Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 marzo 2017, n. 5627

Tributi - IVA - Applicazione alla Tariffa rifiuti regolata dall’articolo 49, del DLgs n. 22/97 - Esclusione - Natura tributaria - Rimborso - Termine di prescrizione decennale

 

Fatti di causa

 

Con sentenza in data 5.12.2013 n. 3766 il Tribunale di Genova, decidendo sull'appello proposto da A. Genova s.p.a. avverso la decisione del Giudice di Pace resa ai sensi dell’art. 113 co 2 c.p.c., con la quale la società era stata condannata a restituire a G.B. ed altri nove utenti del servizio di smaltimento dei rifiuti urbani il complessivo importo di €. 625,00 indebitamente percepito a titolo IVA sulle bollette emesse per la riscossione della relativa tariffa negli anni 2006-2009, ha rigettato la impugnazione, ritenendo non assoggettate alla imposta sul valore aggiunto le somme versate dagli utenti a titolo di tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) e di tariffa di igiene ambientale (TIA) attesa la natura tributaria delle stesse, e non potendosi pertanto configurare -in assenza di un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni- alcuna violazione della direttiva CE n. 112/2006; ha inoltre ritenuto corretta la regolamentazione delle spese di lite effettuata dal primo giudice.

La sentenza non notificata è stata impugnata per cassazione da A. Genova s.p.a. con quattro motivi.

Resistono con controricorso G.B. ed altri otto utenti.

Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Il pubblico ministero ha rassegnato conclusioni scritte instando per il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Il Collegio ha raccomandato la redazione di motivazione semplificata.

Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 co 1 n. 4 c.c., dell’art. 339 co 3 c.p.c., in relazione all'art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.) A. Genova s.p.a. impugna la statuizione che ha dichiarato improponibile -attesi i limiti stabiliti dall’art. 339 co 3 c.p.c. alla impugnazione delle sentenze del Giudice di Pace pronunciate secondo equità necessaria ex art. 113 co 2 c.p.c.- il motivo di gravame dell'appello principale volto a contestare il rigetto della eccezione di prescrizione del diritto di credito fatto valere dagli utenti, ed a censurare la decisione del Giudice di Pace che aveva applicato al credito avente ad oggetto la ripetizione dell'indebito, il termine ordinario di prescrizione, anziché quello breve di cui all'art. 2948 co 1 n. 4 c.c..

Sostiene la società ricorrente che il Giudice di Pace, ritenendo la pretesa restitutoria assoggetta al termine ordinario di prescrizione ex art. 2946 c.c. anziché al termine breve previsto dall'art. 2948 co 1 n. 4 c.c. (in relazione agli "interessi e tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad un anno o in termini più brevi"), sarebbe incorso in violazione di "principi regolatori della materia", sicché illegittimamente il Tribunale avrebbe dichiarato inammissibile il corrispondente motivo di gravame (terzo motivo dell'atto di appello) in quanto non ricompreso nei limiti di appellabilità dei vizi delle sentenze pronunciate secondo equità necessaria dal Giudice di Pace.

Il motivo è infondato.

Questa Corte è intervenuta a definire l'ambito entro il quale viene in rilievo l'applicazione da parte del Giudice di Pace dei "principi regolatori della materia", la cui violazione, unitamente a quella di norme costituzionali o comunitarie e di norme del procedimento, esaurisce l'elenco tassativo dei vizi denunciabili con l'appello proposto avverso le sentenze pronunciato secondo equità ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.c., statuendo che "I principi regolatori non sono soltanto quelli ricavabili, per via di astrazione, dalla ratio sottesa alle singole norme (per reperire i quali, probabilmente, occorrerebbe una conoscenza sistematica dell'ordinamento che non appare consona al tipo di giudice che detti principi dovrebbe sapere ritrovare), ma sono quelli della materia, che non può identificarsi soltanto con ali istituti generali (il contratto; la responsabilità civile; la proprietà, etc.), bensì col singolo tipo di rapporto dedotto in giudizio. La materia è quella concreta della causa: per esempio, un contratto di vendita di cose mobili. Il conciliatore dovrà osservare le norme fondamentali relative a tal tipo di rapporto, ed in ciò è adiuvato dalla frequenza di norme definitone contenute nel codice o in altre leggi. Si tratta della configurazione essenziale del rapporto> delle norme costituenti le linee-guida della sua disciplina, senza le quali quel tipo di rapporto non sussiste: ovvero in forza delle quali il rapporto passa da una configurazione a un'altra (per esempio: la sottospecie della vendita con riserva di proprietà, rispetto alla vendita)... È evidente che il ricorrente non potrà limitarsi ad assumere l'esistenza del vizio, ma è necessario che indichi, sia pure in maniera generica, ma in modo tale da rendere intellegibile la censura, quali sono i principi regolatori che si ritengono violati e/o falsamente applicati. La Corte ha, innanzitutto, il compito di accertare se quelli dedotti (almeno implicitamente) dalla parte sono veramente i "principi regolatori della materia" di causa; se la risposta è negativa, il giudizio si fermerà a questo livello, perché si rientra nell’ambito della insindacabilità della decisione di equità. Se, invece, si tratta veramente di principi regolatori, accertata la sussistenza della dedotta violazione e/o falsa applicazione, dovrà enunciare il principio di diritto, ai sensi e con i poteri dell'art. 384 c.p.c. (primo e secondo comma) " (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 6794 del 15/06/1991).

Orbene il Giudice di Pace, dopo aver qualificato giuridicamente la domanda degli utenti come azione di ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., ha ritenuto applicabile al credito restitutorio della somma di denaro il termine ordinario di prescrizione. Tale operazione rientra nell'ambito del giudizio di equità sostanziale, che come noto è pur sempre un giudizio di merito, in quanto diretto a risolvere un conflitto di interessi, giuridicamente rilevanti, alla stregua, non della mera coscienza soggettiva del Giudice, ma di valori oggettivabili in base alla evoluzione del modo di sentire ed apprezzare determinati fenomeni (tali intendendosi i rapporti sociali) dalla collettività territorialmente identificata in un determinato periodo storico. Con la conseguenza che tanto la qualificazione del rapporto, quanto l'applicazione delle conseguenze effettuali di tale qualificazione, anche se operate con riferimento a fattispecie astratte contemplate dalle norme giuridiche di diritto sostanziale, sono comunque espressione della -ritenuta- conformità o capacità adattiva della norma ordinamentale ai valori sociali predetti.

Ne segue che, fermo il principio generale -posto a fondamento "dell'istituto della prescrizione"- della estinzione di "ogni" diritto per mancato esercizio nel tempo previsto dalla legge (art. 2934 co 1 c.c.) cui si correla la invalicabilità dei limiti massimi dei termine prescrizionali stabiliti dalla legge (termini indisponibili per le parti ed inderogabili dal Giudice di equità necessaria, in quanto rispondenti alla fondamentale esigenza di ordine pubblico, comune a tutti gli ordinamenti giuridici, di assicurare la certezza dei rapporti giuridici), e ferme le norme generali che regolano il "funzionamento" dell'istituto della prescrizione, in quanto essenziali "condizioni di coerenza dei sistema" (norme individuabili in quelle collocate sotto il Titolo V, Capo I, Sezioni I, II, III e IV par.4, del Codice civile: cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 5462 del 18/06/1997; id. Sez. 1, Sentenza n. 7155 del 01/08/1997; id. Sez. 3, Sentenza n. 7354 del 08/08/1997 -che hanno escluso dall'ambito dei "principi regolatori" dell'istituto generale della prescrizione le norme relative alla "prescrizione presuntiva non rileva ai fini della presente controversia la questione se, una volta scelto dal Giudice dell'equità necessaria di ricorrere a tali norme, possano ravvisarsi "principi regolatori" della materia della "prescrizione presuntiva", come invece sembra ritenere Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 21116 del 31/10/2005-; id. Sez. 1, Sentenza n. 5037 del 08/03/2005), deve escludersi che la individuazione della norma che prevede il termine prescrizionale, applicata ex art. 113 co 2 c.p.c. dal Giudice di Pace al diritto controverso, possa integrare violazione dei principi regolatori della materia, salvo il caso -che non ricorre nella fattispecie- in cui il Legislatore abbia inteso disciplinare in modo conchiuso determinate "materie" dettando principi regolatori speciali estesi anche alla peculiare disciplina del termine prescrizionale, in deroga al sistema ordinario della prescrizione disciplinato dal codice civile (in tale senso cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11163 del 12/11/1997 -in materia di termine di prescrizione degli oneri accessori in materia di locazione di immobili urbani destinati ad uso abitativo-; id. Sez. 2, Sentenza n. 21612 del 15/11/2004 -in ordine alla peculiare disciplina della decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per i vizi della cosa venduta, in quanto costituente principio informatore del contratto di compravendita-; id. Sez. 3, Sentenza n. 5462 del 14/03/2006 -che correla il termine prescrizionale breve di cui all’art. 2948 co c.c. ai principi informatori della materia identificata nel contratto di somministrazione in quanto conformato dalla disciplina del tipo negoziale come contratto con causa di durata caratterizzato dalla autonomia delle singole prestazioni e dei singoli crediti per corrispettivo-).

Tanto premesso attesa la qualificazione della domanda svolta dagli utenti come azione di condanna alla restituzione dell'indebito oggettivo diretta a far valere un autonomo diritto, ed individuato il fatto costitutivo di tale diritto -in relazione allo schema normativo astratto dell'art. 2033 c.c.- nella assenza originaria o nel successivo venire meno del titolo giustificativo del pagamento eseguito, ed in mancanza di argomenti spesi dalla società nel motivo di gravame (ed anche nella comparsa di costituzione in primo grado: entrambi trascritti parzialmente a pag. 13-14 del ricorso per cassazione) in ordine alla riconducibilità della norma prescrizionale invocata (art. 2948 co 1 n. 4 c.c.) tra i "principi regolatori" della "materia" da individuarsi con riferimento al rapporto controverso di indebito oggettivo (non essendo stata indicata dall'A. Genova s.p.a. alcuna "tipicità" della disciplina normativa del rapporto obbligatorio controverso, tale da ricomprendere tra gli elementi essenziali di "riconoscimento" della fattispecie anche la norma relativa alla prescrizione breve), ritiene il Collegio che debba ritenersi esente da vizi la decisione del Tribunale di Genova che ha dichiarato improponibile, ai sensi dell’art. 339, comma 3, c.p.c., il motivo di gravame con il quale veniva investita la statuizione della sentenza del Giudice di Pace che aveva rigettato la eccezione di prescrizione ex art. 2948 co 1 n. 4 c.c., ritenendo assoggettato al termine ordinario di prescrizione il diritto di credito, azionato dagli utenti.

E' appena il caso di osservare che, qualora si dovesse ritenere implicitamente posto a fondamento del motivo di gravame, non il rapporto di indebito oggettivo, ma il "rapporto obbligatorio presupposto", avente ad oggetto la erogazione "continuativa" del servizio di smaltimento rifiuti, o ancora -come sembrerebbe desumersi dal motivo di ricorso per cassazione- la qualificazione della domanda restitutoria degli utenti come "rimborso d'imposta", è agevole rilevare la palese infondatezza di entrambe le tesi difensive, atteso che :

a) l'applicazione del termine prescrizionale breve ex art. 2948 co 1 n. 4) c.c. potrebbe trovare giustificazione in relazione al diritto di credito della società erogatrice del servizio "a percepire il pagamento" delle somme richieste "periodicamente o ad anno", ma non anche -invece- il distinto diritto di credito degli utenti "a ripetere" le somme indebitamente versate, che non integra una pretesa periodica avente titolo in un rapporto contraddistinto da "causa di durata", rimanendo pertanto regolato dall'art. 2033 c.c. e soggetto all'ordinario termine di prescrizione dei diritti (art. 2946 c.c.), decorrente dai singoli pagamenti (vedi Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2936 del 14/03/1995; cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 16612 del 19/06/2008; id. Sez. U, Sentenza n. 24418 del 02/12/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 6659 del 21/03/2014 e id. Sez. 3, Sentenza n. 22978 del 11/11/2015 -che estendono la prescrizione decennale anche al credito accessorio per interessi sulla somma-capitale restituenda- );

b) del tutto errato è poi il riferimento al contenuto del rapporto in quanto avente ad oggetto un "rimborso d'imposta" -che implicherebbe peraltro la giurisdizione tributaria-, operando su piani del tutto distinti il "rapporto di natura tributaria" che intercorre tra soggetto passivo d'imposta ed ente impostore, ed il "rapporto di natura privatistica" che intercorre invece tra prestatore del servizio e soggetto destinatario della prestazione (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 9114 del 13/05/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 16612 del 19/06/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 14933 del 06/07/2011), attenendo l'indebito oggettivo, non al recupero dell'IVA non dovuta sul canone tariffario, che A. Genova s.p.a., quale soggetto passivo d'imposta, ha versato all'Erario, essendo legittimata pertanto, in via esclusiva, a richiedere all'ente impositore il relativo rimborso (per il quale la legge prevede un generale termine di decadenza, per la presentazione della istanza ex art. 21 Dlgs n. 546/1992, decorrente in diversa guisa secondo la interpretazione della norma fornita da Corte di Giustizia dell'Unione europea nella sentenza del 15 dicembre 2011, causa C-427/10; Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 12666 del 20/07/2012; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 1426 del 26/01/2016), ma attenendo all'indebito maggiore importo che, nell'ambito del rapporto di diritto privato, l'utente finale ha versato ad A. per un titolo inesistente (l'erronea applicazione e pagamento della imposta non costituisce idoneo titolo giustificativo del maggiore importo tariffario richiesto agli utenti ), essendo inoltre appena il caso di aggiungere che la natura tributaria della tariffa del servizio di interesse generale (TARSU; TIA-1), non assume alcun rilievo nella fattispecie, atteso che la domanda di restituzione degli utenti è limitata al recupero della sola quota-fatturata corrispondente all'ammontare dell'IVA e non si estende pertanto alle altre componenti tributarie-tariffarie in relazione alle quali soltanto gli utenti vengono ad assumere la posizione di contribuenti.

Secondo motivo :

- Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (n. 127 sexiesdecies TAB. A. All. 1, Dpr n. 633/72; art. 74 co 4 Dpr n. 633/72; DM 24.10.2000 n. 370; art. 4 co 2, n. 1) Dpr n. 633/72; art. 6 co 13 legge n. 133/1999; art. 18 Dpr n. 633/72, in relazione all'art. 360 co 1 n. 3 c.p.c. : sotto il profilo della violazione del "principio regolatore della materia" individuato "nell'obbligo di rivalsa" della disciplina normativa dell'IVA)

Terzo motivo:

- Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 9, 73 e 78 della direttiva CE n. 2006/112/CE in materia IVA, come interpretata dalla Corte di Giustizia, in relazione all'art. 360 co 1 n. 3 c.p.c. (sulla natura di corrispettivo assoggettabile ad IVA)

Quarto motivo :

- Violazione o falsa applicazione dell'art. 13 della direttiva CE n. 112/2006 e dell'art. 4 del Dpr n. 633/72, in relazione all'art. 360 co 1 n. 3 c.p.c. (sul requisito della natura pubblica dell'ente richiesto per la esenzione IVA)

Sostiene la ricorrente che la pretesa restitutoria degli utenti è infondata in quanto il pagamento della tariffa (pur se alla stessa viene attribuita natura di "tassa") ricade nell'ambito di applicazione dell'IVA. La disciplina normativa interna e comunitaria dell'imposta sul valore aggiunto assoggetta, infatti, al tributo le prestazioni di servizi eseguite verso corrispettivo e tale situazione si configura anche nel caso di specie, tanto è che il n. 18 dell'Allegato III della direttiva CE n. 112/2006 prevede l'applicazione dell'IVA, con aliquota agevolata, anche per le prestazioni di servizio aventi ad oggetto la pulizia delle strade pubbliche, e che non può trovare invece applicazione la esenzione d'imposta prevista dall'art. 13 della medesima direttiva comunitaria che richiede il requisito soggettivo della natura pubblica dell'ente erogatore del servizio, nella specie insussistente.

I motivi che per la stretta connessione alla violazione della normativa comunitaria sono esaminabili congiuntamente, debbono ritenersi infondati.

Occorre premettere che gli importi in restituzione riguardavano il periodo 2006-2009 ma concernono la TIA-1 "tariffa di igiene ambientale" introdotta dall'art. 49 del 5.2.1997 n. 22 (non venendo in questione pertanto la TIA-tariffa integrata ambientale introdotta con l'art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152)

Le questioni inerenti il diritto comunitario sollevate dalla società sono state oggetto di esame nelle pronunce del Giudice delle Leggi (sentenza n. 238/2009 ed ordinanza n. 64/2010) nonché nella successiva pronuncia di questa Corte Sez. U, Sentenza n. 5078 del 15/03/2016, che hanno tutte definitivamente ribadito la natura tributaria della tariffa (TIA) ed hanno escluso l'elemento di sinallagmaticità del rapporto tra soggetto prestatore del servizio ed utenti, difettando una funzione di scambio tra servizio che assolve ad esigenze pubbliche generali e valore tariffario applicato, essendo imposto all'utente il prelievo anche in assenza di controprestazione.

In particolare, sulla non assoggettabilità ad IVA anche della TIA vale richiamare le considerazioni già svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 238/2009, secondo cui "la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l'entità del prelievo - quest'ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni - porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell'assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008; in causa C-288/07) esclude in via generale dall'assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all'imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa)

Quanto all'altro argomento della ricorrente secondo cui A. s.p.a., essendo società capitali, non può essere assimilata ad un "ente pubblico" considerato dalla direttiva IVA come requisito soggettivo di esenzione dall'imposta dell'attività svolta, unitamente all’esercizio di attività ed operazioni svolto in qualità di pubblica autorità, vale osservare come lo strumento organizzativo attraverso il quale le autorità pubbliche vengono a realizzare gli scopi di pubblica utilità istituzionalmente ad essi riservati, non immuta il principio della norma comunitaria di cui all'art. 13, paragr. 1, della direttiva n. 112/2006 laddove il soggetto di diritto privato venga ad esercitare gli stessi poteri pubblici dell'ente locale, accertando, applicando e riscuotendo il tributo per conto del Comune impositore: in tal caso, infatti, rimangono esenti da IVA le attività del gestore svolte per conto del Comune anche se comportano la riscossione di "diritti, canoni o contributi". E che il termine soggettivo di riferimento della percezione degli importi tariffari della TIA debba essere individuato esclusivamente nei Comuni non pare in alcun modo possa dubitarsi, dovendo richiamarsi al riguardo le argomentazioni svolte da Corte cost. n. 238/2009 in merito alla TARSU ed alla TIA (in motivazione paragr. 7.2.3.2.) secondo cui "in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi: a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata; b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi; c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.....Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nei caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l'accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio ......La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell'affidamento a terzi della gestione del servizio comporta fa delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU." L'elemento della autoritarietà che contraddistingue il rapporto e che si traduce nella prestazione patrimoniale imposta all'utente, trova ampio riscontro nei criteri di commisurazione della TIA, avulsi dalla entità dei rifiuti effettivamente prodotti e smaltiti (in quanto fondati su indici che tengono conto della "quantità totale dei rifiuti prodotti dal Comune", della superficie delle utenze, del numero dei componenti del nucleo familiare, dei coefficienti di potenziale produzione dei rifiuti per tipo di uso delle superfici tassabili), allontanano il prelievo "dovuto, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento" dalla nozione di tariffa e quindi di corrispettivo, escludendo la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.

L'assenza del presupposto d'imposta, cristallizzato dall'art. 2, parag. 1, lett. c) della direttiva CE n. 112/2006 ("1. Sono soggette all'IVA le operazioni seguenti :...c) le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale;.."), è stato evidenziato anche dalla sentenza delle SS.UU. n. 5078/2016, con riferimento a fattispecie del tutto analoga a quella oggi pervenuta all'esame della Corte (la controversia decisa dalle Sezioni Unite concerneva domanda di ripetizione d'indebito formulata nei confronti di una società di capitali "affidataria del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti per il Comune di Venezia": cfr. in motivazione nello "svolgimento del processo"), avendo in quel caso il Giudice nomofilattico incentrato l'attenzione in particolare sugli "elementi autoritativi che caratterizzano la cd. Tia-1, elementi costituiti dall’assenza di volontarietà nel rapporto fra gestore ed utente, dalla totale predeterminazione dei costi da parte del soggetto pubblico - essendo irrilevanti le varie forme di attribuzione a soggetti privati di servizi (ed entrate) pubblici- nonché dall'assenza del rapporto sinallagmatico a base dell'assoggettamento ad IVA (artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633/1972)..." (cfr. in motivazione, punto 14), confermando peraltro un costante orientamento della Sezione tributaria, e rilevando che la verifica dell'assenza di sinallagma tra le prestazioni era da ritenersi conforme alla interpretazione che di tale elemento era stata fornita dal Giudice di Lussemburgo, secondo cui perché possa ravvisarsi una operazione a titolo oneroso, ricadente nella ipotesi contemplata dall’art. 2, paragr. 1, lett. c) della direttiva IVA, occorre la esistenza di un "nesso diretto" tra le prestazioni tale per cui il compenso deve rivestire, in termini di reciprocità, il carattere di "controvalore effettivo" del servizio prestato, e comunque -in difetto del carattere commutativo delle prestazioni- deve rendersi "esigibile" esclusivamente a condizione della effettiva fornitura del servizio, elementi questi entrambi assenti nel rapporto in questione (cfr. tra le più recenti, Corte di Giustizia UE sentenza 18 gennaio 2017, causa C-37/16, SAWP, punti 24-31; Corte di Giustizia UE sentenza in data 2 giugno 2016, causa C-263/15, Lajvèr Melioracios Nonprofit Kft, che riassume chiaramente i principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza comunitaria in materia : "...nell'ambito del sistema dell'IVA, le operazioni imponibili presuppongono l'esistenza di un negozio giuridico tra le parti implicante la stipulazione di un prezzo o di un controvalore. Conseguentemente, qualora l'attività di un prestatore consista nel fornire esclusivamente prestazioni senza corrispettivo diretto, non vi è base imponibile e tali prestazioni non sono, quindi, soggette all'IVA (v. sentenze del 3 marzo 1994, Tolsma, C-16/93, EU:C: 1994:80, punto 12; del 29 ottobre 2009, Commissione/Finlandia, C-246/08, EU:C:2009:671, punto 43, e del 27 ottobre 2011, GFKL Financial Services, C-93/10, EU:C:2011:700, punto 17).

21. Ne consegue che una prestazione di servizi è effettuata «a titolo oneroso» ai sensi dell'articolo 2, punto 1, della sesta direttiva, e configura pertanto un'operazione imponibile, soltanto quando tra il prestatore e l'utente intercorra un rapporto giuridico nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, in cui il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato all'utente (v. sentenze del 3 marzo 1994, Tolsma, C-16/93, EU:C:1994:80, punto 14; del 29 ottobre 2009, Commissione/Finlandia, 0246/08, EU:C:2009:671, punto 44, e del 27 ottobre 2011, GFKL Financial Services, C-93/10, EU:C:2011:700, punto 18; 22. In tale contesto, ¡a Corte ha ripetutamente statuito che la nozione di «prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso»f ai sensi di tale articolo 2, punto 1, presuppone l'esistenza di un nesso diretto tra il servizio prestato e il controvalore ricevuto (v. sentenze del 5 febbraio 1981, Cooperative Aardappelenbewaarplaats, 154/80, EU:C: 1981:38, punto 12; dell’8 marzo 1988, Apple and Pear Development Council, 102/86, EU:C: 1988:120, punto 12; del 3 marzo 1994, Tolsma, C-16/93, EU:C:1994:80, punto 13; del 29 ottobre 2009, Commissione/Finlandia, C-246/08, EU:C:2009:671, punto 45, e del 27 ottobre 2011, GFKL Financial Services, C-93/10, EU:C:2011:700, punto 19). 23. Per quanto riguarda il servizio di radiodiffusione pubblica di cui trattasi nel procedimento principale, occorre necessariamente constatare che non intercorre un rapporto giuridico tra la C.R. e le persone tenute al pagamento del canone radiofonico, nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, né sussiste un nesso diretto tra tale servizio di radiodiffusione pubblica e il suddetto canone. 24. Nell'ambito della fornitura del suddetto servizio, infatti, la C.R. e tali persone non sono vincolate da alcun rapporto contrattuale o negozio giuridico implicante la stipulazione di un prezzo e neppure da un impegno giuridico assunto liberamente dall'uno nei confronti dell'altro. 25. Inoltre, l'obbligo di pagare tale canone radiofonico non deriva dalla fornitura di un servizio di cui il canone costituirebbe il controvalore diretto, poiché tale obbligo non è collegato aII'utilizzo, da parte delle persone sottoposte a tale obbligo, del servizio di radiodiffusione pubblica fornito dalla C.R., ma solamente al possesso di un ricevitore radiofonico e ciò indipendentemente dall'uso che è fatto di quest'ultimo. 26. Pertanto, le persone che possiedono un ricevitore radiofonico sono obbligate a pagare tale canone, anche qualora esse utilizzino tale dispositivo solo per ascoltare programmi radiofonici emessi da emittenti radiofoniche diverse dalla C.R., quali programmi radiofonici commerciali finanziati mediante fonti diverse rispetto a tale canone, per la lettura di compact disc o di altri supporti digitali, oppure per altre funzioni di cui dispongono in genere gli apparecchi che consentono di ricevere e riprodurre trasmissioni radiofoniche").

Dalle considerazioni svolte discende la irrilevanza del richiamo operato dalla ricorrente alla disposizione dell’art. 78, paragr. 1, lett. a) della direttiva del Consiglio n. 112/2006 (secondo cui nella base imponibile IVA devono essere ricomprese anche "/e imposte, i dazi, la tasse ed i prelievi" ad eccezione delle stessa IVA), nonché alla voce n. 18 del III Allegato alla medesima direttiva comunitaria che prevede l'applicazione dell'aliquota agevolata IVA alle "prestazioni di servizi fornite nell'ambito della pulizia delle strade pubbliche, della rimozione dei rifiuti domestici e del trattamento dei residui, diversi dai servizi forniti dagli enti di cui all’articolo 13", atteso che se, da un lato la disposizione dell'Allegato fa espressa riserva dell'esenzione dall'imposta per quelle attività che sono svolte con esercizio di poteri autoritativi dalle pubbliche amministrazioni, dall'altro lato, le norme predette non possono evidentemente prescindere dalla verificazione del presupposto impositivo individuato nell'art. 2 della direttiva n. 112/2006, nella specie escluso, dovendo intendersi assoggettata ad IVA l'attività di smaltimento rifiuti ed igiene urbana non in virtù della letterale previsione normativa di tale attività, ma soltanto se l'esercizio della stessa risponda alle condizioni previste per l'applicazione dell'IVA.

Né è consentito desumere -con argomento a contrario- che anteriormente alla modifica dell'art. 4 Dpr n. 633/72, introdotta con l'art. 38 del decreto- legge 18 ottobre 2012, n. 179 coordinato con la legge di conversione 17 dicembre 2012, n. 221 ("2. Al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 4, quinto comma, secondo periodo, dopo le parole: «Non sono invece considerate attività commerciali:» sono inserite le seguenti: «le operazioni effettuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province, dai comuni e dagli altri enti di diritto pubblico nell'ambito di attività di pubblica autorità"), le prestazioni del servizio di smaltimento rifiuto fossero da ritenersi sempre e comunque attività di natura commerciale, atteso che la disposizione in questione non ha introdotto, a decorrere dal 2012, la esenzione di imposta per le attività svolte dagli enti pubblici come pubbliche autorità -essendo già prevista tale ipotesi dall'art. 13, paragr. 1 della direttiva n. 112/2006- ma è venuta soltanto a chiarire, nell'ordinamento interno, la portata delle preesistenti disposizioni comunitarie.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del Dpr 30 maggio 2002 n. 115, inserito dall'art. 1 comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.