Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 14 novembre 2017, n. 26867

Licenziamento per giusta causa - Utilizzazione illegittima della Cigs - Ulteriori violazioni della normativa sul lavoro - Denuncia alla Procura - Diritto di critica del lavoratore - Limiti del rispetto della verità oggettiva

Rilevato che

la Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Velletri con cui era stata rigettata la domanda proposta da M.P. nei confronti della s.p.a. C.F. volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli il 22 ottobre 2008 e la conseguente condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato e al risarcimento del danno; premetteva che all'appellante era stato contestato di avere sottoscritto un documento, indirizzato alla Procura della Repubblica di Velletri e al Ministero del Lavoro, con il quale venivano denunciate la utilizzazione illegittima della cassa integrazione guadagni straordinaria e altre violazioni, relative alla disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera;

il giudice di appello, a fondamento del decisum, evidenziava che il diritto di critica non legittimava il lavoratore ad iniziative che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, fossero idonee a ledere l'immagine e il decoro del datore di lavoro, determinando di conseguenza un possibile pregiudizio per l'impresa; opinava che nella fattispecie detti limiti fossero stati travalicati perché sia le indagini preliminari avviate dalla Procura della Repubblica di Velletri sia l'ispezione amministrativa avevano escluso la sussistenza degli illeciti denunciati; evidenziava, da ultimo, che il comportamento per la sua gravità era idoneo a ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro e a impedirne la prosecuzione, anche in considerazione della delicatezza delle mansioni assegnate ai lavoratori che operano nel settore della produzione alimentare;

per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.P. sulla base di due motivi; la C.F. s.p.a. ha resistito con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria; il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo si denuncia, ex art. 360 n. 3 c.p.c., "violazione degli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c. nonché dell'art. 2119 c.c. e degli artt. 21 e 24 della Costituzione"; il ricorrente si duole della errata applicazione dei principi affermati da questa Corte in fattispecie analoghe a quella oggetto di causa, evidenziando come l'esercizio del diritto di critica non scrimini il lavoratore solo qualora lo stesso travalichi, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva e la divulgazione delle notizie, all'interno o all'esterno della azienda, determini un pregiudizio effettivo al datore di lavoro; la Corte di appello, pertanto, avrebbe errato nel ritenere priva di rilievo la mancanza di diffusione dell'esposto, indirizzato solo alle autorità competenti, e dal quale non era derivato alcun danno alla società; avuto riguardo alla veridicità dei fatti quale limite dell'esercizio del diritto di critica, rimarca che detto requisito non andava disgiunto dalla prova del dolo o della colpa grave, nella specie insussistenti, avendo sottoscritto un documento redatto da un sindacalista e firmato da molti altri lavoratori; quanto al limite della continenza formale entro il quale il diritto di critica andava esplicato, ne conferma il rispetto, essendo stato il documento redatto mediante il ricorso ad espressioni colorite dettate dallo stato di esasperazione derivante dalla condizione di sospensione in cigs;

2. con il secondo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., si censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2106 e 2119 c.c.; evidenzia il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare che dalla denuncia nessun pregiudizio era stato arrecato alla attività aziendale e che la sanzione espulsiva era del tutto sproporzionata rispetto agli addebiti contestati;

3. deve innanzitutto ritenersi infondata l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa della C.F. s.p.a., che ha invocato l'art. 54 del dl. 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012 n. 134, nella parte in cui esclude che possa essere denunciato in Cassazione il vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. per le sentenze di appello che abbiano confermato la decisione di primo grado; la disposizione non è applicabile alla fattispecie in quanto viene qui in rilievo, in relazione ad entrambi i motivi di ricorso, l'ipotesi prevista dall'art. 360 n.3 c.p.c.;

4. va quindi considerato che le censure - ammissibili per quanto sinora detto, ed il cui esame congiunto è consentito dalla connessione che le connota - sono fondate nei termini di seguito esposti; il collegio intende dare continuità all'indirizzo espresso da questa Corte in fattispecie sovrapponibile a quella oggetto di scrutinio nella presente sede, non sussistendo motivi per discostarsene (vedi da ultimo Cass. 16/2/2017 n. 4125); in estrema sintesi è stato argomentato che la fattispecie in esame presuppone che venga accertato se possa assumere rilievo disciplinare, ed eventualmente a quali condizioni e in quali limiti, la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria o all'autorità amministrativa fatti commessi dal datore, in violazione delle norme penali o delle disposizioni che, nel disciplinare il rapporto di lavoro, impongono regole di comportamento soggette a sanzione;

5. è stato, quindi, al riguardo escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell'azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi (in tal senso vedi Cass. 14/3/2013 n. 6501, Cass. 8/7/2015 n. 14249, Cass. 17/1/2017 n. 996);

6. si è ritenuto che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (fra le più recenti vedi Cass. 9/1/2015 n. 144), non possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacché in tal caso "si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento" (Cass. cit. n. 6501/2013); la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori nel nostro ordinamento porta ad escludere che nell'ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore; perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta, quindi, che la denuncia si riveli infondata e il procedimento penale venga definito con la archiviazione della notizia criminis o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa;

7. la sentenza impugnata - che ha ritenuto violati gli obblighi di fedeltà e diligenza, principalmente per il fatto che le accuse "oltre a configurare qualcosa di più di quanto era fino ad allora emerso dai dibattiti politici e sindacali" senza che ciò corrispondesse a verità, non fossero state adeguatamente ponderate prima della presentazione delle denunce - va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello designata in dispositivo la quale, statuendo anche in ordine alle spese del presente giudizio, procederà ad un nuovo scrutinio della fattispecie attenendosi al principio di diritto secondo cui non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria o all'autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti;

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.