Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 06 novembre 2017, n. 26272

Licenziamento disciplinare - Carattere fraudolento delle registrazioni - Fraudolento inserimento nel sistema di operazioni contabili diverse da quelle materialmente effettuate - Eccezione di mancata sospensione del procedimento disciplinare in attesa di quello penale - Non rileva - Inadempimento reiterato degli obblighi contrattuali

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Bari, con sentenza n. 1479 del 2016, ha respinto il reclamo proposto da S. S. avverso la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Foggia che, respingendo l'opposizione ex art. 1, comma 51, L. 92/2012, aveva confermato l'ordinanza di rigetto del ricorso proposto dal predetto S. avente ad oggetto il licenziamento intimato, in esito procedimento disciplinare, dalla C.C.I.A.A. di Foggia.

2. La vicenda aveva preso origine nel febbraio 2012 a seguito del riscontro di alcune anomalie circa il versamento dei diritti di segreteria in relazione ad operazioni eseguite con l'identificativo assegnato al S.: a fronte di ricevute di versamento per importi di € 77,00 rilasciate dai candidati e allegate alla domanda di partecipazione agli esami per agenti in affari di mediazione, risultavano incassati dalla Camera di Commercio solo € 5,00 per ciascuna operazione. Con ordine di servizio il dipendente era stato allontanato dall'ufficio cassa e assegnato all'ufficio gestione flussi, in attesa di verifiche sull'accaduto. Dai successivi approfondimenti erano emersi tre tipi di operazioni, definite "anomale": in alcuni casi, le ricevute risultavano prontamente stornate, e dunque annullate, con altre operazioni di cassa immediatamente successive, senza alcuna giustificazione; in altri casi, vi erano ricevute di pagamento con causale differente da quella "esami mediatori" per importi sensibilmente inferiori a quelli versati dagli utenti; in altri casi ancora, vi erano ricevute di pagamento con la medesima causale, ma per importi sensibilmente inferiori a quelli versati agli utenti.

2.1. Alla relazione in data 23 febbraio 2012 contenente l'esito di tali accertamenti, inviata anche alla Procura della Repubblica per possibili profili di responsabilità penale, aveva fatto seguito in data 21 marzo 2012 un'altra relazione, con accertamento definitivo, secondo cui nel periodo dal 2007 al 2012 erano state emesse, dallo sportello con l'identificativo appartenente al ricorrente, ricevute di pagamento di somme incassate in contanti, successivamente annullate con operazioni di storno non giustificate, per complessivi € 59.403,33.

2.2. In data 26 marzo 2012 la CCIAA aveva contestato al dipendente l'esito degli accertamenti evidenziando che, tra storni ingiustificati e mancati incassi, l'ammanco in danno delle casse dell'Ente era pari ad Euro 60.922,33.

2.3. Invitato al colloquio difensivo, ai sensi dell'art. 55 bis, co. 4, D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 5, co. 3, del Regolamento della Camera di Commercio, il dipendente aveva inviato una scarna missiva a sua firma, limitandosi a respingere ogni addebito. Il verbale di audizione era dunque stato chiuso con l'acquisizione agli atti della missiva, dando atto della volontà S. di non essere ascoltato verbalmente.

2.4. In data 30 maggio 2012 l'Ente aveva comunicato al ricorrente il licenziamento per giusta causa, ai sensi del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, del CCNL comparto Regioni e Autonomie locali e del Regolamento della Camera di Commercio.

2.5. Con ricorso ex art. 1, comma 49, L. n 92/2012, il S. aveva impugnato il licenziamento. Il Giudice del lavoro adito aveva rigettato il ricorso ritenendo legittima la sanzione espulsiva. L'opposizione proposta ex art. 1, co. 51, L. n. 92/2012 era stata del pari respinta: il Giudice dell'opposizione, rigettate tutte le eccezioni relative alla presunta violazione del diritto di difesa e rilevato il mutamento di prospettazione difensiva del ricorrente, che aveva ammesso in sede di opposizione il compimento di tutte le operazioni di storno oggetto di addebito tentando di fornire una giustificazione delle stesse, aveva ritenuto la fondatezza dei fatti ascritti e adeguata la sanzione espulsiva, avuto riguardo "alla mole delle operazioni irregolari, alla gravità del danno patrimoniale arrecato al datore di lavoro e alla disinvoltura della condotta del dipendente addetto a mansioni di particolare delicatezza, stante il maneggio di denaro pubblico".

3. Il reclamo proposto dal S. è stato rigettato dalla Corte di appello di Bari sulla base delle considerazioni sintetizzabili come segue:

- l'ambito dell'accertamento devoluto al giudice di appello era circoscritto alla verifica della giustificatezza delle operazioni contestate, atteso che le questioni concernenti la gestione della password non era stata devoluta al giudice dell'opposizione, per cui ogni questione sul punto doveva ritenersi superata dallo svolgimento del processo;

- l'esito degli accertamenti condotti dall'amministrazione datrice di lavoro aveva portato a confermare il carattere fraudolento delle registrazioni, in quanto l'ente, nel corso delle indagini, aveva rinvenuto, in ciascun fascicolo cartaceo cui le registrazioni facevano riferimento, ricevute recanti l'importo effettivamente incassato, pari ad € 77,00 per ciascuna operazione con causale "esami mediatori", coerente al contenuto dei fascicoli stessi; pertanto, per ciascuna operazione contestata, vi era una differenza fra quanto incassato e quanto materialmente dal cassiere contabilizzato e riversato all'ente di € 72,00 o di € 70,00 per ciascuna operazione;

- quanto alla tesi difensiva secondo cui il cassiere era tenuto ad effettuare lo storno e restituire il denaro all'utente allorquando questi gli consegnava le ricevute di pagamento in originale, senza possibilità di verificare se il servizio fosse stato effettivamente reso, si trattava di giustificazioni che, innanzitutto, non avrebbero potuto valere quanto alla registrazione di n. 8 ricevute di pagamento recanti causale "certificato ordinario" (€ 5,00) o "visura società di capitale" (€ 7,00), corrispondenti invece a ricevute presentate a corredo di domande per la partecipazione agli esami di affari in mediazioni, tutte recanti l'importo di € 77,00, né quanto alla registrazione di n. 9 fatture per le quali il S., una volta emessa la ricevuta di € 77,00, era rientrato nel sistema informativo ed aveva modificato la causale, il codice e l'importo, da € 77,00 ad € 5,00 o €7,00; tali condotte non attenevano in alcun modo a storni, ma al fraudolento inserimento nel sistema di operazioni contabili diverse da quelle materialmente effettuate;

- quanto alla contestazione afferente specificamente alle operazioni di storno ingiustificate, l'istruttoria espletata nella fase sommaria aveva evidenziato che l'operazione contabile poteva essere annullata, solo in determinate ipotesi: oltre al caso di errore nella digitazione, altresì nell'ipotesi in cui il servizio per il quale era stato effettuato il pagamento non fosse stato materialmente reso dall'ufficio preposto; al riguardo, però, tutti i dipendenti ascoltati come testi avevano confermato che il ricorrente aveva proceduto allo storno di numerose operazioni contabili relative a servizi effettivamente prestati dagli uffici competenti;

- a fronte di tali emergenze processuali, gravava sul ricorrente l'onere di giustificare le operazioni compiute, pacificamente archiviate nel sistema informatico che, come ammesso dallo stesso reclamante, non poteva essere manomesso e che, per ogni operazione effettuata, conservava traccia indelebile; nella specie, tale onere probatorio non era stato assolto;

- del tutto proporzionata alla gravità dei fatti (per i quali il ricorrente risultava, al momento della sentenza, altresì indagato in sede penale per il reato di peculato) era la massima sanzione disciplinare, anche tenuto dell'elemento intenzionale che aveva sorretto lavoratore e della reiterazione dei comportamenti illegittimi commessi tra il 2007 e il 2012;

- infine, quanto alle eccezioni concernenti la regolarità del procedimento disciplinare, i testi escussi avevano confermato che il codice disciplinare era pubblicato sul sito della Camera di Commercio e regolarmente affisso nella bacheca posta all'ingresso della sede, luogo accessibile a tutti i dipendenti; l'audizione orale non si tenne per volontà dello stesso S., che il giorno fissato per il suo esperimento inviò una comunicazione difensiva senza formulare alcuna istanza di rinvio;

- nessun rilievo poteva avere il confronto con il dipendente Mancini, al quale venne comminata una sanzione conservativa, posto che il datore di lavoro è libero di valutare differentemente il rilievo disciplinare di condotte tenute dai propri dipendenti e comunque il S. aveva compiuto un numero di operazioni irregolari enormemente superiore (oltre 370) a quelle contestate all'altro cassiere, determinando un ammanco di oltre € 60.000,00, rispetto a quello generato dal collega, pari a circa € 1.500,00.

4. Per la cassazione di tale sentenza S. Sergio ha proposto ricorso affidato a sei motivi, cui resiste la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Foggia controricorso.

5. Il ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo denuncia nullità del procedimento per l'inapplicabilità al pubblico impiego del rito di cui alla Legge n. 92 del 2012 (c.d. rito Fornero).

2. Il secondo motivo censura la sentenza per omesso esame di fatti principali e decisivi, errata ricostruzione e interpretazione degli eventi di causa per assenza di prove, nonché errata applicazione dei principi di diritto nella valutazione delle emergenze istruttorie, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. Si prospetta un'errata ricostruzione della vicenda processuale operata dalla Corte di appello con riguardo all'uso delle credenziali di accesso al sistema informatico, all'esistenza della prassi in uso presso l'ente circa le modalità dello storno, al mancato esame delle responsabilità addebitabili ai funzionari apicali della tesoreria dell'ente.

3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di contratti collettivi nazionali di lavoro (art. 360 n. 3 c.p.c.) per sproporzione della sanzione espulsiva sia alla luce della disciplina contenuta nell'art. 3 CCNL e dell'art. 4 del Regolamento della CCIAA, sia per violazione della prassi consolidata presso l'Ente di disporre la sospensione del procedimento disciplinare in attesa delle determinazioni dell'autorità giudiziaria penale.

4. Il quarto motivo denuncia error in iudicando (art. 360 n.3 c.p.c.) per avere la Corte territoriale addossato al ricorrente l'onere di provare i fatti addebitati e precisamente l'onere di dimostrare la giustificazione delle operazioni oggetto di contestazione.

5. Il quinto motivo denuncia error in procedendo per violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). Si prospetta che omissioni relative alla corretta custodia delle credenziali di accesso al sistema informatico non potrebbero giustificare gli addebiti mossi, né la sanzione comminata.

6. Il sesto motivo denuncia violazione di legge in relazione alle seguenti circostanze: disparità di trattamento, mancata affissione del regolamento disciplinare, omessa valutazione disamina il valore certificativo dei bilanci della Camera di Commercio di Foggia.

7. Il primo motivo è palesemente inammissibile, in quanto la questione processuale oggetto della censura non risulta essere stata trattata dalla sentenza impugnata e, non avendo il ricorrente chiarito se e in quali termini la questione fosse stata introdotta nei precedenti fasi del giudizio, la stessa deve ritenersi nuova.

7.1. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di cui all'art. 366 c.p.c. del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (ex plurimis, Cass. n. 23675 del 2013, n. 324 del 2007, nn. 230 e 3664 del 2006).

8. Il secondo motivo è del pari inammissibile.

8.1. Nel caso in esame, la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l'il settembre 2012. Trova, dunque, applicazione il nuovo testo dell' 360, primo comma, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti". A norma dell'art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012). Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio facti, che il nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente tale denuncia nei limiti dell'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In proposito, è stato, altresì, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit.).

8.2. La deduzione del vizio di motivazione di cui al secondo motivo non corrisponde al modello processuale come sopra delineato, alla luce delle modifiche normative intervenute. Ma, anche a prescindere da tale assorbente rilievo, l'inammissibilità del motivo discende dalla disposizione di cui all'art. 348-ter c.p.c., comma 5. Questa Corte ha difatti affermato che la disciplina speciale prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro. Ne consegue l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dei commi terzo e quarto dell'art. 348 ter c.p.c., anche del comma quinto, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto - ossia l'esclusione del vizio di motiva; dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348- bis, secondo comma, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta "doppia conforme") (Cass. n. 23021 del 2014; conf. Cass. n. 22142 del 2015).

9. Il terzo motivo è inammissibile in tutte le sue proposizioni.

9.1. Quanto alla mancata disamina delle previsioni contrattuali concernenti la graduazione delle sanzioni, la censura non è specifica (art. 366 n. 4 c.p.c.), avendo la Corte di appello richiamato il noto orientamento secondo cui la giusta causa di cui all'art. 2119 c.c. sussiste anche in difetto di una specifica previsione ad opera delle parti collettive, atteso che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude perciò la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario le norme dell'etica comune o del comune vivere civile.

9.2. Quanto poi all'operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta della giusta causa ex art. 2119 c.c., l'odierno ricorrente, sotto l'apparente veste dell'error in iudicando, tende a contestare la ricostruzione della vicenda accreditata dalla sentenza impugnata. In proposito, giova ribadire che il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E' dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione - e dunque un errore interpretativo di diritto - su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

9.3. Infine, è questione nuova, e dunque inammissibile, l'eccezione di mancata sospensione del procedimento disciplinare in attesa di definizione di quello penale.

10. Il quarto motivo non è pertinente al decisum la Corte territoriale ha evidenziato che, alla luce delle risultanze documentali emergenti dai fascicoli degli utenti che avevano effettuato versamenti per determinate prestazioni e servizi e della prova testimoniale espletata nella fase sommaria, le operazioni contabili di storno, oltre a quelle di diversa tipologia oggetto di contestazione, non erano in alcun modo giustificate, non essendo riconducili ad alcuna delle ipotesi che potevano consentirne l'esecuzione e costituivano, come tali, inadempimento reiterato degli obblighi contrattuali gravanti sul dipendente, altresì ulteriormente aggravato dal considerevole danno economico per il mancato incasso dei corrispettivi per le prestazioni rese dall'Ente agli utenti. A fronte di tali risultanze istruttorie, idonee a dimostrare la materialità dei fatti e la loro riconducibilità al ricorrente, oltre che l'elemento soggettivo del dolo, la tesi difensiva del S. non aveva trovato adeguato riscontro probatorio.

10.1. Giova osservare che, in tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all'elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest'ultimo la prova di una esimente (Cass. n. 11206 del 2015; cfr. pure Cass. n. 17304 del 2016)

11. La censura di cui al quinto motivo non è pertinente alla decisione impugnata: si menzionano passaggi contenuti nel primo provvedimento giudiziale, omettendo del tutto di considerare che la Corte di appello ha fornito una specifica motivazione riguardo alla questione concernente la tesi difensiva sostenuta in prime cure dal S. e tale motivazione non è in alcun modo censurata.

12. Il sesto motivo è inammissibile, in quanto con la denuncia di error in iudicando, si prospettano presunti errori motivazionali del tutto inammissibili nella presente sede, in quanto volti a prospettare una diversa lettura delle risultanze processuali e quindi tendenti nella sostanza ad un riesame del merito della causa. I primi due fatti elencati nella rubrica del motivo (pubblicità del codice disciplinare e presunta disparità di trattamento con il dipendente Mancini) sono stati oggetto di specifica disamina da parte del Giudice di appello e non certamente omessi. Quanto al terzo fatto dedotto, trattasi di questione del tutto nuova e comunque, anche per come prospettata, priva di connessione con i fatti di causa.

13. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell'art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

14. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali e in Euro 200,00 esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.