Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 luglio 2016, n. 14103

Licenziamento - Sanzione disciplinare - Violazione del divieto di prestare attività lavorativa presso strutture private - Assenza dell’autorizzazione

 

Svolgimento del processo

 

1 - La Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza resa dal locale Tribunale, ha respinto la domanda proposta da S. A. il quale, nel convenire in giudizio la Azienda Ospedaliera Universitaria Ospedali Riuniti Umberto I, aveva chiesto che venisse dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimatogli il 18.10.2010.

2 - La Corte territoriale, premesso che la sanzione disciplinare espulsiva era stata inflitta all'A. perché recidivo nella violazione del divieto di prestare attività lavorativa presso strutture private in assenza di autorizzazione, ha rilevato che:

a) il potere disciplinare poteva essere esercitato ai sensi dell'art. 55 bis, comma 9, del d.lgs n. 165 del 2001 anche successivamente alle dimissioni rassegnate dal dipendente il 28.2.2009;

b) la questione della applicabilità o meno della legge n. 662/1996 era assorbita dal rilievo che la violazione della disciplina delle incompatibilità rappresenta ipotesi di decadenza;

d) nella fattispecie il licenziamento era comunque legittimo in relazione alla disciplina dettata dal CCNL per il comparto sanità che all'art. 13 prevedeva la sanzione espulsiva per le infrazioni di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto;

e) in particolare doveva essere valorizzata la recidiva nella prestazione di lavoro non autorizzato da parte di personale per il quale è indispensabile che avvenga il necessario recupero delle energie fisiche e lavorative.

3 - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso S. A. sulla base di due motivi, L'Azienda Ospedaliera Universitaria Ospedali Riuniti Umberto I ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1 - Con il primo motivo di ricorso S. A. denuncia "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 n. 5 c.p.c. - violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi e accordi collettivi nazionali di lavoro ex art. 360 n. 3 c.p.c.". Rileva che la sentenza impugnata ha errato nel ritenere applicabile alla fattispecie la decadenza di cui al d.p.r. n. 3/1957 nonché l'art. 1, commi 60 e 61 della I. 662/1996. Quest'ultima disposizione, infatti, è stata abrogata per incompatibilità dal d.lgs n. 165/2001, al quale solo ci si deve riferire per la disciplina degli incarichi, che vanno tenuti distinti dalle prestazioni di carattere continuativo rilevanti ai fini previsti dal d.p.r. n. 3/1957.

Aggiunge che il d.lgs n. 165/2001 non prevede alcuna sanzione per la violazione dell'art. 53, al pari dell'art. 13 del CCNL per il comparto sanità che, come correttamente rilevato dal Tribunale, consente il licenziamento solo nell'ipotesi di recidiva plurima che abbia comportato la applicazione della sanzione massima di sei mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione.

Rileva, infine, che la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare i profili oggettivi e soggettivi della condotta e considerare che l'A. si trovava in aspettativa non retribuita e si era limitato a rendere solo prestazioni occasionali effettuate nel proprio domicilio.

2 - Con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e rileva che la Corte di Appello, in considerazione di quanto sopra evidenziato, avrebbe dovuto disporre la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

3 - E' infondata l'eccezione di inammissibilità del primo motivo di ricorso, sollevata dalla difesa della controricorrente.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, affermato che "in materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d'inammissibilità dell'impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l'esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati" ( Cass. S.U. 6.5.2015 n. 9100).

Le stesse Sezioni Unite hanno anche precisato che il ricorso per cassazione richiede la formulazione di specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, ma non implica la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. S.U. 24.7.2013 n. 17931).

Nel caso di specie il motivo è chiaro nel denunciare sia la violazione delle norme di legge richiamate nella sentenza impugnata, sia la non corretta applicazione della disciplina dettata dalle parti collettive con l'art. 13 del CCNL 19 aprile 2004 per il personale del comparto sanità.

4 - Il motivo è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito precisate.

Premette il Collegio che la Corte territoriale ha fondato la ritenuta legittimità del licenziamento sulla sola disciplina contrattuale, perché, quanto alla applicabilità della legge n. 662 del 1996, art. 1, commi 60 e 61, invocata dalla difesa dell'Azienda appellante, ha ritenuto che la questione potesse essere superata attraverso il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la perdurante vigenza, pur all'esito della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, dell'istituto della decadenza, previsto e disciplinato dal d.p.r. n. 3 del 1957.

La Corte di Appello ha, poi, sottolineato la natura non sanzionatoria del provvedimento disciplinato dal richiamato d.p.r., che, quindi, opera su un piano distinto da quello della responsabilità disciplinare.

Tenuto conto del percorso motivazionale seguito, deve ritenersi, anche in considerazione del carattere logicamente preliminare della questione superata dalla Corte territoriale, che quest'ultima abbia affermato la inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 1, commi 60 e 61 della legge n. 662 del 1996, dalla quale ha, poi, tratto la conseguenza della apprezzabilità del comportamento sotto il profilo disciplinare unicamente alla luce delle disposizioni dettate dal contratto collettivo. Ne discende che il ricorso è inammissibile, per difetto di interesse, nella parte in cui reitera l'argomento della abrogazione per incompatibilità del richiamato art. 1, commi 60 e 61, posto che, come già detto, la sentenza ha escluso la applicabilità della norma in questione e sul punto si è formato giudicato interno.

4.1 - E' fondata la censura relativa alla violazione dell'art. 13 del CCNL 19.4.2004 per il personale del comparto sanità, come modificato ed integrato dall'art. 6 del CCNL 10.4.2008.

Deve anzitutto osservarsi che, qualora le doglianze svolte riguardino l'interpretazione e l'applicazione di contratti collettivi nazionali di cui al d.lgs n. 165/2001, questa Corte è abilitata alla diretta lettura dell'intero testo contrattuale, essendo ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità che nelle controversie di lavoro concernenti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ove sia proposto ricorso per Cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5, la Corte di Cassazione può procedere alla diretta interpretazione di siffatti contratti (Cass. 14.10.2009 n. 21796).

Ciò premesso osserva il Collegio che l'art. 13 del contratto collettivo, nel tipizzare le condotte che giustificano il licenziamento disciplinare con o senza preavviso, non prevede fra le diverse ipotesi la violazione della disciplina dettata dall'art. 53 del d.lgs n. 165 del 2001 e attribuisce rilievo alla recidiva solo alle condizioni previste dal comma 7, lettere a), b), f) e g) nonché dalla lettera a) del comma 8.

La disciplina contrattuale, inoltre, richiama il principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni e prevede che le stesse debbano essere inflitte tenendo conto: della intenzionalità del comportamento, della rilevanza degli obblighi violati, delle responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, del grado di pericolo o di danno causato alla azienda o agli utenti del servizio, della sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti.

Le parti collettive, in tal modo, hanno inteso recepire il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui "in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile dì scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013; e Cass. 25 giugno 2015 n. 13158 pronunciata in fattispecie analoga a quella oggetto di causa).

La gravità dell'inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte. Non è sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia stato dal medesimo adempiuto, occorrendo pur sempre che tali violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati.

Nel caso di specie la Corte territoriale ha fondato il giudizio di gravità dell'inadempimento sulla sola reiterazione della condotta, di per sé non decisiva in difetto delle ulteriori condizioni richieste dalla norma contrattuale, senza considerare che gli incarichi erano stati svolti nel periodo di aspettativa non retribuita e senza fare alcun riferimento alle "responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente", al "grado di danno o di pericolo causato all’azienda o ente, agli utenti o a terzi", alla "sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore", ossia ai criteri indicati nel contratto ai fini del rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.

Il ricorso deve pertanto essere accolto, nei termini sopra indicati, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale dovrà riesaminare la causa attenendosi al principio sopra indicato e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Resta di conseguenza assorbito il secondo motivo con il quale è stato censurato il capo della decisione relativo al regolamento delle spese di lite.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Ancona in diversa composizione.