvedimento di sospensione cautelare non disciplinare, ex art. 60 del CCNL, avendo avuto notizia del decreto di perquisizione locale e personale emesso nei confronti del dipendente dalla Procura della Repubblica di Firenze, nell’ambito di indagini avviate per i delitti di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d'asta commessi da dipendenti della società, in concorso con imprenditori, al fine di garantire l'assegnazione a questi ultimi degli appalti;

b) successivamente la società, venuta a conoscenza della applicazione nei confronti del S. della misura cautelare personale degli arresti domiciliari, con missiva del 31.10.2012, aveva comunicato la revoca del precedente provvedimento e la adozione della sospensione del rapporto del lavoro e della retribuzione, riservandosi ogni ulteriore iniziativa "sulla base degli sviluppi del procedimento penale";

c) in data 30.11.2012 T. s.p.a. aveva inviato al dipendente la lettera di contestazione, con la quale, richiamati i fatti oggetto del procedimento penale, sulla base di un circostanziato esame delle intercettazioni trascritte nella ordinanza cautelare, era stato addebitato al S. innanzitutto di non avere rappresentato alla società che tale D., referente della ditta E. con la quale T. intratteneva rapporti commerciali, era in possesso della password di accesso al sistema qualificazione fornitori, che gli consentiva di venire a conoscenza di informazioni e di dati assolutamente riservati. Inoltre la società aveva contestato al S. di essersi attivato, una volta che la password era stata disabilitata, per consentire al D. di venire nuovamente in possesso delle credenziali dì accesso e di avere a tal fine fornito al referente della E. il nominativo dei dipendenti di T. che avrebbero potuto dargli le necessarie indicazioni;

d) con missiva del 20 dicembre 2012 la società, preso atto delle giustificazioni inviate il 7 dicembre 2012, aveva intimato il licenziamento, ritenendo che i fatti fossero di gravità tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea del rapporto.

3 - La Corte territoriale ha, quindi, ritenuto infondati tutti i motivi di reclamo evidenziando che:

a) la missiva del 31.10.2012 non aveva comportato alcuna consumazione del potere disciplinare, poiché la società aveva ribadito che si riservava ogni successiva iniziativa sulla base degli sviluppi del procedimento penale. La revoca, quindi, si riferiva solo all'obbligo di corrispondere la retribuzione ex art. 60 CCNL, obbligo divenuto privo di causa una volta che nei confronti del S. era stata adottata la misura cautelare degli arresti domiciliari;

b) il provvedimento disciplinare, avviato il 30.11.2012, doveva ritenersi tempestivo, poiché solo la lettura della ordinanza cautelare, della quale T. aveva avuto conoscenza il 30.10.2012, aveva consentito alla società di ricostruire i fatti in relazione ai quali il procedimento penale era stato avviato e di valutare le responsabilità del S. in relazione al ruolo avuto nella vicenda;

c) le intercettazioni telefoniche disposte dal GIP potevano essere senz'altro utilizzate dal datore di lavoro, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p.;

d) il licenziamento era stato intimato in relazione agli stessi fatti contestati con la lettera del 30 novembre 2012 giacché, seppure in termini letterali differenti, in entrambi gli atti la società aveva descritto le medesime condotte;

e) Il Tribunale aveva ritenuto legittimo il licenziamento senza incorrere nel denunciato vizio di ultrapetizione, in quanto aveva valutato i fatti contestati, ritenendoli di gravità tale da giustificare il recesso immediato, e nella parte in cui aveva fatto riferimento ai contatti mantenuti dal S. con il D. non aveva inteso porre a fondamento del decisum un episodio diverso da quello contestato, ma solo descrivere globalmente le condotte tenute;

f) i fatti erano tali da integrare giusta causa di licenziamento, essendo gli addebiti riconducibili alla previsione dell'art. 64, lett. c), del CCNL ed in ogni caso perché il S., in qualità di auditor, aveva il compito di valutare il rispetto delle regole aziendali da parte di terzi e colleghi, ed era quindi più di altri tenuto a garantire riservatezza, diligenza e fedeltà.

4 - Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso G. S. sulla base di quattro motivi. T. s.p.a. ha resistito con tempestivo contricorso, eccependo in via pregiudiziale la inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza dalla impugnazione. Entrambe le parti hanno depositato.

 

Motivi della decisione

 

1 - L'eccezione di tardività del ricorso, sollevata dalia difesa della società controricorrente è infondata.

L'art. 1 della legge 28.6.2012 n. 92 stabilisce, al comma 62, che II ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello a definizione del reclamo "deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa o dalla notificazione se anteriore". Il successivo comma 64 aggiunge che "in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l'articolo 327 del codice di procedura civile".

La disposizione si pone come norma speciale rispetto alla disciplina generale del cosiddetto termine breve di impugnazione, dettata dagli artt. 325 e 326 c.p.c., poiché fa decorrere il termine perentorio dalla comunicazione della sentenza o dalla notificazione, ma solo se anteriore alla prima, e consente l'applicazione del termine stabilito dall'art. 327 c.p.c. unicamente nel caso in cui risultino omesse sia la notificazione che la comunicazione della decisione.

Peraltro, affinché possa decorrere il termine breve, non è sufficiente il mero avviso dei deposito della sentenza, essendo, invece, necessario che la comunicazione si riferisca al contenuto integrale della decisione, di modo che la parte sia posta, dal momento della comunicazione, in grado di conoscere le ragioni sulle quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza.

A dette conclusioni conduce innanzitutto il tenore letterale del richiamato comma 62 che, diversamente da quanto disposto, ad esempio, dal comma 2 dell'art. 420 bis c.p.c., fa riferimento, appunto, alla comunicazione della sentenza e non "dell'avviso di deposito" della stessa.

Inoltre la disposizione, sebbene di carattere speciale, nulla specifica in merito alla forma della comunicazione, sicché vale al riguardo la disciplina dettata dal codice di rito che, all'art. 45, comma 2, dlsp, att. c.p.c., come modificato dal d.l. 18.10.2012 n. 179, stabilisce che "il biglietto contiene in ogni caso ....il testo integrale del provvedimento comunicato".

La necessità della comunicazione del testo integrale è stata poi ribadita dal d.l. 24.6.2014 n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, che ha modificato l'art. 133 c.p.c., inapplicabile alla fattispecie solo nella parte in cui, diversamente da quanto previsto per il rito speciale, esclude che la comunicazione possa fare decorrere il termine breve di impugnazione.

Infine, poiché la comunicazione fa decorrere il medesimo termine previsto per la notificazione, sarebbe del tutto illogica una disciplina che equiparasse alla conoscenza della sentenza, che la parte acquisisce con la notificazione, quella del mero deposito del provvedimento e del suo dispositivo.

2 - La ricevuta telematica prodotta da entrambe le parti, nel descrivere il contenuto della comunicazione, fa riferimento solo al deposito della sentenza e non contiene alcun rinvio all'atto allegato ( ossia alla motivazione della sentenza), atto che non è stato trasmesso, come attestato dalla stessa cancelleria nella nota in calce alla ricevuta telematica depositata dal ricorrente unitamente alla memoria ex art. 378 c.p.c..

Non sussiste, pertanto, l'eccepita inammissibilità del ricorso.

3 - Con il primo motivo il ricorrente denuncia "violazione o falsa applicazione dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori - L. 300/1970 - nonché degli artt. 57, 62 e 65 del CCNL Mobilità area contrattuale attività ferroviarie del 20.7.2012 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per avvenuta consumazione del potere disciplinare del datore di lavoro". Lamenta, in sintesi, il ricorrente la erroneità della interpretazione data dalla Corte territoriale alla lettera del 31.10.2012, con la quale erano state comunicate la "revoca della sospensione cautelare non disciplinare e l'adozione del provvedimento di sospensione del rapporto di lavoro e della retribuzione", Evidenzia che con il provvedimento in questione la società aveva manifestato la volontà di irrogare al dipendente, in relazione ai fatti per i quali era stato avviato il procedimento penale, la sanzione disciplinare prevista dall'art. 57 lett. D), sicché in relazione ai medesimi fatti non poteva essere avviato un nuovo procedimento. Aggiunge, a riprova della correttezza di detta interpretazione, che, altrimenti, la società avrebbe dovuto intimare il licenziamento dal 5 ottobre 2011, ossia dal primo provvedimento di sospensione, così come previsto dall'art. 65 comma 3 del CCNL, e non dal 3 dicembre 2012, data della missiva che il ricorrente ritiene essere una seconda contestazione disciplinare.

4 - Il motivo è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

La Corte territoriale ha escluso qualsiasi violazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970 e delle disposizioni contrattuali dopo avere interpretato la lettera del 31.10.2012 in termini difformi da quelli sollecitati dal reclamante, ossia ritenendo che con la missiva in questione non fosse stato esercitato (e quindi consumato) alcun potere disciplinare, avendo la società inteso solo comunicare che la sospensione cautelare con conservazione della retribuzione sarebbe stata sostituita dalla sospensione, sempre di natura cautelare, oltre che dal servizio anche dalla retribuzione, non più dovuta per essere stato il S. sottoposto alla misura cautelare personale degli arresti domiciliari.

Il ricorrente si limita a prospettare una diversa interpretazione della missiva, tra l'altro senza esaminare il complessivo tenore dell’atto ma estrapolando dallo stesso solo alcune espressioni, ma non indica la regola ermeneutica che la Corte territoriale avrebbe violato né denuncia, come sarebbe stato suo onere, fa violazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ.

E' consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui "l'interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'Iter logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d'interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell'inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull'asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa" (Cass. 30.4.2010 n. 10554).

5 - Con il secondo motivo G. S. denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, in ordine alla immediatezza della contestazione disciplinare". Rileva che il datore di lavoro già in data 5.10.2011 aveva avuto conoscenza del procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, sicché avrebbe dovuto avviare immediatamente indagini interne e non lasciare trascorrere più di un anno prima di formulare una specifica contestazione.

6 - Il motivo è infondato.

Occorre premettere che il principio della necessaria immediatezza della contestazione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ha lo scopo di garantire la possibilità di un'utile difesa da parte del lavoratore e, quindi, l'effettività del contraddittorio, nonché la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell'esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede (in tal senso fra le più recenti Cass. 9 luglio 2015 n. 14324).

La valutazione che il giudice di merito esprime è, quindi, censurabile in sede di legittimità con gli stessi limiti previsti per le clausole generali, poiché i concetti di tardività e tempestività richiedono di essere concretizzati dall'interprete mediante specificazioni che hanno natura giuridica, la cui disapplicazione si risolve in violazione di legge. Al contrario l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se privo di errori logici e giuridici.

Nel caso dì specie la Corte territoriale ha evidenziato che, ai fini della valutazione sulla tempestività della contestazione, occorre fare riferimento al grado di conoscenza dei fatti penalmente rilevanti acquisito dalla società datrice. Ha aggiunto che il decreto di perquisizione e sequestro non conteneva elementi sufficienti per comprendere quali fossero le responsabilità del S. e quale fosse il ruolo avuto nella associazione per delinquere ipotizzata dagli inquirenti. Ha precisato, infine, che legittimamente il datore di lavoro aveva ritenuto opportuno sospendere in via cautelare il dipendente ed attendere gli sviluppi del procedimento penale, sfociato, poi, nella ordinanza cautelare degli arresti domiciliari, la cui lettura aveva permesso a T. di venire a conoscenza dei fatti e degli elementi probatori raccolti a carico del dipendente.

7 - La sentenza impugnata è conforme sul punto al principio di diritto ormai consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte la quale è da tempo orientata nel ritenere che, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso (Cass. 21.2.2008 n. 4502; Cass. 16.2.2010 n. 3600; Cass. 19.6.2014 n. 13955; Cass. 20.6.2014 n. 14103).

Detto principio deve essere qui ribadito, in quanto in siffatta ipotesi non è possibile ravvisare né una compromissione del diritto di difesa, né un comportamento del datore di lavoro contrario a correttezza e buona fede, né, tantomeno, l'assenza di uno dei requisiti richiesti dall'art. 2119 c.c., ossia la incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto.

Invero il datore di lavoro, attraverso la comunicazione del provvedimento di sospensione, manifesta con chiarezza la volontà di ritenere disciplinarmente rilevanti i fatti oggetto di procedimento penale e, quindi, il decorrere del tempo, in attesa della conclusione delle indagini penali, non può far sorgere alcun legittimo affidamento, fin quando perdura anche la sospensione cautelare.

D'altro canto non viene in alcun modo violato il diritto di difesa poiché il lavoratore, sottoposto a procedimento penale, sa già che le condotte in relazione alle quali le indagini preliminari sono state avviate dall'autorità giudiziaria potranno essergli addebitate in sede disciplinare, e, quindi, è messo in condizione di predisporre per tempo la propria linea difensiva.

Questa Corte ha evidenziato, inoltre, che la possibilità di differire la contestazione al momento della conclusione delle indagini penali, previa adozione del provvedimento di sospensione, riposa anche sulla necessità di salvaguardare il segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., in quanto la norma esclude che sino alla conclusione delle indagini preliminari possano essere resi noti gli atti rilevanti ai fini delle indagini (Cass. 26.6.2014 n. 14103).

Infine deve essere ribadito che il requisito della immediatezza va inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa fare ritardare il provvedimento di recesso (Cass. 1.7.2010 n. 15649 e Cass. 10.9.2013 n. 20719).

La valutazione espressa dal giudice di merito è, quindi, giuridicamente corretta, mentre sono infondati gli argomenti sviluppati nel ricorso, non essendo sufficiente per l'avvio del procedimento che la società fosse consapevole della esistenza di una associazione per delinquere finalizzata alla corruzione ed alla turbativa d'asta, dovendo ancora essere individuate con precisione le operazioni illecite ed accertato l'apporto dato da ciascuno dei dipendenti coinvolti nella vicenda alla realizzazione dei fatti di reato.

8 - Con il terzo motivo è denunciata "violazione o falsa applicazione dell'art 270 c.p.p., dell'art. 2697 c.c., dell’art. 2106 c.c. nonché dell'art. 7 St.Lav. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, in ordine alla prova del fatto contestato ed alla proporzionalità della sanzione". Rileva il ricorrente che le intercettazioni disposte nel procedimento penale non potevano essere utilizzate in altri procedimenti e che, pertanto, non poteva ritenersi assolto l'onere della prova gravante sul datore di lavoro, avendo T. fatto leva solo sul contenuto delle conversazioni telefoniche senza offrire altri elementi probatori idonei a dimostrare le condotte contestate. Aggiunge che, in ogni caso, era stato violato il principio delle necessaria proporzionalità fra fatto contestato e sanzione, posto che dalla intercettazione era solo emerso che il S. aveva ricevuto dal suo testimone di nozze un regalo del valore di circa € 500,00.

9 - Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che "le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., norma quest'ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali dell’imputato o dell'indagato, sicché si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale" (Cass. sez. un. 16.2.2015 n. 3020; Cass. sez. un. 12 febbraio 2013, n. 3271; Cass. sez. un., 24 giugno 2010, n. 15314).

"In ragione di tanto, è solo con riferimento ai procedimenti penali che una ipotetica, piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito di procedimenti penali diversi da quello per cui le stesse intercettazioni erano state validamente autorizzate contrasterebbe con le garanzie poste dall'art. 15 Cost., a tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni. In relazione poi al profilo della utilizzabilità in concreto, è stato precisato che presupposto per l’utilizzo esterno delle intercettazioni è la legittimità delle stesse nell'ambito del procedimento in cui sono state disposte" (Cass., sez. un., 23 dicembre 2009 n. 27292, in mot.)."

Nella specie, la circostanza che nell’ambito del relativo processo penale le intercettazioni in parola fossero state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedlmentali non risulta oggetto di adeguata contestazione, sicché in forza di detti principi, applicabili anche al procedimento disciplinare disciplinato dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, legittimamente la s.p.a. T. ha posto a fondamento della contestazione le conversazioni telefoniche intercorse fra il S. ed il D., il cui contenuto era stato riportato nella ordinanza cautelare.

10 - Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui sostiene che sarebbe emersa solo la accettazione di un dono inviato al S. dal suo testimone di nozze, condotta, questa, rispetto alla quale sarebbe del tutto sproporzionata la sanzione espulsiva adottata.

Osserva innanzitutto il Collegio che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte ha affermato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede dì legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (Cass. 2.3.2011 n. 5095 e Cass. 26.4.2012 n. 6498).

Nella specie il ricorrente, pur denunciando formalmente la violazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), censura nella sostanza la motivazione della sentenza impugnata quanto alla valutazione delle risultanze istruttorie.

Si tratta, quindi, di una doglianza che esula dall'ambito del vizio di cui all'art. 360 n. 3 c.p.c., poiché attiene alla ricostruzione dei fatti, che, per le sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di " omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti". Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter ultimo comma c.p.c.).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dall'art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. 29.10.2014 n. 23021).

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. ha la finalità di evitare l’abuso del ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l'anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, "in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.".

Nel caso di specie la Corte territoriale ha esaminato tutti gli aspetti rilevanti ai fini di causa ed ha evidenziato che dalle intercettazioni era emerso che il S., non solo era consapevole della circostanza che tale D., suo ex datore di lavoro, era in possesso della password di accesso alla banca dati riservata di T., ma si era pure attivato per far sì che, dopo la disattivazione, il D. potesse nuovamente accedere ai dati, indicando allo stesso il nominativo dei dipendenti ai quali rivolgersi.

Ha, poi, evidenziato che la gravità dei fatti andava anche valutata in relazione al ruolo ricoperto dal S. nell'azienda ed ha sottolineato che il dipendente, assegnato alla Direzione Audit, era tenuto ad accertare ed a garantire il rispetto delle procedure aziendali, da lui stesso palesemente violate.

Infine la Corte territoriale ha richiamato le disposizioni contrattuali rilevanti, precisando che il CCNL prevede la sanzione espulsiva per le condotte che implichino violazione dolosa di leggi, dì regolamenti o di doveri che possano arrecare pregiudizio all'azienda, nonché nei casi di violazione dell'obbligo di non fornire a terzi informazioni o comunicazioni riservate.

La Corte territoriale, in sintesi, ha dato ampio conto delle ragioni della ritenuta legittimità del licenziamento, sicché la sentenza impugnata non merita alcuna censura.

11 - Infine con il quarto motivo il ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori nonché dell'art. 2119 c.c. in ordine al principio della immodificabilità dei principi posti a fondamento della contestazione disciplinare e di quelli posti a fondamento del licenziamento". Rileva, in sintesi, che le contestazioni contenute nella lettera di licenziamento hanno ad oggetto circostanze e fatti, che non solo non hanno trovato riscontro probatorio nelle intercettazioni, ma che risultano anche diversi e più gravi di quelli posti a fondamento della contestazione disciplinare.

Anche detto motivo è inammissibile per quanto già detto ai punti 4 e 10.

La Corte territoriale ha esaminato ed interpretato la lettera di contestazione e la missiva di licenziamento e, dopo averle confrontate, ha evidenziato che il datore di lavoro, seppure in termini letterali differenti, aveva in entrambi gli atti descritto le medesime condotte.

Il ricorrente si limita a contrapporre una diversa interpretazione di detti atti, senza indicare i canoni ermeneutici violati, e, quindi, sollecita questa Corte a compiere una inammissibile indagine di fatto, non consentita al giudice di legittimità, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

12 - Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura indicata in dispositivo.

Occorre, inoltre, dare atto della sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento a titolo di contributo unificato dell'ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso principale.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in £ 100,00 per esborsi ed in € 3.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.