Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 11 luglio 2016, n. 14152

Tributi - Contenzioso tributario - Procedimento - Ricorso per cassazione - Oggetto del ricorso - Limiti

 

Osserva

 

La CTR di Roma ha respinto l’appello della "A. C. S. sas" - appello proposto contro la sentenza n. 346/61/2012 della CTP di Roma che aveva già respinto il ricorso dell’anzidetta società - ed ha così confermato l’avviso di accertamento con cui è stata contestata l’indetraibilità dei costi rinvenienti da alcune fatture (emesse a favore di tale "V S. S. srl") ritenute espressione di operazioni inesistenti.

La predetta CTR ha motivato la decisione nel senso che - atteso che è onere del contribuente dimostrare la positiva esistenza delle operazioni oggetto delle fatture contestate, qualora l’amministrazione fornisca sufficienti indizi contrari - la sentenza di primo grado aveva già posto in evidenza che le fatture contestate avevano ad oggetto l’acquisto di programmi informatici inesistenti, siccome rivelato dalla circostanza che la società ricorrente risultava "non operante in concreto". Per giunta, i rappresentanti legali di quest’ultima come quelli della società che aveva ricevuto le fatture risiedevano presso il medesimo indirizzo. Neppure risultavano indicati i costi sostenuti per l’acquisto delle forniture software e per il pagamento delle stesse.

La parte contribuente ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’Agenzia si è costituita ai soli fini di conservare la facoltà di partecipare all’udienza di discussione.

Il ricorso - ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c.- può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c.

Infatti, con il primo motivo di ricorso (improntato al vizio di omesso esame di un fatto decisivo) la parte ricorrente lamenta che la pronuncia impugnata non abbia, in concreto "operato una motivata valutazione, al fine di sancire l’incontrovertibile fondatezza della sentenza di primo grado, in funzione delle domande di parte che, in quella sede, si riferivano ai capi ed ai punti propri della sentenza di primo grado e non, ovviamente, all’avviso di accertamento". A riguardo degli argomenti sviluppati in atto di appello, la sentenza impugnata aveva totalmente taciuto e si era limitata a quella stringata motivazione in precedenza trascritta, sostanzialmente condividendo le ragioni della pronuncia di primo grado ma "attenendosi a presupposti che sono lungi dal rispondere al ricostruito iter dei fatti di causa". La laconicità della motivazione adottata dai giudici di appello non consentiva, infatti, di ritenere che l’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado fosse consapevole e meditata.

La censura appare inammissibilmente formulata.

Ed invero, essa risulta finalizzata ad ottenere da parte della Corte di legittimità non già una verifica della completezza del giudizio sul fatto (tramite l’emersione di fatti di cui il giudicante avrebbe omesso l’esame e dell’evidenziazione della efficacia dirimente dei fatti stessi) ma bensì la revisione del giudizio decisorio congruamente e razionalmente espletato dal giudice di appello e perfettamente percepibile nel suo itinerario logico e semantico, ovvero ancora essa consiste in generica doglianza circa la linearità e la sufficienza del percorso argomentativo con il quale il giudicante ha esplicitato le ragioni del proprio convincimento. Nulla di tutto ciò può essere oggetto del vizio disciplinato dalla nuova formula (qui applicabile ratione temporis a riguardo della data di deposito della sentenza impugnata) dell’art. 360 comma 1 n.5, i caratteri costitutivi del quale la parte ricorrente dimostra di avere totalmente obliterato ed eluso.

Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione o falsa applicazione "dell’obbligo di motivazione a norma del combinato disposto degli art. 42 comma 2 DPR n.600/1973 e 3 della legge n. 241/1990 per mancanza di motivazione dell’avviso di accertamento"), la parte ricorrente si duole del fatto che -nonostante le doglianze espresse in atto di appello e trascritte nel ricorso per cassazione relativamente alle violazioni delle norme che si assumono lese, la sentenza qui impugnata abbia taciuto, limitandosi a postulare l’inversione dell’onere di prova in capo alla parte contribuente, così omettendo di adempiere al dovere di verificare che l’obbligo di motivazione dell’atto tributario sia stato ottemperato.

Anche detto motivo appare inammissibilmente formulato, atteso che la parte ricorrente -assumendo che il giudicante abbia omesso di pronunciarsi a riguardo di specifiche censure contenute nell’atto di appello- avrebbe dovuto (semmai) dolersene a termine dell’art. 112 c.p.c. (per la lesione del criterio del rapporto tra il chiesto e il pronunciato) e non come violazione di specifiche norme delle quali (non essendosi appunto il giudicante pronunciato) non può esservi stata violazione alcuna.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per inammissibilità.

Roma, 15 dicembre 2015

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti; che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie; che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;

che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del DPR 11.115 del 2002, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.