Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 19 ottobre 2017, n. 24743

Licenziamento disciplinare - Insubordinazione e comportamento oltraggioso - Tutela ex art. 18 L. 300/1970 - Requisito dimensionale - Computo complessivo dei dipendenti delle società convenute - Unico centro di imputazione - Provocazione e contesto familiare nel quale si erano svolti i fatti - Addebito di insubordinazione - Rifiuto di eseguire una legittima disposizione datoriale - Non fondato

 

Fatti di causa

 

Con ricorso al Tribunale di Siena del 29.9.2011 G.P., già dipendente della società P. srl, impugnava nei confronti della società formalmente datrice di lavoro nonché della società D. srl il licenziamento disciplinare intimatogli con comunicazione del 10.9.2010 per insubordinazione e comportamento oltraggioso verso il presidente della società, chiedendo adottarsi la tutela ex art. 18 L. 300/1970, di cui sussisteva il requisito dimensionale in ragione del computo complessivo dei dipendenti delle due società convenute, che costituivano un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.

Il Giudice del Lavoro, con sentenza del 4.4.2014 - (nr. 63/2014), accoglieva integralmente la domanda del lavoratore.

Per quanto rileva in causa, la Corte d'appello di Firenze con sentenza del 3.2.2015 (nr. 72/2015) rigettava l'appello delle due società convenute.

La Corte territoriale osservava non essere contestato che G.P. si fosse rivolto con espressioni ingiuriose all'amministratore della società P. srl, L. P., zio dello stesso e socio al 50% della società con il fratello V., padre del lavoratore.

I rapporti tra i due protagonisti del fatto che aveva dato luogo al licenziamento erano tesi per risalenti questioni familiari ed economiche; era altresì provato che nella circostanza l'amministratore nel negare al nipote una richiesta di benefits si era rivolto a lui con una espressione provocatoria («ti mi stai sui coglioni per il semplice ed unico fatto di essere il figlio della P.»).

La provocazione ed il contesto familiare nel quale si erano svolti i fatti escludevano la ricorrenza dei presupposti per il licenziamento; la valutazione degli addebiti non poteva tenere conto del comportamento successivamente tenuto dal lavoratore nel rendere le sue giustificazioni, che non aveva costituito oggetto di contestazione.

Non era fondato l'addebito di insubordinazione, poiché nei fatti contestati non era ravvisabile il rifiuto di eseguire una legittima disposizione datoriale.

Quanto alla tutela applicabile, era stata acquisita la prova della unicità della azienda delle due società convenute; il numero complessivo dei dipendenti raggiungeva la soglia dimensionale per la applicazione dell' articolo 18 L. 300/1970, in quanto al numero di 13,88 lavoratori dovevano aggiungersi i due dipendenti legati da vincoli familiari.

La non computabilità dei familiari ai fini del requisito occupazionale prevista dall'articolo 18 comma 2 della legge nr. 300/1970 era relativa all' imprenditore individuale mentre nella società di capitali non era individuabile alcun rapporto di parentela.

Hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza le società P. srl e D. srl, articolato in tre motivi, cui ha opposto difese G.P. con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo le società ricorrenti hanno dedotto - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - violazione dell'art. 2119 cod.civ. in relazione al capo della sentenza che negava la esistenza della giusta causa di licenziamento.

Hanno evidenziato che il giudice dell'appello considerava pacifiche le circostanze di fatto fissate nelle tre comunicazioni, rispettivamente di contestazione, di giustificazione e di licenziamento (docc. 2, 5 e 6 del primo grado) che attestavano la ribellione del lavoratore al potere direttivo del Presidente della P. srl, con espressioni volgari ed ingiuriose.

Le frasi dirette all'amministratore, pacificamente pronunziate e ribadite davanti ad altri colleghi («tu sei una testa di cazzo, sei una nullità, non hai mai capito un cazzo, non comandi un cazzo, sei un deficiente...» ), il cui senso era confermato dal tenore delle giustificazioni, configuravano non soltanto una offesa al legale rappresentante del datore di lavoro, per la quale poteva venire in rilievo la attenuante della provocazione ma anche la negazione in radice del potere gerarchico del datore di lavoro, la cui gravità non era attenuata dalla provocazione.

Non era condivisibile la esclusione in sentenza della condotta di insubordinazione per mancanza del rifiuto di eseguire un ordine, potendo la insubordinazione consistere anche nella contestazione in sé della funzione gerarchica.

Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.

Esso si fonda sull'assunto dell' accertamento in sentenza della verità dei fatti addebitati al lavoratore senza tuttavia specificare sulla base di quali atti di causa la statuizione della Corte territoriale - secondo cui non era in contestazione che il lavoratore si fosse «rivolto all'amministratore della società con espressioni ingiuriose» - debba intendersi nel senso della conferma delle espressioni riportate nella lettera di contestazione disciplinare, come trascritte in ricorso. Le società ricorrenti avrebbero dovuto riportare le statuizioni sul punto della sentenza di primo grado nonché le allegazioni delle parti nel giudizio di appello onde consentire a questa Corte di verificare il contenuto delle espressioni ingiuriose alle quali la sentenza d'appello intendeva fare riferimento come non contestate.

Inoltre il motivo trae fondamento anche dalle espressioni contenute nella lettera di giustificazioni del dipendente laddove il giudice dell'appello, con statuizione non impugnata, ha affermato che il comportamento tenuto dal lavoratore in sede di giustificazioni scritte non poteva essere valutato, perché non costituente oggetto di contestazione disciplinare.

La carenza di specificità nella illustrazione dei fatti accertati impedisce di verificare se tali fatti siano stati correttamente valutati in sentenza, come non giustificanti il licenziamento.

2. Con il secondo motivo le società ricorrenti hanno dedotto - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 nr. 4 cod.proc.civ. - violazione dell'art. 3 L. 604/1966 e degli artt. 112 e 113 cod.proc.civ., per avere il giudice del merito omesso di verificare se la condotta addebitata poteva dar luogo, comunque, alla sanzione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Il motivo è infondato.

Deve premettersi che per consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. sez. lav., 04/01/2016, n. 21; Cassazione civile, sez. lav., 19/02/2015, n. 3320 e giurisprudenza ivi richiamata) la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro; ciò in generale abilita il giudice a valutare un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che ciò comporti violazione dell'art. 112 c.p.c.; comporta altresì che, ove il datore di lavoro impugni globalmente la sentenza di primo grado che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento nella sua domanda al giudice d'appello di dichiarare la legittimità della risoluzione del rapporto per giusta causa deve ritenersi compresa la minor domanda di dichiarare la risoluzione dello stesso rapporto per la sussistenza di giustificato motivo soggettivo. In sostanza il giudice, anche d'impugnazione, che ometta di pronunciarsi anche d'ufficio sulla possibilità che un licenziamento intimato per giusta causa possa essere qualificato in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incorre nel vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.

Tanto premesso, si osserva, tuttavia, che nella fattispecie di causa il giudice dell'appello nel valutare i fatti ha escluso «la sussistenza dei presupposti per il recesso» e dunque si è espresso , in modo non equivoco ancorché implicito, nel senso della esclusione non solo della giusta causa ma anche del giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Non ricorre pertanto il vizio di omessa pronunzia denunziato.

3. Con il terzo motivo di ricorso le società hanno dedotto - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - violazione dell'art. 18 co. L. 20.5.1970 nr. 300, in relazione al capo di sentenza che includeva nel computo dei dipendenti ai fini della integrazione del requisito dimensionale per la applicazione della tutela reale i figli dei due soci delle società (nonché rispettivamente presidente e vice presidente).

Le ricorrenti hanno dedotto che il giudice dell'appello aveva valutato il carattere familiare delle due società ai fini del requisito dimensionale e poi, contraddittoriamente, lo aveva ritenuto irrilevante in relazione alla applicazione del comma 2 dell'articolo 18 legge nr. 300/1970, nella parte in cui escludeva dal computo dei dipendenti i parenti entro il secondo grado del datore di lavoro.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già chiarito (Cass. sez. lav. 26.6.2015 nr. 13281), con orientamento cui si intende assicurare in questa sede continuità, che nel caso di datore di lavoro organizzato in forma societaria non sono configurabili rapporti di parentela che, ai sensi dell'articolo 18 co. 2 L. 300/1970 escludano alcuni dipendenti dal computo del requisito dimensionale. La norma fa infatti riferimento a rapporti, il coniugio e la parentela entro il secondo grado, riferibili alla sole persone fisiche e non anche agli enti collettivi ed alle persone giuridiche. Non rileva, invece, il rapporto esistente con la persona del legale rappresentante o del socio dell'ente collettivo; tale ipotesi non rientra nella esclusione letteralmente prevista dall'articolo 18 né nella sua ratio, che è quella di salvaguardare il rapporto fiduciario esistente tra persone fisiche e non riproducibile rispetto alla persona giuridica.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell'art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 DPR 115/2002) - della sussistenza dell'obbligo di versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 200 per esborsi ed € 4.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.