Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 01 febbraio 2017, n. 15235
Tributi - Reati tributari - Omesso versamento IVA - Esclusione responsabilità penale - Assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta - Crisi economica
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 7/1/2016, la Corte di appello di Genova, in riforma della pronuncia emessa il 13/11/2014 dal Tribunale della Spezia, dichiarava G.L. colpevole del delitto di cui all'art. 10-ter, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74 e la condannava alla pena di sei mesi di reclusione; alla stessa, nella qualità di socio di maggioranza ed amministratore unico (dall'8/9/2011) della "S.S.I. s.r.l.", era contestato di aver omesso il versamento dell'i.v.a. per l'anno 2010, per l'importo complessivo di 423.602,00 euro.
2. Propone ricorso per cassazione la L., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- erronea applicazione degli artt. 27 Cost., 43 cod. pen., in relazione al profilo soggettivo del reato; vizio motivazionale (nn. 1-2) La Corte di appello avrebbe riformato la sentenza di primo grado sulla base di un mero dato formale (la carica ricoperta) e senza alcun esame del carattere soggettivo della condotta; il quale, peraltro, difetterebbe del tutto nel caso di specie, atteso che la L., alla morte del marito C. nel 2010, aveva trovato una pesantissima situazione debitoria (la cui origine risaliva agli anni 2008-2009, come riferito da entrambe le sentenze), impossibile da sostenere.
Ancora, il Collegio di merito non avrebbe considerato che - giusta pacifici esiti istruttori - la stessa era priva di poteri effettivi e capacità gestoria, affidandosi interamente al braccio destro del defunto marito, cioè a G.S.; e senza tacere, peraltro, che la somma incassata nel 2010 per la vendita di tre immobili (e tale da determinare l'i.v.a. poi non versata) non poteva esser gestita dalla ricorrente, poiché posta a garanzia di impegni finanziari della società, come già evidenziato dal primo Giudice. Si da evidenziare l'oggettiva assenza di liquidità per provvedere al pagamento;
- carenza motivazionale in punto di circostanze attenuanti generiche e benefici di legge; il diniego delle prime risulterebbe privo di congruo argomento, esaurendosi in un'espressione apodittica e sprovvista di contenuto.
Considerato in diritto
3. Il ricorso risulta fondato.
Osserva innanzitutto il Collegio - in forza di costante e condiviso indirizzo di legittimità - che il Giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (per tutte, Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Rv. 231679; successivamente, tra le altre, Sez. 6, n. 10130 del 20/1/2015, Marsili, Rv. 262907); con particolare riguardo al caso in cui la riforma investa una precedente decisione di assoluzione, come nel caso di specie, vale dunque il principio per cui il secondo Giudice ha l'obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo Giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 5, n. 35762 del 5/5/2008, Aleksi, Rv. 241169; successivamente, tra le altre, Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327).
4. Con riguardo, poi, all'elemento soggettivo della fattispecie di reato in esame, occorre premettere che lo stesso risulta integrato dal dolo generico, quale coscienza e volontà di non versare all'Erario l'imposta sul valore aggiunto relativo al periodo considerato (per tutte, Sez. U, n. 37425 del 28/3/21013, Favellato, Rv. 255759). Ciò premesso, costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui l'imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 dell'8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190); occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
5. Tutto ciò premesso, ed applicando al caso di specie i principi di diritto appena richiamati, ritiene la Corte che il Collegio di appello non ne abbia fatto buon governo, redigendo in punto di dolo una motivazione inadeguata e, soprattutto, priva di quel carattere "rinforzato" - rispetto agli argomenti spesi dal primo Giudice - che si impone in caso di totale riforma della precedente statuizione assolutoria.
La sentenza impugnata, infatti, ha innanzitutto rilevato che la L. era divenuta consigliere di amministrazione della "S.S." nell'aprile 2010, unitamente al marito C. (presidente ed amministratore delegato) ed allo S.; nel luglio dello stesso anno, in esito al decesso del coniuge, la stessa era quindi divenuta presidente del c.d.a. ed amministratore delegato, e, infine, amministratore unico nel settembre 2011. Di seguito - e ricostruendo la situazione economico-finanziaria della società - la Corte di merito ha richiamato alcuni passaggi della deposizione del commissario giudiziale, dott. C., il quale aveva evidenziato che, nei precedenti anni 2008-2009, tutti gli utili della "S.S." erano stati impiegati per finanziare società controllate (successivamente fallite), così creando una situazione di dissesto che aveva poi condotto alla proposta di concordato preventivo, presentata il 26/3/2013.
In forza di questi elementi, la Corte di appello ha quindi concluso nel senso che: 1) il dissesto della Immobiliare «è stato dolosamente creato a partire dagli anni 2008 e 2009»; 2) le somme incassate a titolo di i.v.a. per la vendita di tre immobili nel 2010 «sono state utilizzate, a tutto concedere, per cercare inutilmente di far fronte alla situazione debitoria come sopra creata»; 3) la L. «era tutt'altro che una sprovveduta estranea ai fatti sociali» e che, come socia e componente del c.d.a. fin dall'aprile 2010, era «onerata di controllare l'operato dello S., amministratore delegato». Dal che, la declaratoria di responsabilità.
6. Orbene, ritiene il Collegio che tutti questi argomenti non costituiscano un'efficace censura alla sentenza del primo Giudice, nei termini indicati, atteso che - nel concludere per la colpevolezza della L. - non si confrontano con i numerosi e concreti presidi fattuali che avevano giustificato l'assoluzione della stessa innanzi al Tribunale. In particolare, la pronuncia di prime cure aveva evidenziato che: a) fino all'estate del 2010, la gestione della società era stata saldamente nelle mani del solo G.C., marito della ricorrente; b) al decesso di questi, la gestione medesima era stata assunta da G.S., già "braccio destro" dell'altro, mentre la ricorrente - al di là della carica formale - era risultata assente da ogni profilo esecutivo, lavorando altrove come professoressa di francese; c) soltanto nel settembre del 2011, allontanato lo S., la stessa era divenuta amministratore unico della società, e così aveva preso atto della gravissima situazione debitoria; d) le somme ricavate nel 2010 dalla vendita degli immobili erano risultate vincolate, poiché i beni erano gravati da mutuo; e) i titoli esistenti, per un valore di circa 250 mila euro, erano risultati del pari «inesigibili e non monetizzabili, poiché posti a garanzia degli impegni della società». Sì da concludere che nessuna responsabilità poteva esser ascritta alla ricorrente, la quale - senza aver in alcun modo contribuito al dissesto (quel che, peraltro, pare ammettere anche la Corte di appello) - si era trovata di fronte all'impossibilità di adempiere al debito i.v.a., a lei imputato sol perché aveva assunto la carica di amministratore appena tre mesi prima della scadenza, fissata al 27/12/2011; al punto che la stessa, di lì a poco, aveva proposto istanza di concordato preventivo, poi rigettata per opposizione da parte dell'Agenzia delle entrate.
Elementi - tutti questi indicati - che avevano fondato il giudizio di non colpevolezza, con motivazione non manifestamente incongrua, ed ai quali però la sentenza di appello non ha dedicato alcun passaggio motivazionale, tamquam non essent, limitandosi ad una lettura "autonoma" delle risultanze processuali, del tutto slegata dall'analoga valutazione delle stesse già operata dal primo Giudice; sì da imporsene l'annullamento con rinvio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Genova.