Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 luglio 2016, n. 15677

Licenziamento - Reato - Condanna in sede penale - Fatti accertati - Compromissione vincolo fiduciario

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 48\09 il Tribunale di Milano rigettava il ricorso con cui M.C. chiese di dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli dalla società P.I. s.p.a. con nota 23.3.2008, con tutte le conseguenze di legge in punto di ricostituzione del rapporto di lavoro e di risarcimento del danno.

Il primo giudice, tenendo conto dei fatti accertati e per i quali il C. era stato precedentemente condannato (ex art. 444 c.p.p.) in sede penale, ritenne che la connessione tra i fatti medesimi e la prestazione lavorativa - alla luce di quanto previsto dalle norme contrattuali e di legge - fosse sufficiente per ritenere irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario necessario per la permanenza del rapporto di lavoro.

La natura di reato contro il patrimonio, aggravato dalla violenza sulle cose e divulgato dalla stampa a diffusione nazionale, erano stati ritenuti dal giudice di prime cure elementi idonei a porre in discussione l'affidabilità del lavoratore ai fini della corretta esecuzione della prestazione lavorativa e dell'obbligo di fedeltà, ritenendo conseguentemente legittima e proporzionale la sanzione adottata.

Proponeva appello il C. censurando la sentenza appellata sotto diversi profili. Resisteva la società P.I..

Con sentenza depositata l’11 giugno 2012, la Corte d'appello di Milano rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il C., affidato a cinque motivi.

Resiste P.I. s.p.a. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 L. n. 300\1970, 2119 c.c. e 653 c.p.p.(art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Lamenta che i fatti contestati al lavoratore (essersi introdotto abusivamente in altrui abitazione, ove aveva sottratto, con effrazione, da un armadio dieci paia di scarpe) non erano stati affatto provati, essendosi la parte lesa limitata a dichiarare di aver visto uno zaino contenente le sue scarpe all'interno della sua abitazione, di cui era peraltro rientrata in possesso. Lamenta che l'art. 653 c.p.p. stabilisce che (solo) la sentenza irrevocabile di condanna in sede penale (e dunque non quella di patteggiamento) ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità davanti alle pubbliche amministrazioni.

2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 L. n. 300\1970, 2119 c.c. e degli art. da 54 a 57 del c.c.n.I. luglio 2007, oltre che degli artt. 2697 e 2729 c.c. (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.).

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente specifica la lettera di contestazione dell'addebito, senza peraltro considerare che l'art. 56, comma 6, lettera h) del c.c.n.I. prevede il licenziamento senza preavviso solo per ‘sentenza penale di condanna passata in giudicato, per fatti non connessi con lo svolgimento del lavoro, quando tali fatti possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario’, laddove il ricorrente era occupato presso il CMP di Roserio, senza essere a contatto con valori.

3.- I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati. La sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che i fatti contestati, chiaramente esposti nella lettera di contestazione (su cui infra), oltre ad emergere dalla risultanze probatorie formatesi in sede penale (utilizzabili dal giudice civile anche allorquando sia mancato il vaglio critico del dibattimento, per essere la sentenza stata emessa ex art. 444 c.p.p., ben potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale, Cass. n. 2168\13), erano in sostanza stati ammessi dal ricorrente (che neppure in questa sede nega gli stessi, sia quanto alla loro materialità, sia quanto alle modalità di esecuzione).

Deve allora osservarsi che questa Corte ha già chiarito che in tema di responsabilità disciplinare del lavoratore, l'art. 54 del contratto collettivo di lavoro dei dipendenti di P.I. (invocato nella lettera di contestazione), nel prevedere l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento nell'ipotesi di "condanna" del dipendente, si interpreta nel senso che è sufficiente sia stata pronunciata, nei confronti del lavoratore, sentenza di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., dovendosi ritenere che le parti contrattuali abbiano voluto - con tale previsione - dare rilievo anche al caso in cui l'imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia esonerato l'accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena (cfr. Cass. n. 2168\13, Cass. n. 4060\11). Il riferimento all'art. 56, comma 6, lettera h) del c.c.n.I. risulta pertanto non dirimente.

La sentenza impugnata ha poi considerato che tali fatti, lungi dall'essere riconducibili, come ora deduce il ricorrente, ad una insana attenzione per le scarpe femminili, consistettero piuttosto nell'essersi introdotto clandestinamente, mediante impiego di chiavi abusivamente duplicate, nell'abitazione della parte lesa, impossessandosi di dieci paia di scarpe appartenenti a quest'ultima, con l'aggravante di aver usato violenza sulle cose (e cioè la forzatura dell'armadio), concretando così l'ipotesi delittuosa di cui agli artt. 624 e 625 c.p. e dunque un fatto particolarmente grave (reato contro il patrimonio, aggravato da violenza sulle cose), tanto più considerate le mansioni di addetto allo smistamento e movimentazione di beni di terzi, affidati al servizio postale.

4.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c.(art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente, e sulla base di una motivazione insufficiente, la proporzione tra i fatti addebitati e la massima sanzione, omettendo in particolare di valutare il profilo soggettivo della condotta, inidoneo a porre in dubbio la correttezza dei futuri adempimenti, nonché il modesto risalto dato alla notizia dalla stampa.

Il motivo è infondato. La sentenza impugnata, per le ragioni sopra esposte, ha ritenuto che i fatti contestati, per la loro gravità e per la massima espressione dell'elemento intenzionale (dolo), concretassero senz'altro, giusta del resto la previsione dell'art. 54 del c.c.n.I. di categoria, la sanzione del licenziamento.

Deve infatti considerarsi che la sentenza impugnata, come detto, non ha ritenuto, come lamentato dal ricorrente, sic et simpliciter censurabile con la massima sanzione l'impossessa mento di altrui scarpe femminili, bensì le modalità della condotta contestata (introduzione abusiva e fraudolenta nell'altrui abitazione, la forzatura di un armadio e l'impossessamento di tali oggetti), dando rilievo solo ad abundantiam alla divulgazione della notizia, ammessa dallo stesso ricorrente, ad opera della stampa.

5.- Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 e 115 c.p.c., 7 L. n. 300\1970, sotto il profilo dell'immediatezza della contestazione, oltre che degli art. da 57 e 58 del c.c.n.I. luglio 2007 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Lamenta che il menzionato art. 58 del c.c.n.I. imponeva alla società Poste di sospenderlo cautelativamente dal servizio (o di assegnarlo provvisoriamente ad altre mansioni), mentre comunque la società era a conoscenza dei fatti sia dalle riferite notizie di stampa (luglio 2007), sia, in ogni caso, dalla data della sentenza di patteggiamento (26.9.07), appalesandosi così tardiva la contestazione mossagli in data 27.2.08.

Anche tale motivo è infondato.

Deve infatti considerarsi che la sospensione (o altra misura) cautelare prevista dal c.c.n.I. (che il ricorrente neppure produce, in contrasto con l'art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c.), è istituto meramente facoltativo e comunque non decisivo per i fini che qui interessano. La Corte di merito ha infatti correttamente affermato, sulla base del consolidato orientamento di legittimità (e plurimis, Cass. n. 11415\06, Cass. n. 1248\2016), che il principio dell'immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale.

Nella specie, non avendo il ricorrente chiarito la compiuta conoscenza dei fatti da parte dell'azienda ad opera di talune notizie di stampa, la sentenza impugnata ha correttamente considerato sia la natura dei fatti, oggetto di accertamenti in sede penale, sia la complessità della struttura aziendale della società Poste, anche sotto il profilo delle necessarie attività conoscitive e valutative. Trattasi di apprezzamenti di fatto, rimessi al prudente apprezzamento del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità ove, come nella specie, logicamente motivati.

6.- Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 L. n. 300\1970, 1175 e 1375 c.c., sotto il profilo del diritto di difesa del lavoratore, oltre che dell'art. 57 del c.c.n.I. luglio 2007 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Lamenta che la sanzione venne dall'azienda applicata senza aver preventivamente sentito personalmente il lavoratore a sua difesa, redigendo peraltro la lettera di contestazione senza fare alcuno accenno a tale facoltà difensiva.

Il motivo è infondato.

Non può innanzitutto sottacersi che il ricorrente non produce il c.c.n.I. di categoria, sicché la doglianza risulta inammissibile laddove censura, in sostanza, l'accertamento della corte di merito secondo cui l'art. 57 del c.c.n.I. invocato prevede solo la facoltà del dipendente di essere ascoltato personalmente su sua richiesta. Peraltro è pacifico, ed emerge dallo stesso brano contrattuale collettivo riportato dal C. a pag. 19 del ricorso, che l'audizione personale del lavoratore è solo una facoltà del dipendente (che pacificamente ha presentato nei termini di legge le sue difese scritte), rimessa alla sua valutazione, necessitando di una esplicita richiesta in tal senso (Cass. n. 7493\2011, Cass. n. 9233\2015).

7.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. L'attuale condizione del ricorrente di ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude, allo stato, la debenza di quanto previsto dall'art. 13 c. 1 quater del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.