Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 dicembre 2016, n. 25272

Licenziamento disciplinare - Insubordinazione - Impugnazione - Domande reintegratorie e risarcitorie

Fatto

 

Con sentenza 18 febbraio 2014, la Corte d'appello di Milano rigettava l’appello proposto da P.F. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto l'impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli il 27 ottobre 2011 dalla datrice I.V. s.p.a. e le conseguenti domande reintegratorie e risarcitorie.

A motivo della decisione, la Corte territoriale disattendeva, siccome infondata sulla scorta delle scrutinate emergenze documentali, la ricostruzione in fatto della fattispecie del lavoratore appellante, correttamente qualificata dal Tribunale come insubordinazione (per il rifiuto del dipendente con mansioni di guardia giurata di eseguire l'ordine di servizio di piantonamento per uno sfratto in giorno in cui era "a disposizione del comando", pure con comportamento offensivo del maresciallo, suo superiore), meritevole della sanzione espulsiva prevista dall'art. 140 CCNL Istituti di vigilanza privata, in quanto proporzionata alla violazione; neppure configurandosi la dedotta eccezione di inadempimento, in assenza dei requisiti stabiliti dall'art. 1460 c.c.

Con atto notificato il 14 agosto 2014, P.F. ricorre per cassazione con due motivi, cui resiste I.V. s.p.a. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 7 I. 300/1970, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la non immediatezza della contestazione disciplinare (con lettera 19 ottobre 2011) successiva di quattordici giorni al fatto addebitato (in data 5 ottobre 2011), non esigente particolari indagini nel suo accertamento, sulla base della dettagliata relazione del dipendente maresciallo ricevuta lo stesso giorno.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'erronea esclusione della volontà datoriale di rinuncia all'azione disciplinare nei confronti del lavoratore, sintomaticamente espressa dal ritardo con cui era stato contestato l'addebito disciplinare (dopo quattordici giorni dal fatto) e intimato il licenziamento, con lettera (spedita il 7 novembre e ricevuta il 9 novembre 2011) a distanza di trentacinque giorni dal fatto; senza neppure disposizione dalla datrice della sospensione cautelare prevista dall'art. 102 del CCNL.

Il primo motivo è inammissibile.

La questione è infatti nuova, non risultando trattata dalla sentenza impugnata, neppure avendo il ricorrente indicato specificamente, né trascritto gli atti nei quali l'avrebbe posta nei gradi di merito: così violando il principio di autosufficienza del ricorso (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; 11 gennaio 2007, n. 324).

Il secondo motivo è infondato.

In disparte il profilo di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza, per omessa trascrizione dei documenti citati su cui è fondata la censura, in violazione della prescrizione, appunto a pena di inammissibilità, dall'art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. (Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915), la dedotta violazione di legge appare inconferente.

Essa non integra, infatti, gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984). Essa si pone, infatti, al di fuori della sua previsione normativa, riguardante la consistenza e gravità della causa ostativa alla prosecuzione, neppure in via provvisoria, del rapporto di lavoro.

La denuncia attiene piuttosto all'efficacia sintomatica di rinuncia del differimento della contestazione disciplinare (pari a quattordici giorni) e poi del licenziamento (pari a diciotto dalla contestazione, pure considerate le giustificazioni del lavoratore).

Ma entrambi sono assolutamente nei limiti di una ragionevole elasticità compatibile con un intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore, senza essere contrario alla buona fede né rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del predetto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 241; Cass. 13 febbraio 2012, n. 1995) o di un ritardo tale da suscitare il suo legittimo affidamento sulla mancata attivazione del potere disciplinare, in quanto facoltativo (Cass. 8 giugno 2009, n. 13167).

Appare infine irrilevante la mancata sospensione cautelare, siccome misura di natura facoltativa e di carattere provvisorio, strumentale all'accertamento dei fatti relativi alla violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi inerenti al rapporto (Cass. 13 dicembre 2010, n. 25136).

Dalle superiori discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza.

L'attuale condizione del ricorrente di ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude, allo stato, la sussistenza dei presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall'art. 13, comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012 (Cass. 15 ottobre 2015, n. 20920; Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna P.F. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.