Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 aprile 2017, n. 8829

Lascito ereditario - Rapporto di lavoro subordinato - Prova

 

Fatti di causa

 

Il rag. A.S., deceduto improvvisamente nel marzo 2003 senza prole, nominava proprio erede universale il Comune di Faenza, che accettava con beneficio d'inventario, vincolandolo a destinare i proventi dell'intera eredità alla Scuola di musica G.S..

Il Comune fu poi convenuto in giudizio in qualità di erede davanti al Tribunale di Ravenna dalla sig.ra G.R., la quale deduceva di essere stata impiegata presso lo studio di consulenza fiscale e tributaria del S. per oltre un trentennio, senza mai aver percepito alcun compenso.

La stessa precisava che dal 1969 al 2001 il suo impegno presso il ragioniere non era stato esclusivo, poiché lavorava a tempo pieno presso altra ditta, con orario dal lunedì al venerdì dalle otto alle dodici e dalle quattordici alle diciassette e il sabato mattina dalle otto alle tredici. Contemporaneamente e per tutto questo periodo, la R. aveva altresì prestato la sua attività presso lo studio del S. per una media di diciotto ore settimanali: nella pausa pranzo, la sera, il sabato pomeriggio e, in concomitanza con le scadenze fiscali, anche la domenica. Dall'1/7/2001, con la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuata con la ditta F., l'impegno della lavoratrice presso il ragioniere era aumentato a quaranta ore settimanali. Il rapporto di lavoro, consistente nello svolgimento di compiti d'impiegata di studio contabile, presentava le caratteristiche della subordinazione, per le specifiche e stringenti direttive impartite e per il puntuale controllo svolto dal titolare. Inoltre, la R., nubile e senza figli, aveva nel tempo intessuto con i coniugi S. un'assidua frequentazione personale, che la vedeva coinvolta in modo vieppiù crescente in funzioni di assistenza degli stessi: dal riordino della cucina dopo il pranzo all'accompagnamento in auto ovunque essi volessero, specie in montagna per le vacanze, e in ospedale per svolgere i controlli e le visite di routine. Per queste incombenze estranee allo svolgimento delle normali prestazioni di lavoro la controricorrente riceveva soltanto modesti regali e talvolta il rimborso delle spese di benzina per i viaggi effettuati per conto dello studio.

La difesa del Comune opponeva che nessun rapporto di lavoro subordinato si era instaurato con la R., la quale aveva reso le sue prestazioni mossa dall'affetto, per il rapporto di amicizia e familiarità instauratosi con il ragioniere, e dalla speranza di un cospicuo riconoscimento patrimoniale all'atto della successione ereditaria.

La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza in data 7/9/2011, ha confermato la decisione del giudice di prime cure, che aveva condannato il Comune di Faenza a liquidare alla R. euro 332.251,77 sino al marzo 2003, somma comprensiva d'interessi e rivalutazione, da rivalutarsi ancora dal 2003 al saldo, ritenendo infondato l'appello ad eccezione del motivo riguardante la prescrizione quinquennale anziché decennale delle somme richieste a titolo contributivo.

Avverso tale sentenza interpone ricorso il Comune di Faenza affidando le sue ragioni a tre motivi e depositando memoria.

Resiste G.R. con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1) Nel primo motivo parte ricorrente afferma che la sentenza della Corte d'Appello è affetta dal vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. là dove si pronuncia per l'onerosità e non già per la gratuità di una prestazione resa per conseguire un vantaggio indiretto consistente in un lascito ereditario.

Rileva, inoltre, un contrasto con la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 10923/2000), che ammette la gratuità anche quando la prestazione, svolta in vista di futuri vantaggi ereditari, è resa al di fuori di un legame di parentela e affinità.

2) Nel secondo motivo la censura si appunta sul vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 cod. civ. nel punto in cui la sentenza gravata ha ritenuto onerosa la prestazione nonostante il legame di amicizia e di affetto tra la controricorrente e il de cuius.

I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente, essendo connesse le ragioni a essi sottese.

Entrambi i motivi sono infondati. Secondo l'orientamento costante di questa Corte ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato deve presumersi svolta a titolo oneroso. Tale presunzione può essere superata soltanto attraverso la prova rigorosa dell'esistenza di una causa, capace di legittimare la gratuità (Cass. n. 17992/2010). In assenza di tale prova la prestazione va ricondotta a un contratto di lavoro, che assume le caratteristiche della subordinazione qualora ne ricorrano gli elementi costitutivi.

Nel caso in cui l'attività sia svolta a favore di familiari o conviventi legati da vincolo di parentela o affinità, o anche da vincolo di affettuosa ospitalità, le prestazioni si presumono gratuite e non riconducibili ipso jure a un rapporto di lavoro, salvo che la parte che afferma l'onerosità della prestazione non ne fornisca la prova rigorosa (Cass. n. 3304/1999; Cass. n. 12639/2003).

Nella fattispecie esaminata, la causa dello scambio sarebbe consistita nella promessa (non mantenuta) di un lascito ereditario. Dalle prove testimoniali e documentali esaminate dal giudice del merito, si rileva l'intento, dichiarato in vario modo dal de cuius, di destinare alla sua impiegata un lascito da valere quale compenso del lavoro svolto per oltre trent'anni. L'evidenza di una tale promessa, mantenuta durante tutta la durata del rapporto di lavoro, dimostra come la controricorrente escludesse - ab origine - di conferire la propria attività per uno scopo altruistico.

La gratuità della prestazione non può neppure dedursi in via consequenziale dalla prolungata inerzia nel richiedere un compenso. Secondo il costante orientamento di questa Corte, la mera inerzia non è da considerarsi elemento decisivo al fine di sostenere la gratuità della prestazione (Cass., n. 5550/1985; Cass. n. 8132/1999; Cass. n. 12433/2015).

Alcune delle censure contenute nei motivi di ricorso, mirano a ottenere un accertamento del fatto, incensurabile in questa sede. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, infatti, in sede di legittimità è censurabile soltanto la determinazione di criteri generali e astratti da applicare al caso concreto (Cass. n. 11045/2000).

Tuttavia, anche sotto il profilo della riconduzione della fattispecie, ad alcuna delle espressioni di liberalità, solidarietà, partecipazione e pluralismo comunemente ammesse, non è dato ritrovare un'identità di ratio col caso in questione tale da indurre ad ammettere una deroga al principio cardine dell'onerosità. Le ipotesi di lavoro gratuito accolte (per vero, non numerose) si riferiscono motivatamente a prestazioni rese a favore di organizzazioni di tendenza - politiche e religiose - per ragioni di proselitismo (Cass. n. 17992/2010), al lavoro prestato nell'ambito di rapporti familiari e di convivenza (Cass. n. 1833/2009), al lavoro volontario in favore di organizzazioni iscritte ad albi di rilevanza pubblicistica, per il quale, è lo stesso legislatore a escludere la compatibilità con qualsiasi legame di carattere patrimoniale con l'organizzazione di appartenenza.

Pertanto, poiché nessuna identificazione o analogia con tali finalità può discendere dal caso controverso, l'iter argomentativo seguito dal giudice dell'Appello resiste a ogni censura, e la sentenza si presenta immune da vizi logici e giuridici, e sostenuta da adeguata motivazione.

3) Nel terzo motivo parte ricorrente assume non raggiunta la prova in merito all'orario di lavoro svolto dalla R., deducendo la mancata giustificazione della prospettazione e la mancata confutazione delle puntuali censure sollevate.

Il motivo è inammissibile. Il ricorrente propone mere controdeduzioni, rivolte a sollecitare un'interpretazione del materiale probatorio diversa da quella operata in fatto dal giudice dell'Appello, e insuscettibile di un controllo negativo di legittimità, laddove sorretta, come in questo caso, da motivazione coerente, logica e congrua (Cass. n. 3228/2001).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7,000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.