Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 28 luglio 2016, n. 15754

Rapporto di lavoro subordinato tra le parti - Accertamento - Pagamento differenze retributive - Regolarizzazione della posizione contributiva

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 24 maggio 2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:

"Il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, accogliendo in parte la domanda proposta da C.S. nei confronti di C.E., accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti relativamente al periodo dal 1985 al maggio 1999, condannava C.E. al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 77.343,85, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, a titolo di differenze retributive (per paga base, contingenza, 13 mensilità, sfratirdinario, tene non godute e TFR) nonché alla regolarizzazione della posizione contributiva versando all’INPS la somma di euro 104.288,13 o, in caso di mancata regolarizzazione, a pagare detta somma al ricorrente.

A seguito di gravame interposto da C.E., la Corte di Appello di Catania, con sentenza del 13 marzo 2014, riformando in parte la decisione del primo giudice, condannava l’appellante al pagamento in favore di C.S. della minor somma di euro 25.309,79, oltre accessori, dichiarando che gli importi dovuti all’INPS a titolo di contributi ammontavano ad euro 72.540,81.

La Corte territoriale, in ordine alla censura relativa al mancato accoglimento da parte del Tribunale della eccezione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio, rilevava: che, trovando applicazione nel rito del lavoro l’art. 164, co.5°, c.p.c., era obbligo del giudice fissare un termine perentorio per l’integrazione della domanda, fermo restando che la sanatoria del ricorso non poteva valere a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati nel ricorso introduttivo (richiamava sul punto varie decisioni di questa Corte di legittimità); che, nel caso in esame, nel ricorso introduttivo del giudizio era stato prospettato un rapporto di lavoro subordinato, con l’indicazione del periodo lavorativo, le mansioni espletate, le retribuzioni percepite omettendosi, però, l’indicazione dell’orario giornaliero di lavoro e delle giornate lavorate; che il ricorrente aveva chiesto termine al giudice ( alla prima udienza) per poter sanare ogni eventuale ritenuta nullità senza ottenerlo e che, ciononostante, aveva provveduto autonomamente ad integrare l’atto introduttivi) specificando alla successiva udienza tanto l’orario lavorativo che le giornate lavorate; che, tuttavia, non essendo stato allegato né chiesto alcunché nel ricorso introduttivo circa il compenso per lavoro straordinario e/o per indennità per riposi o fene non godute né articolato alcun capitolo di prova diretto a provare i presupposti di fatto di tale domanda, la stessa era inammissibile in quanto comportava non una specificazione del "thema decidendum", bensì un non consentito allargamento del medesimo a profili diversi ed ulteriori mai prima dedotti.

Con riferimento al merito della controversia osservava che il primo giudice aveva correttamente valutato le emergenze istruttorie c la prova testimoniale espletata.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso C.E. affidato a due motivi.

C.S. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale fondato su un unico motivo.

Con il primo motivo del ricorso principale si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia rappresentato dalla eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio nonché violazione ed errata applicazione dell’art. 414 c.p.c. assumendosi che la Corte di appello non aveva compiutamente risposto alla predetta eccezione riproposta in sede di gravame.

Con il secondo mezzo viene lamentata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia rappresentato dalla prova del rapporto di lavoro dipendente tra C.S. e C.E. in quanto la Corte territoriale, pur in assenza di elementi probatori, aveva ritenuto sussistente un rapporto di lavoro subordinato laddove la presenza di entrambi i fratelli C. all’interno dei locali di vendita sarebbe stata riconducibile piuttosto ad un società di fatto.

Il primo motivo è inammissibile laddove denuncia un vizio di motivazione.

Si osserva che alla presente controversia trova applicazione il nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, c.p.c. (come modificato dall’art. 54, comma 1° lett. b) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) essendo stata pubblicata l’impugnata sentenza dopo 11 settembre 2012 ( ai sensi dell’art. 54, comma 3° d.l. cit.).

Le Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 8053 del 7 aprile 2014) hanno avuto modo di precisare che, a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1° n. 5 cit., il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge e, cioè, dell’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione".

Ed infatti perche violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio "così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione", fattispecie che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo "talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.

Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).

Inoltre, il vizio può attenere solo alla questio facti (in ordine alle questio juris non è configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale, deve, cioè, attenere alla motivazione in sè, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Quanto invece allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell’art 360, n. 5, c.p.c., in cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Le Sezioni unite hanno specificato che "la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso", fermo restando che l'omesso esame di elementi istrutton non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

E’ evidente, quindi, che il motivo all’esame non presenti alcuno dei requisiti di ammissibilità richiesti dall’art. 360, comma 1, n. 5 così come novellato nella interpretazione fornitane dalle Sezioni Unite di questa Corte. Ed infatti, non lamenta l’omesso esame di un fatto storico ma si risolve nella denuncia di un non più configurabile vizio di motivazione sulla quaestio iuris devoluta al giudice del gravame con il primo motivo di appello con il quale era stata censurata la decisione del Tribunale in merito alla eccepita nullità dell’atto introduttivo del giudizio.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 414 c.p.c. va rilevata la genericità, oltre che l’infondatezza, della censura che si limita a richiamare l’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 11353 del 17 giugno 2004 secondo cui non era possibile, nel rito del lavoro, un’integrazione successiva del ricorso né che le carenze dell’atto introduttivo potessero essere sanate dalla costituzione del convenuto ne dai poteri di iniziativa riconosciuti al giudice in materia di prova. Ed infatti, non vengono addotte argomentazioni tali da giustificare un discosramento dai principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte con l’anzidetta sentenza, ai quali il giudice del gravame si è uniformato, principi che hanno trovato successiva conferma in numerose altre pronunce, richiamate, peraltro, anche nell’impugnata sentenza.

Del pari inammissibile, alla luce di quanto sopra esposto, è anche il secondo motivo che non lamenta l’omesso esame di un fatto storico ma si risolve nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti che finisce con il con il sollecitare una nuova valutazione del merito della controversia inammissibile in questa sede.

Invero, è stato in più occasioni affermato dalla giurisprudenza di legittimità che la valutazione delle emergenze probatorie, come la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propna decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del propno convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr, e plurimis, Cass. N. 17097 del 21/07/2010; Cass. n. 12362 del 24/05/2006; Cass. n. 11933 del 07/08/2003).

Passando al ricorso incidentale con l’unico motivo viene dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte di appello riformato il capo della decisione di primo grado chc aveva condannato C.E. al pagamento anche dello straordinario e del lavoro prestato in occasione delle domeniche e delle altre festività pur in mancanza di una specifica censura sul punto nel gravame, ciò in palese violazione del principio "tantum devolutum quantum appellatum".

Il motivo è infondato.

Ed infatti la censura con la quale l’appellante aveva riproposta l’eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio investiva la decisione del primo giudice nel suo complesso e, quindi, ben poteva la Corte di appello, decidendo su tale motivo di gravame, ritenere che la domanda di condanna al pagamento del lavoro straordinario e delle indennità per riposi o ferie non godute non costituisse una integrazione - consentita - del ricorso introduttivo, bensì, un - inammissibile - ampliamento del "thema decidendum". E’ appena il caso di rilevare che tale statuizione non è stata oggetto di una specifica censura da parte del ricorrente incidentale.

Per tutto quanto sopra considerato, previa riunione dei ricorsi perché proposti avverso la medesima sentenza, si propone il rigetto di entrambi con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5.". Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

C.E. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. che, sostanzialmente, ha riproposto le argomentazioni di cui al ricorso senza addurre alcun rilievo al contenuto della sopra riportata relazioni che e pienamente condivisa dal Collegio.

Ne consegue il rigetto di entrambi i ricorsi, previa loro riunione in quanto proposti avverso la medesima sentenza ( ex art. 335 c.p.c.).

Le spese del presente giudizio, stante la reciproca soccombenza, vengono compensate tra le parti.

Sussistenti i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell'obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

 

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.