Giurisprudenza - CORTE DI APPELLO BRESCIA - Sentenza 22 giugno 2016, n. 233

INPS - Diritto all’assegno del nucleo familiare - Negato - Carattere discriminatorio

Svolgimento del processo

 

Con ricorso ai sensi del rito speciale (e non del lavoro) di cui al combinato disposto dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 e dell’art. 702 bis c.p.c., avanti al Tribunale di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, gli appellati meglio indicati in epigrafe, dopo aver convenuto l’Inps e anche la società I. S.p.a., loro datrice di lavoro, hanno agito per ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’ente previdenziale, che all’esito di accertamento ispettivo, aveva negato il loro diritto all’assegno del nucleo familiare, per alcuni periodi nel corso dei quali qualcuno dei loro figli aveva lasciato l’Italia, per rientrare nel paese di origine e lì seguire gli studi.

Hanno chiesto la cessazione di detta condotta e la condanna delle parti convenute alla restituzione delle somme a loro trattenute perché, a detta dell’Inps, indebitamente percepite, con predisposizione di un piano di rimozione degli effetti negativi, ai sensi dell’art. 28 del cit. d.lgs. 150/2011.

Con ordinanza del 14 aprile 2015, il giudice, superate le eccezioni di improcedibilità e difetto di giurisdizione sollevate dall’Inps e affermata la legittimazione passiva di quest’ultimo ente e anche della I. S.p.a., quale datore di lavoro tenuto all’erogazione materiale dell’ANF, ha accolto il ricorso e ha dichiarato il carattere discriminatorio della condotta tenuta dell’ente previdenziale, accertando il diritto dei ricorrenti a percepire l’ANF anche in relazione ai periodi in questione, con insussistenza dell’indebito prospettato dall’Inps, condannando le parti convenute, secondo le rispettive competenze, a restituire ai ricorrenti le somme loro trattenute per i titoli in questione, con diritto di I. di conguagliarle con i contributi dovuti all’Inps, al quale ha ordinato di dare adeguata pubblicità al provvedimento, e ha infine dichiarato interamente compensate tra tutte le parti le spese di lite.

Il Tribunale, in particolare, ha disapplicato l’art. 2, comma 6 bis, della L. 153/88, che esclude per i soli cittadini stranieri e non anche per i cittadini italiani l’ANF con riferimento al coniuge ed ai figli che non abbiano la residenza nella Repubblica, risultando lo stesso in contrasto con Partii della Direttiva 2003/109/CE (recepita dal d.lgs.n.3/2007), nella parte in cui assicura parità di trattamento ai soggiornanti di lungo periodo con riferimento alle prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale.

Avverso questo provvedimento, l’Inps, con ricorso depositato il giorno 11 maggio 2015, ha proposto appello ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c., censurando la decisione sotto vari profili.

Ha chiesto la parziale riforma dell’ordinanza impugnata, con rigetto integrale delle domande proposte dai ricorrenti.

Questi ultimi si sono costituiti tempestivamente in giudizio e hanno resistito all’impugnazione.

Anche I. si è costituita tempestivamente in giudizio, ribadendo la propria estraneità alla controversia, quale mero adiectus al pagamento di una prestazione erogata dall’Inps.

All’esito dell’odierna udienza, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.

 

Motivi della decisione

 

Questa Corte si è già pronunciata sulla questione e a tale orientamento intende dare continuità, modificando le precedenti sentenze solo in relazione alle differenze in fatto che caratterizzano questo procedimento e per il resto riportandosi alla precedente motivazione.

I fatti oggetto di giudizio sono sostanzialmente pacifici e il loro sintetico richiamo può essere utile per meglio comprendere il contenuto delle plurime questioni dibattute dalle parti e la relativa soluzione.

Tutti i ricorrenti, all’epoca dei fatti, erano titolari di permesso di lungo periodo e dipendenti della I.; godevano tutti dell’ANF (assegno per il nucleo familiare) di cui all’art. 2 della l. 153/88.

In particolare per W. D. J. C. l’INPS ha accertato l’indebita percezione di ANF dal 27/11/2008 al 30/06/2013 per i due figli e dal 22/11/2011 al 30/06/2013 anche per la moglie. Sia dall’esame dei passaporti (con riscontro delle date di entrata ed uscita dall’Italia dei familiari) che dalle stessa dichiarazioni del lavoratore, che ha chiaramente affermato che i figli erano tornati in Sri Lanka il 27/11/2008 e che da allora risiedevano lì frequentando regolarmente, mentre la moglie li aveva raggiunti il 22/11/2011, tornando in Italia solo nel mesi di agosto di ogni anno, l’INPS ha desunto l’assenza del requisito della residenza in Italia del nucleo famigliare.

Altrettanto per M.S., per il quale sono stati ritenuti indebiti gli ANF dal 03/01/2010 al 04/01/2012 per la moglie e le tre figlie. Anche in questo caso, lo stesso lavoratore aveva dichiarato che moglie e le mie figlie erano ritornate per ragioni di salute ed assistenza, per poi rientrare e frequentare in Italia le scuole elementari.

Quanto a H.F. risulterebbero ANF indebiti dal 18/09/2010 al 24/06/2011 per la moglie ed un figlio, tornati in Pakistan mentre il padre si trovava ricoverato presso gli ospedali civili di Brescia perché affetto da una grave malattia.

Anche L.K.S. si è visto dichiarare indebiti gli ANF percepiti dal 28/10/2012 al 04/05/2013 per moglie e 2 figli e altrettanto K.R. (ANF indebiti dal 27/04/2012 al 30/01/2013 per moglie e 2 figli) e F.M. (ANF indebiti dal 09/06/2009 al 12/03/2010 per moglie ed 1 figlio).

L’accertamento era partito a seguito di segnalazione del Comune di Brescia relativamente al constatato abbandono della scuola da parte dei figli minori di questi lavoratori: l’Inps, nel maggio 2013, ha effettuato un accertamento ispettivo presso la I., al fine di verificare gli Assegni per nucleo familiare erogati dalla società per conto dell’ente, ai dipendenti che ne avevano fatto richiesta.

A fronte dei fatti accertati, l’Inps, in applicazione della previsione di cui dall’art. 2, comma 6 bis, della l. 153/88 (secondo cui non fanno parte del nucleo familiare, ai fini della relativa prestazione, il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica), e interpretando la disposizione come riferita alla residenza effettiva e non meramente formale, ha negato l’ANF con riferimento ai figli dei ricorrenti che, pur essendo formalmente residenti in Italia, erano stati assenti dal territorio nazionale, chiedendo per il periodo di assenza le ripetizioni delle somme indicate in atti.

Le somme sono state quindi trattenute ai dipendenti dalla I., su disposizione dell’Inps.

I ricorrenti, preso atto dell’accertamento e dell’operato dell’ente previdenziale, hanno quindi promosso l’odierno procedimento, chiedendo l’accertamento del carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’Inps, con la correlata tutela legale.

Ciò premesso quanto ai fatti, l’Inps, con l’appello principale, si duole della decisione del giudice di primo grado che ha sostanzialmente accolto le domande dei ricorrenti e articola una pluralità di censure.

Sotto un primo profilo, deduce che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere, nella fattispecie, la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 e art. 44 TU Imm., atteso che esso ente si sarebbe limitato ad applicare una disposizione legislativa, valida, vigente ed efficace.

Deduce poi che l’ambito di operatività del disposto di cui all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE non comprenderebbe, diversamente da quanto opinato dal giudice di primo grado, la prestazione in esame, non appartenendo la stessa al sistema di assistenza sociale e non configurandosi come prestazione sociale assistenziale essenziale, essendo semmai una prestazione previdenziale, priva di carattere autonomo, in quanto accedente ad una condizione di reddito già esistente.

Ed ancora, espone che una volta esclusa la natura di prestazione "assistenziale" ed "essenziale" dell’ANF, il comma 12, lett. C) dell’art. 7 del d.lgs. 3/2007, di recepimento della suddetta direttiva, avrebbe introdotto una clausola di deroga (facendo salve disposizioni interne di diverso contenuto, non soltanto successive, come affermato dal giudice di primo grado, ma anche anteriori e già vigenti, come quella di cui all’art. 2, c.6 bis della l. 153/88) e che dunque nella specie sarebbe stata pienamente legittima l’applicazione della previsione del cit. art. 2, comma 6 bis.

Censura infine l’operato del Tribunale, il quale, pur non avendo la direttiva 2003/109/CE efficacia "autoesecutiva", avrebbe disapplicato la norma interna asseritamente contrastante con la stessa, omettendo il ricorso all’incidente di costituzionalità, ovvero il rinvio pregiudiziale alla CGE, entrambi richiesti da esso ente.

Quanto al merito, ribadisce la propria tesi sulla non spettanza della prestazione in esame e sulla necessità di interpretare il riferimento alla residenza dei componenti del nucleo familiare per i quali è richiesta la prestazione, nel senso di residenza effettiva e non meramente formale; ciò anche alla luce di quanto previsto in punto dalla normativa di recepimento della direttiva in esame (art. 7, c. 12, lett. c).

Come già deciso da questa Corte, nessuna delle doglianze può trovare accoglimento.

Il comma 6 bis dell’art. 2, del d.l. n. 69 del 1988, conv. nella L. 153/88 (articolo questo che disciplina l’assegno per il nucleo familiare, spettante in misura differenziata a seconda del numero dei componenti e del reddito del nucleo familiare), così dispone: "non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti di cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia".

Questo regime previsto per lo straniero è oggettivamente diverso da quello che riguarda il cittadino italiano, posto che il comma 2 dello stesso art. 2 non prevede, sul piano generale, analoga limitazione (in verità, in sede di d.l. una limitazione simile era stata introdotta, posto che era stato previsto che l’assegno fosse "concesso per i componenti del nucleo familiare che abbiano la residenza nel territorio nazionale", ma la legge di conversione ha soppresso l’inciso, per cui l’ANF oggi spetta al cittadino italiano a prescindere dal fatto che il componenti del suo nucleo familiare risiedano effettivamente nel territorio italiano).

L’art. 11 della direttiva 2003/109/UE, dedicato alla parità di trattamento del soggiornante di lungo periodo, sancisce al primo paragrafo che quest’ultimo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: "... d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale; ..."

Prevede poi al secondo paragrafo, che "per quanto riguarda le disposizioni del paragrafo 1, lettere b), d), e) ..., lo Stato membro interessato può limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio".

Dispone ancora al paragrafo quarto che "gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali".

La direttiva è stata recepita nell’ordinamento nazionale dal d.lgs. n. 3/2007, che modificando l’art. 9 del d.lgs. 286/1998, in materia di immigrazione e condizioni dello straniero, ha previsto, tra l’altro, che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può: " .. c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico ... salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale".

A fronte di questo quadro normativo, occorre anzitutto chiarire (perché diversamente il discorso potrebbe già chiudersi) che l’interpretazione del concetto di residenza data dall’Inps, quale residenza effettiva e non meramente formale, sia ragionevole e imposto dalla stessa normativa di attuazione della direttiva (d.lgs. 3/2007), laddove al riportato comma 12, lett. c, richiede quale requisito indispensabile per usufruire delle prestazioni di assistenza sociale "l’effettiva residenza" dello straniero sul territorio nazionale.

E’ pur vero che questa norma fa riferimento al titolare del diritto e non invece a chi, come nella specie, viene in rilievo non quale titolare del diritto o beneficiario della prestazione, bensì quale "elemento" costitutivo di uno dei presupposti della prestazione (in quanto componente del nucleo familiare del titolare del diritto), ma la traslazione del concetto è coerente con l’intero sistema.

Se la residenza che conta per l’avente diritto (che, nella specie, è soltanto il lavoratore dipendente) è quella effettiva, tale deve essere anche quella dei componenti della suo nucleo familiare, perché è in funzione di questo nucleo che egli percepisce la prestazione (sarebbe veramente illogico ritenere che per costoro sia sufficiente la mera residenza formale).

La stessa direttiva, come visto, consente agli stati membri di limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo o il familiare per cui questi chiede la prestazione (merita precisare che questa seconda ipotesi nulla ha a che vedere con il caso di specie, atteso che, come appena spiegato, l’unico titolare e beneficiario dell’ANF è il lavoratore - non sono invece titolari e neppure beneficiari i componenti del nucleo familiare -), ha eletto dimora o risiede abitualmente nel territorio dello Stato membro (art. 1, paragrafo 2).

Quindi rimanda ad un concetto di effettività della residenza o della dimora.

D’altro canto, ogni qualvolta la legge impone un vincolo con il territorio, non può che trattarsi di un vincolo reale ed effettivo.

Deve quindi ritenersi che fondatamente l’Inps ha esteso il concetto di effettività della residenza al caso dei componenti del nucleo familiare dell’avente diritto all’ANF, regolato dal comma 6 bis dell’art. 2 della l. 153/88.

Se così non fosse (e si dovesse dare rilievo unicamente alla residenza meramente formale), essendo pacifico che i figli dei ricorrenti abbiano sempre mantenuto la formale residenza in Italia, pur essendosi trasferiti all’estero per frequentare quelle che in Italia sono le scuole dell’obbligo, si potrebbe configurare già sotto questo profilo una discriminazione operata dall’ente previdenziale, per aver fornito una interpretazione della norma particolarmente restrittiva e in contrasto con la normativa italiana e comunitaria, ai danni dei ricorrenti.

Compiuto questo chiarimento, la prima questione da affrontare in ordine logico, riguarda la natura della prestazione per cui è causa e se la stessa debba ritenersi, o meno, "essenziale" alla luce delle norme europee.

Ed invero, è evidente che se dovesse ritenersi che l’ANF è prestazione assistenziale e al contempo essenziale, non sarebbe possibile alcuna deroga alla parità di trattamento dello straniero, assicurata dalla direttiva 2003/109 (la quale, vale la pena di ripeterlo, consente la deroga soltanto nel caso di prestazioni assistenziali non essenziali).

Per quanto riguarda la funzione e la natura assistenziale dell’ANF, l’Inps ha molto insistito nel negare questo carattere e nel sostenere che si tratterebbe di prestazione previdenziale.

Secondo l’ente, spettando unicamente a lavoratori o pensionati già percettori di reddito, la prestazione esulerebbe dal sistema dell’assistenza sociale precipuamente ordinato a supportare situazioni di bisogno essenziale.

Inoltre, non avendo carattere autonomo, ma rappresentando un quid pluris rispetto ad una condizione di reddito già esistente, neppure potrebbe ritenersi "essenziale", avendo l’unico scopo di integrare detto reddito e risolvendosi, in sostanza, in un mero supporto economico aggiuntivo, rispetto alle altre provvidenze assistenziali e previdenziali comunque assicurate.

In primo luogo, deve osservarsi che se effettivamente la prestazione in questione dovesse ritenersi di natura previdenziale, come sostenuto dall’Inps, la prestazione, come fondatamente argomentato dagli appellati (che, in tema, hanno aderito alla tesi dell’ente previdenziale), dovrebbe ricondursi nell’ambito di quelle prese in considerazione dalla lettera a) dell’art. 11 della direttiva, che garantisce la parità di trattamento dello straniero per quanto riguarda l’esercizio di attività lavorativa subordinata o autonoma, "nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ..." (l’assegno è finanziato da un apposito fondo presso l’Inps, che è alimentato esclusivamente dai contributi pagati dai datori di lavoro sulle retribuzioni erogate ai dipendenti, italiani e stranieri; si tratta quindi di una prestazione strettamente connessa al rapporto di lavoro e alle condizioni di lavoro).

E con riferimento a queste prestazioni la direttiva non consente alcuna deroga al principio della parità di trattamento.

In realtà, è opinione di questa Corte che la prestazione in esame abbia invece natura assistenziale.

In questo senso si è espressa la Suprema Corte, la quale ha appunto affermato, anche di recente, che "l’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del d.l. 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153 - finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell’eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e quindi nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero minorenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età - ha natura assistenziale, ..." (cfr. Cass. 6351/2015).

E’ pur vero che il giudice di legittimità ha affermato questa natura facendo riferimento ad una questione del tutto differente dalla presente (si trattava della spettanza dell’ANF al coniuge separato e delle modalità di computo del reddito del nucleo familiare); ma è evidente che il principio in ordine alla natura della prestazione ha portata oggettiva, riguardando la prestazione in sé, e la natura (assistenziale o meno) di questa prestazione non può certo variare in funzione delle questioni che di volta in volta sorgono riguardo la stessa e la sua spettanza.

La Corte ha rilevato che il nuovo istituto dell'assegno per il nucleo familiare, introdotto dalla l. 153/1988, si caratterizza per accentuare il processo di ridistribuzione del reddito, attraverso un sistema dei trattamenti diretto ad assicurare una tutela in favore di quelle famiglie che si mostrano effettivamente bisognose sul piano finanziario. Ed invero, l'assegno compete in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare (L. n. 153 del 1988, art. 2, comma 2, prima parte). Detto reddito, preso a parametro per la corresponsione dell'assegno, viene elevato per quei nuclei familiari che risultino meritevoli di una specifica e più intensa tutela, per comprendere soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e che si trovino, a causa di tali difetti, nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro), ovvero minorenni che abbiano difficoltà persistenti. Si realizza, così, con l'istituto in esame, una compenetrazione tra strumenti previdenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia, con quelli apprestati a tutela di malattie, essendosi rivolta particolare attenzione a quei nuclei familiari che presentano aree di accentuata sofferenza in ragione di infermità che hanno colpito qualcuno del propri componenti.

Questa finalità della L. n. 153 del 1988 (di operare cioè la ridistribuzione del reddito favorendo le famiglie che hanno veramente bisogno e tenendo conto delle loro particolari situazioni) dimostra il carattere squisitamente assistenziale della nuova normativa (cfr.la sent. citata in motivazione).

Poiché non vi è ragione di discostarsi da questi principi, deve ritenersi che la prestazione in esame abbia natura assistenziale e in quanto tale, per quel che qui interessa, rientri nell’ambito di operatività della lett. d, del primo paragrafo dell'art. 11 della direttiva 2003/109.

Resta a questo punto da verificare se la prestazione debba ricondursi anche nel novero delle prestazioni assistenziali essenziali.

Ritiene il Collegio che questa verifica debba risolversi in termini positivi.

Il 13° considerando della citata direttiva così definisce le prestazioni "essenziali" in ordine alle quali la parità di trattamento non può essere derogata: "con riferimento all’assistenza sociale, la possibilità di limitare le prestazioni per soggiornanti di lungo periodo a quelle essenziali deve intendersi nel senso che queste ultime comprendono almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine. ...".

Ora, si è visto che alla luce delle definizioni della Corte di Cassazione, l’ANF è una prestazione assistenziale il cui scopo è quello di assicurare una tutela in favore degli famiglie in effettivo stato di bisogno, tanto è vero che è attribuito in maniera differenziata in rapporto al numero dei componenti del nucleo familiare e al reddito del nucleo (in quanto più il nucleo familiare è numeroso e più il reddito è basso, più si accentua lo stato di bisogno), ed è aumentato nel caso in cui qualcuno di questi componenti sia colpito da infermità o in maniera permanente non sia nelle condizioni di dedicarsi proficuamente ad un lavoro.

E indubbio che si tratti di prestazione che per quanto aggiuntiva e integrativa di un reddito già esistente, come sostenuto dall’Inps, rappresenta un "sostegno di reddito minimo", in quanto garantisce un’entrata in più alle famiglie realmente bisognose (perché percettrici di un reddito insufficiente per far fronte alle esigenze dell’intero nucleo familiare), affinché queste dispongano delle risorse minime per il mantenimento di detto nucleo.

Si tratta altresì, al contempo, come sostenuto dagli appellati, di prestazione di "assistenza parentale", in quanto rivolta al sostegno della famiglia.

Ne deriva che la deroga al principio di parità di trattamento nella materia in esame non può ritenersi conforme alla normativa europea.

D’altro canto, come le parti mostrano di conoscere, la Corte di Giustizia Europea in materia ha affermato che dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri e il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’art. 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, costituiscono la regola generale, la deroga prevista al paragrafo 4 di tale articolo deve essere interpretata restrittivamente (sent. del 24-4-2012, causa C-571/10, Kamberaj).

Ha anche asserito che conformemente all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, sicché qualora un sussidio risponda alla finalità enunciata dal cit. art. 34 della Carta di Nizza, "non può essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’art. 11, parag.4, della direttiva 2003/109" (punto 92 della cit.sent.).

Stando così le cose, come statuito dal giudice di primo grado, la previsione interna di cui al comma 6 bis dell’art. 2, della L. 153/88, laddove con riferimento alla prestazione dell’ANF introduce per gli stranieri un regime diverso rispetto a quello che vige per i cittadini italiani, si pone in contrasto con la direttiva (non essendo, alla luce delle disposizioni di questa direttiva e con riferimento a detta prestazione, assistenziale ed essenziale, derogabile il principio della parità di trattamento), e realizza un’oggettiva discriminazione dello straniero rispetto a questi ultimi.

In punto la tesi contraria dell’Inps non può trovare condivisione.

Occorre a questo punto affrontare le ulteriori censure dell’ente previdenziale relative al potere di disapplicazione della normativa nazionale (dovendosi al contrario, secondo l’ente, passare attraverso l’incidente di costituzionalità ovvero il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea) e alla sussistenza di una condotta discriminatoria attribuibile ad esso ente, limitatosi ad applicare una legge.

Per quanto attiene al primo profilo, è indubbia l’applicabilità diretta negli ordinamenti degli Stati membri dell’art. 11, paragrafo 1, della direttiva in parola, nella materia per cui è causa.

Il precetto è sufficientemente preciso ("il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda ... d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale;... ").

E’ incondizionato in quanto lo Stato non deve svolgere alcuna attività per applicarlo (è bene precisare che il rinvio al diritto nazionale effettuato dal 13° considerando della direttiva è limitato alle modalità di concessione delle prestazioni di cui trattasi, ma non al diritto alle stesse) e si verte qui in tema di rapporti di efficacia verticale.

In materia, dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ente previdenziale, la direttiva ha efficacia diretta ed è quindi "autoesecutiva", nel senso che trova ingresso nell’ordinamento interno senza necessità di alcuna norma di recepimento.

La stessa nella gerarchia delle fonti normative si pone al di sopra della legislazione nazionale, la quale, se contrastante, va pertanto direttamente disapplicata.

Inoltre, essendo chiaro il significato della norma comunitaria, neppure vi è motivo per un rinvio alla Corte di Giustizia.

Va poi osservato che se l’applicazione di quest’ultima norma pone lo straniero in una situazione di svantaggio rispetto al cittadino italiano (come pacificamente nel caso di specie), si realizza una discriminazione oggettiva (per la cui configurabilità non è necessaria alcuna volontà diretta a porla in essere), con ogni conseguenza in tema di ammissibilità della relativa azione speciale.

Per quanto riguarda invece la questione della attribuibilità all’Inps di una condotta discriminatoria per aver omesso di applicare direttamente la normativa comunitaria, prevalente su quella interna incompatibile, questa Corte, come ricordato dall’Inps, ha già avuto modo di rilevare come si tratti di questione delicata che va valutata caso per caso, tenendo conto anche del contesto che ha interessato l’azione dell’ente previdenziale (cfr. sent. n. 172/2015, dep. il 9-6-2015).

Tuttavia, deve osservarsi che secondo consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia l’obbligo di applicazione diretta della norma comunitaria grava su tutti gli organi dello Stato, ivi comprese le pubbliche amministrazioni.

In tema merita citare, per tutte, la pronuncia CGE 103/88, F.lli Costanzo.

L’Inps, dunque, aveva l’obbligo di disapplicare la norma interna, creando tale disposizione una situazione di disparità di trattamento ai danni dei ricorrenti, in contrasto con la direttiva di cui si è trattato sino ad ora.

Al riguardo deve osservarsi che l’Inps, come segnalato dai ricorrenti e non contestato dall’ente, in altre occasioni ha effettivamente disapplicato lo stesso art. 2 della l. 153/88, perché ritenuto incompatibile con i principi comunitari, così dimostrando di adeguarsi alla regola qui in discussione circa la diretta disapplicazione.

Lo ha fatto con riferimento ai titolari di protezione internazionale (rifugiati politici), riguardo ai quali il comma 6 bis dell’art. 2 non prevede alcuna deroga, e facendo così rientrare nel nucleo familiare del rifugiato anche i familiari residenti all’estero.

E ciò per il fatto che il principio di parità di trattamento fosse previsto per detta categoria di soggetti dalla relativa direttiva comunitaria (2011/95).

E’ evidente, pertanto, che anche nel caso di specie l’ente previdenziale non avrebbe avuto alcuna difficoltà a seguire lo stesso percorso logico-giuridico, facendo riferimento alla direttiva 2003/109.

Non può quindi negarsi, come accertato dal Tribunale, che l’ente previdenziale (omettendo di disapplicare la norma interna anche nel caso di specie) abbia tenuto una condotta oggettivamente discriminatoria ai danni dei ricorrenti, a prescindere dal relativo intento.

Il gravame dell’Inps va pertanto respinto e la sentenza di primo grado va confermata.

Con la precisazione che le statuizioni di primo grado riguardanti la posizione della I. restano del tutto inalterate, non essendo state fatte oggetto di impugnazione da alcuna delle parti ed essendo stato respinto l’appello dell’Inps.

La novità e anche la particolare complessità delle questioni trattate nel primo grado di giudizio, oltre che l’esistenza di precedenti unicamente di merito e non sempre favorevoli alla tesi dei ricorrenti, giustifica nuovamente la compensazione delle spese processuali.

Trattandosi di rigetto integrale dell’impugnazione, l’Inps è altresì tenuto al versamento dell’importo previsto dall’art. 1, co. 17, legge 228/12.

 

P.Q.M.

 

Respinge l’appello contro l’ordinanza n. 2968/15 del Tribunale di Brescia; compensa le spese tra tutte le parti.