Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 21 luglio 2016, n. 15106

Tributi - IRPEF - Ritenute su incentivo all’esodo - Sentenza della Corte di Giustizia europea dichiarativa di contrasto con l’ordinamento europeo - Istanza di rimborso delle maggiori ritenute subite - Prescrizione - Decorrenza del termine - Dalla data della sentenza - Esclusione - Dalla data della trattenuta

 

Osserva

 

P.G. ricorre contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale Sicilia, confermando la sentenza di primo grado della CTP di Enna n. 262/1/2009, ha (per quanto ancora qui rileva) respinto la domanda di rimborso IRPEF avanzata dal contribuente il 12/02/2007 con riferimento alle ritenute effettuate dal suo datore di lavoro sulle somme corrisposte quale incentivo alle dimissioni; domanda basata sul contrasto - accertato con la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 21.7.05, in causa C-207/04 - tra la Direttiva comunitaria 76/207 CE e la disposizione dettata dall’articolo 19, comma 4-bis, TUIR.

La Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto che, con riferimento agli importi trattenuti sulle somme corrisposte in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro avvenuta il 1.10.1998, la domanda di rimborso andasse rigettata perché effettuata oltre il termine di decadenza di 48 mesi previsto dall’articolo 38, DPR 602/73 e decorrente dalla data del pagamento asseritamente indebito, senza che possa costituire una deroga a tale previsione l’ipotesi di diritto alla restituzione originatosi per effetto della caducazione di norme interne a seguito di pronuncia giurisdizionale di conflitto con la disciplina europea, integrandosi in siffatta ipotesi una mera difficoltà di fatto all’esercizio del diritto, non impeditiva della facoltà di far valere giudizialmente la pretesa restitutoria.

Il ricorso si articola su unico motivo.

Esso concerne la doglianza (formulata principalmente a termini del numero 3 del comma 1 dell’art. 360 cpc con riferimento alla previsione dell’art. 38 del DPR n. 602/1973 ed inoltre con riferimento ad ulteriori disposizione di legge interna ed eurounitaria) con la quale è censurata la decisione impugnata per non avere tenuto conto del fatto che la ritenuta della quale è chiesto il rimborso nella misura del 50% era prevista per legge (prima dell’intervento della CGE), sicché solo dopo detto intervento (e cioè dalla data di pubblicazione della menzionata sentenza nella Gazzetta Ufficiale dell’EU in data 3.9.2005) era stato sancito il principio contrario alla previsione dell’ordinamento interno. Perciò il giudicante aveva errato non facendo decorrere il termine di decadenza dal momento in cui il diritto avrebbe potuto essere concretamente fatto valere, con riferimento al quale la istanza sarebbe stata sicuramente tempestiva.

L’Agenzia delle Entrate non si è difesa.

Il ricorso - ai sensi dell’art. 380 bis cpc assegnato allo scrivente relatore - può essere definito ai sensi dell’art. 375 cpc.

Mette conto qui soltanto di rilevare che la questione di diritto proposta dal motivo di impugnazione è stata compiutamente esaminata e risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 13676/14, che ha affermato il principio secondo cui, nel caso in cui un’imposta venga dichiarata incompatibile con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, il termine di decadenza previsto dalla normativa tributaria (per le imposte sui redditi, articolo 38 d.P.R. n. 602 del 1973) per l’esercizio del diritto al rimborso, attraverso la presentazione di apposita istanza, decorre dalla data del versamento dell’imposta e non da quella, successiva, in cui è intervenuta la pronuncia che ha sancito la contrarietà della stessa all’ordinamento comunitario; altresì precisando che la tutela dell’affidamento incolpevole deve considerarsi recessiva rispetto al principio della certezza delle situazioni giuridiche.

Le Sezioni Unite della Corte hanno utilmente rammentato (e quindi chiaramente convalidato) che, con riferimento all’anzidetto problema, questa Corte aveva già avuto occasione di affermare "che: a) il principio posto dall'art. 2935 cod. civ., secondo cui la prescrizione "comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere" - il quale e da ritenersi applicabile anche alla decadenza - deve essere inteso <con riferimento alla [sola] possibilità legale, non influendo sul decorso della prescrizione, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l'impossibilita di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto> (Relazione al codice, § 1198) (Cass. n. 10231 del 1998, che richiama Cass. n. 9151 del 1991); b) tra gli impedimenti "di fatto" va annoverato anche l'ostacolo all'esercizio di un diritto rappresentato dalla presenza di una norma costituzionalmente illegittima, in quanto chi si ritenga leso da tale limitazione ha il potere di percorrere la via dell’instaurazione di un giudizio e nel corso di tale giudizio richiedere che venga sollevata la relativa questione; se subisce passivamente detto impedimento, non può sfuggire alla conseguenza che il rapporto venga ad esaurirsi; c) a maggior ragione, non può essere ravvisato un impedimento "legale", come tale idoneo ad incidere sulla decorrenza della prescrizione, nella presenza di una norma di diritto nazionale incompatibile con il diritto comunitario, posto che - mentre l'accertamento della illegittimità costituzionale di una norma e riservato ad un organo diverso dall'autorità giurisdizionale, con la conseguenza che, quando la questione sia sollevata nel corso di un giudizio, esso deve essere sospeso fino a quando la questione non sia decisa (art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87) - il contrasto tra la norma di diritto interno e quella comunitaria può essere rilevato direttamente dal giudice che, sulla base di tale premessa, e tenuto a non darle applicazione, anche quando sia stata emanata in epoca successiva a quella comunitaria (Cass. nn. 10231 del 1998, cit., 7176 del 1999 e succ.; cfr., anche, Cass. n. 18276 del 2004)".

Né può darsi qui rilievo alcuno alle prospettazioni di parte ricorrente circa l’esistenza di un legittimo affidamento ingenerato dalla disciplina normativa interna e dalle condotte della stessa Pubblica Amministrazione, giacché la parte ricorrente non ha formulato il proprio ricorso in modo adeguatamente autosufficiente, onde specificare con quali modalità la questione sia stata prospettata anche davanti ai giudici di merito, onere che appare da assolversi in modo ancor più incisivo alla luce del fatto che la pronuncia impugnata non si è occupata affatto della questione.

Anche nella specie di causa deve darsi continuità perciò ai principi espressi e richiamati dalla menzionata pronuncia delle sezioni unite, sicché non resta che concludere nel senso che la pronuncia impugnata non merita cassazione. Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza.

Ritenuto inoltre:

- che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;

- che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;

- che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;

- che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR del 2002, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13.