Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 giugno 2017, n. 14320

Licenziamento disciplinare - Svolgimento non autorizzato di un doppio rapporto di lavoro - Pendenza di contestazione in sede penale - Incompatibilità

 

Fatti di causa

 

1. Con la sentenza n. 72/2013 la Corte di appello di Trieste ha confermato la pronuncia n. 109/2012 emessa dal Tribunale di Udine con la quale era stata respinta la domanda, proposta da G.L., diretta ad ottenere l'annullamento del licenziamento disciplinare inflittogli in data 25.10.2007.

2. L'originario ricorrente, dipendente del Ministero delle Finanze dal 1978 e, successivamente dal 2001 dell'Agenzie delle Entrate, aveva dedotto che nel 2006 era stato avviato un procedimento disciplinare a suo carico, immediatamente sospeso a seguito della pendenza di contestazione in sede penale in relazione agli stessi fatti; che anche un secondo procedimento disciplinare era stato ugualmente sospeso per la pendenza di contestazione in sede penale e che, infine, un terzo procedimento disciplinare si era invece concluso con l'adozione del licenziamento senza preavviso di cui aveva domandato la illegittimità e l'annullamento, perché adottato in violazione della regola della cd. pregiudizialità penale posta dall'art. 68 CCNL Comparto Personale Agenzia Fiscale, e perché sproporzionato rispetto ai fatti contestati che non erano stati mai provati.

3. A fondamento della propria decisione i giudici di seconde cure hanno precisato: a) che i fatti oggetto della contestazione disciplinare del 24.9.2007 erano gli stessi dei capi di imputazione contestati nel procedimento penale salvo il riferimento al caso dell'acquisizione di clienti per conto dell'agenzia assicurativa di tale R.M.; b) che non era condivisibile l'impostazione del Tribunale, che aveva fondato la valutazione di differenza tra i suddetti fatti perché in sede disciplinare le contestazioni si sarebbero incentrate sulla circostanza di avere svolto in modo non autorizzato un doppio lavoro; c) la differenza andava, invece, individuata nel fatto che, in sede disciplinare, era stata contestata anche la circostanza, non rinvenibile in sede penale, di avere procacciato affari al suddetto agente assicurativo M.; d) che l'art. 68 CCNL, quando si riferiva alla locuzione "altre violazioni", riguardava comunque violazioni aventi rilevanza penale e non meramente disciplinare; e) gli episodi relativi all'attività di procacciatore erano stati provati in base agli atti raccolti dalla Guardia di Finanza e dalle dichiarazioni rese dal M.; f) che, in relazione alla attività svolta in contrasto con la disciplina delle incompatibilità per il pubblico impiego, in modo sistematico e non occasionale, percependo compensi con modalità di fatturazione fittizie e con la chiara consapevolezza della situazione illecita, la sanzione espulsiva risultava legittima e proporzionata e corretti erano stati i richiami alla contrattazione collettiva indicati in sede di contestazione.

4. Per la cassazione propone ricorso G.L. affidato a cinque motivi illustrati con memoria ex art. 378 cpc.

5. Resiste con controricorso l'Agenzia delle Entrate.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia, in relazione all'art. 360 n. 5 cpc, l'omesso esame delle imputazioni penali ai fini dell'applicazione del principio di pregiudizialità penale nel procedimento disciplinare per non avere i giudici di secondo grado esaminato i capi di imputazione descritti nel decreto di rinvio a giudizio onde verificare che le contestazioni penali ricomprendevano pure l'attività di procacciatore d affari addebitategli anche sul piano disciplinare.

2. Con il secondo motivo si censura, in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell'art. 653 cpp nonché dell'art. 5 legge n. 97/2001, per avere adottato la Corte territoriale un concetto di pregiudizialità penale erroneo in quanto l'unitarietà dei fatti, a differenza di quanto ritenuto, ai fini della sospensione non riguarda la coincidenza i tutti gli elementi dell'illecito, bensì un nucleo di accertamento comune per il giudizio penale e quello disciplinare che determina la preminenza della verifica da parte del giudice penale, di talché la vicenda del procacciamento di affari non poteva ritenersi esclusa nella valutazione del procedimento penale.

3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole, in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, della violazione e falsa applicazione dell'art. 68 CCNL Comparto Agenzia delle Entrate (2002 - 2005), anche in riferimento all'art. 653 cpp e all’art. 5 legge n. 97/2001, per avere i giudici di seconde cure adottato una interpretazione illogica della disposizione contrattuale allorquando hanno ritenuto che il comma 6° dell'art. 68 CCNL citato si riferisse, con il termine "altre violazioni", a fatti rilevanti penalmente e non, invece, come era agevole desumere, dalla lettura della disposizione, anche a violazioni di carattere non penale.

4. Con il quarto motivo si sostiene, in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, la violazione degli artt. 1362, 1363, 1367 cc, in relazione all'interpretazione dell'art. 68 del CCNL citato, anche in riferimento all'art. 653 cpp e all'art. 5 legge n. 97/2001, perché la indicata interpretazione delle norme contrattuali collettive sopra indicata contrastava con i canoni di ermeneutica letterale, sistematica e di conservazione del patto.

5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 cpc e 2697, 2729 cc nonché l'omessa motivazione circa il contrasto tra la deposizione resa dal M. al giudice civile e quella resa alla Guardia di Finanza avendo la Corte, senza motivazione alcuna, dato prevalenza all'elemento indiziario delle sommarie informazioni rese alla PG rispetto a quelle ritenute acquisite nel procedimento civile.

6. Il primo motivo è inammissibile.

7. Invero, il ricorrente lamenta un omesso esame dei capi di imputazione descritti nel decreto di rinvio a giudizio senza, però, specificare nell'articolazione della censura gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione.

8. Non riportando, infatti, il contenuto esatto del suddetto decreto di rinvio a giudizio, costringe il giudice di legittimità in una attività ulteriore di esame degli atti processuali con il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nella individuazione delle parti di esso rilevanti ai fini della formulazione della censura (in motivazione Cass. 10.4.2014 n. 8450), e ciò costituisce una violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

9. Il secondo, terzo e quarto motivo, per la loro connessione logico-giuridica, devono essere esaminati congiuntamente.

10. Essi sono infondati.

11. E' censurato, in sostanza, l'assunto della Corte distrettuale che ha ritenuto non operante la sospensione del procedimento disciplinare rispetto a quello penale perché la contestazione disciplinare era inerente anche alla circostanza di avere procacciato affari ad un agente di assicurazioni, tale R.M. (non oggetto di imputazione penale) e ciò costituiva giusta e autosufficiente causa di licenziamento.

12. Tale conclusione, secondo l'assunto del ricorrente, costituirebbe violazione delle disposizioni degli artt. 653 c.p.p.5 legge n. 97/2001, 68 CCNL Comparto Agenzia delle Entrate (2002 - 2005) e 1362, 1363 e 1367 cc in tema di interpretazione delle norme contrattuali collettive.

13. Orbene, deve osservarsi che il rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare, nei confronti dei dipendenti della amministrazioni pubbliche, è stato disciplinato, a livello statale, con la legge n. 97/2001.

14. La scelta del legislatore è stata orientata verso l'impostazione del rispetto, da parte dell'autorità disciplinare, dell'accertamento effettuato dal giudice penale in contraddittorio con il dipendente imputato, con la conseguente sensibile contrazione del potere di valutazione dell'autorità amministrativa circa l'accertamento dei fatti già posti alla base della condanna (cfr. Cass. n. 241/2006).

15. La ratio della legge è stata quella di evitare che in sede disciplinare fossero elusi gli esiti del giudizio penale e la necessità di mettere chiarezza nella definizione dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, nell'obiettivo tendenziale di assicurare che le sanzioni disciplinari venissero irrogate a seguito di un procedimento che, se pur amministrativo, presentasse requisiti garantistici latu sensu penale; il tutto nell'ambito delle direttive della giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. n. 971/1988, n. 197/1993 e n. 141/1996) che non solo aveva sancito il divieto assoluto di sanzioni disciplinari automatiche, ma aveva stabilito anche l'illegittimità di disposizioni aventi ad oggetto ipotesi di anticipazione della sanzione ad uno stadio precedente a quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

16. In quest'ottica l'art. 5 della legge n. 97/2001, nella versione ratione temporis applicabile prima della modifica del d.lgs 27.10.2009 n. 150 (art. 72 comma 2) che non incide perché il licenziamento di cui si discute è stato intimato il 25.10.2007, prevedeva al quarto comma che: <Salvo quanto disposto dall'art. 32 quinquies del codice penale, nel caso in cui sia pronunciata sentenza irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'art. 3, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio, o in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro 180 giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall'articolo 653 del cpc>. Con il d.lgs 27.10.2009 n. 150 (art. 72 comma 2) l'art. 5 quarto comma è stato modificato con la soppressione del rinvio ai termini previsti dalla contrattazione collettiva. L'art. 8 della legge 97/2001 statuisce poi, che: <Le disposizioni della presente legge prevalgono sulle disposizioni di natura contrattuale regolanti la materia. I contratti collettivi nazionale di lavoro stipulati dopo l’entrata in vigore della presente legge non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della presente legge>.

17. A fronte, pertanto, di questa succinta ricostruzione dogmaticolegislativa delle disposizioni in materia di rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare, ritiene questo Collegio che il rapporto di pregiudizialità, costituente il presupposto della sospensione del procedimento disciplinare, opera unicamente allorquando l'effetto giuridico dedotto nel procedimento disciplinare sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale e possa subirne l'incidenza di questo.

18. Nel caso in esame, la Corte distrettuale ha condivisibilmente rilevato l'autonomia della contestazione disciplinare riguardante il procacciamento di affari ad un agente di assicurazione (attività questa non autorizzata, non autorizzabile e svolta in modo sistematico) rispetto al processo penale ritenendola in sé causa autonoma e sufficiente a giustificare la sanzione del licenziamento.

19. Tale conclusione è corretta perché il comportamento addebitato non era vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale con la conseguenza che il procedimento disciplinare ben poteva proseguire il proprio corso, limitatamente a tale incolpazione.

20. Né è ravvisabile una violazione, da parte dei giudici di merito, nella interpretazione del comma 6° dell'art. 68 CCNL citato, che testualmente recita: "In caso di assoluzione si applica quanto previsto dall’art. 653 cpp. Ove nel procedimento disciplinare sospeso al dipendente, oltre ai fatti oggetto del giudizio penale per i quali vi sia stata assoluzione, siano state contestate altre violazioni, il procedimento medesimo riprende per dette infrazioni".

21. Il termine "altre violazioni", avendo riguardo sia al criterio ermeneutico letterale, che a quello logico - sistematico nonché all'argomento della coerenza della disciplina giuridica, non può che riferirsi a fatti penalmente rilevanti per i quali vi sia stato un esito diverso dall'assoluzione.

22. Tale interpretazione è confortata non solo dall'unitarietà logica della disposizione, che disciplina il caso in cui vi sia stata una pronuncia di assoluzione parziale, con il richiamo alla disposizione di cui all'art. 653 cpp, ma anche dal principio dell'autonomia dei giudizi penali e disciplinari che comunque consente una diversa valutazione, dei fatti accertati, rispetto ai parametri di riferimento da adottare nelle diverse sedi e, quindi, anche dei comportamenti oggetto di condanna ovvero di una pronuncia diversa da quella di assoluzione.

23. Inoltre, va sottolineato che le parti contrattuali contraenti, qualora avessero voluto optare per un concetto di "altre violazioni" nel senso di "fatti privi di rilevanza penale" avrebbero dovuto comunque specificare che si trattava di condotte connesse a quelle in astratto penalmente rilevanti, perché altrimenti non avrebbe avuto senso una sospensione totale del procedimento disciplinare in ipotesi di comportamenti tra di loro indipendenti. In assenza di tale precisazione, è, pertanto, consequenziale ritenere che con il termine "altre violazioni" si sia voluto fare riferimento a fatti comunque di rilevanza penale.

24. Il quinto motivo, infine, è inammissibile.

25. In realtà, con la doglianza il ricorrente intende ottenere una rivisitazione del merito della vicenda e prospetta una contestazione probatoria operata dalla Corte territoriale sostanziante il suo accertamento in fatto, di esclusiva spettanza del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16.12.2011 n. 27197; Cass. 18.3.2011 n. 6288).

26. E ciò per la corretta ed esauriente argomentazione, senza alcun vizio logico nel ragionamento decisorio, delle ragioni per cui le dichiarazioni rilasciate alla Guardia di Finanza, da R.M., integrate da documenti dimessi in un secondo momento dalla stesso dichiarante, si erano dimostrate più attendibili di quelle rese in giudizio tanto è che il Tribunale aveva rimesso alla Procura della Repubblica la valutazione sulla loro veridicità.

27. Non si verte, pertanto, in una omissione di esame di fatti storici, rilevante ai fini della nuova formulazione dell'art. 360 primo comma n. 5 cpc applicabile ratione temporis al caso in esame, né in una violazione di legge, in difetto degli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, bensì in una contestazione della valutazione probatoria dell'accertamento in fatto, insindacabile, come detto, in sede di legittimità.

28. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.

29. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.