Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 novembre 2016, n. 22431

Tributi - IRPEF, IRAP ed IVA - Accertamento di maggiori ricavi

 

Ritenuto in fatto

 

1. L'Agenzia delle entrate di Sanremo notificava ad E.B., esercente l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande in Bordighera, avviso di accertamento di maggiori ricavi ai fini IRPEF, IRAP ed IVA relativamente all’anno di imposta 2004 risultanti dallo scostamento tra i ricavi dichiarati (€ 79.046,00) e quelli (pari ad € 124.172,00) derivanti dall’applicazione degli studi di settore di cui all’art. 62 sexies d.l. n. 331 del 1993, convertito con modificazioni nella legge n. 427 del 1993.

2. La Commissione Tributaria Provinciale di Imperia, adita dal ricorrente, accoglieva parzialmente il ricorso da questo proposto, riducendo ad € 105.000,00 i ricavi conseguiti dal contribuente nell'anno di imposta in verifica.

3. Con sentenza n. 2 del 16 febbraio 2010 la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, dinanzi alla quale ricorreva il contribuente, confermava la sentenza di primo rigettando anche l'appello incidentale proposto dall'Agenzia delle entrate.

Sosteneva la Commissione di appello che le risultanze degli studi di settore, i quali costituiscono una presunzione grave precisa e concordante dei ricavi potenziali dell'impresa, come tali aventi natura di presunzione legale, possono essere superate soltanto da prove contrarie fomite dal contribuente e che nella specie, seppur l’Amministrazione finanziaria avesse correttamente rideterminato i ricavi presunti mediante applicazione del sistema operativo denominato GE.RI.CO., a sua volta il contribuente aveva <esposto convincenti argomentazioni, supportate da idonee prove documentali idonee a giustificare una riduzione equitativa dell’entità dei ricavi accertati nella misura stabilita dai giudici di primo grado.

4. Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati con memoria, cui replica con controricorso l'Agenzia delle entrate.

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3. c.p.c., la violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 833 del 1972, artt. 54 (ndr d.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54) e 56, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39, primo comma, lett. d), e 42, secondo comma, della l. n. 212 del 2000, art. 7, primo comma, del d.l. 331 del 1993, convertito con modificazioni nella legge n. 427 del 1993, art. 62 sexies, terzo comma, e della legge n. 549 del 1995 art. 3, comma 131.

1.1. In sostanza, nel premettere che l'avviso di accertamento impugnato risultava fondato soltanto sul rilevato scostamento tra ricavi dichiarati e quelli risultanti dall'applicazione degli studi di settore, lamenta che il giudice di appello, ponendosi in contrasto con la più accreditata giurisprudenza di questa Corte (e sul punto ha citato le sentenze delle Sezioni Unite n. 26635, n. 26636, n. 26637 e 26638 del 2009) che ravvisa nella procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione degli studi di settore un sistema di presunzioni semplici, abbia invece attribuito allo stesso valore di presunzione legale con automatico riversamento sul contribuente dell'onere di provarne l’inapplicabilità nel caso concreto.

1.2. Sostiene inoltre che dal complesso delle disposizioni indicate emergeva che l’Amministrazione finanziaria poteva procedere ad accertamento induttivo solo nella ricorrenza del duplice presupposto del rilevato scostamento tra ricavi dichiarati e quelli risultanti dallo studio di settore applicato e della sussistenza di gravi incongruenze tra tali dati, mentre nel caso di specie sussisteva solo il primo ma non il secondo.

2. Il motivo è palesemente infondato.

2.1. Invero, le Sezioni unite di questa Corte nelle sentenze citate dal ricorrente hanno affermato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni la cui gravità, precisione e concordanza - che non è ex lege determinata dalla sussistenza del mero scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards considerati - scaturisce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell'accertamento stesso.

2.2. Nel caso di specie è lo stesso contribuente a riferire che l'Agenzia delle entrate gli aveva notificato l'invito al contraddittorio al fine di consentirgli di fornire le opportune giustificazioni circa il rilevato scostamento, che in quella sede aveva provveduto a fornire all'Amministrazione finanziaria tutta la documentazione all’uopo idonea, la quale, però, aveva ritenuto di poter accordare soltanto una riduzione del 15% dell’originario imponibile accertato (ricorso pagg. 2 e 3).

Pertanto, il giudice di merito non si è affatto discostato dalla regola di giudizio ricavabile dal citato principio giurisprudenziale che questa Corte, a sezioni semplici, ha più volte successivamente confermato (cfr.. ex multis. Cass. n. 20414 del 2014, n. 3415 del 2015 e n. 6114 del 2016) ed ha quindi correttamente attribuito alla presunzione basata sugli studi di settore, una volta correttamente instaurato il contraddittorio con il contribuente - nella specie anche regolarmente espletato - i requisiti di gravità, precisione e concordanza idonei a determinare l'inversione dell’onere della prova (in tal senso Cass. n. 27822 del 2013 e n. 14066 del 2014).

2.3. Anche la tesi, sostenuta dalla ricorrente, che nella specie l'accertamento fiscale era basato soltanto sul rilevato scostamento tra ricavi dichiarati ed accertati mediante l'applicazione degli studi di settore e che mancavano, invece, le gravi incongruenze tra tali dati - che in base alle disposizioni censurate costituiva requisito che doveva sussistere unitamente al predetto scostamento affinché l'Amministrazione finanziaria potesse procedere ad accertamento analitico-induttivo - è palesemente infondata.

Invero, il tenore letterale, assolutamente inequivocabile, della disposizione di cui all'art. art. 62 sexies, terzo comma, d.l. 331 del 1993, convertito con modificazioni nella legge n. 427 del 1993, smentisce la tesi prospettata dal ricorrente in quanto, in base a tale disposizione, ciò che consente all'Amministrazione finanziaria di procedere agli accertamenti analitici-induttivi di cui agli artt. 39, primo comma, lettera d), d.P.R. n. 600 del 1973, e 54 d.P.R. n. 633 del 1972 è la sussistenza delle sole <gravi incongruenze> tra i ricavi dichiarati e quelli accertati, che l’Agenzia delle entrate può desumere, alternativamente, dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta <ovvero>, come nella specie, dagli studi di settore (arg. da Cass. n. 20060, n. 3302 e n. 457 del 2014).

Non è poi dubitabile che nel caso di specie lo scostamento tra il reddito dichiarato e quello risultante dagli studi di settore - ammontante ad € 45.126,00 - testimoni quella "grave incongruenza" richiesta dal d.l. 30 agosto 1993, n. 331 art. 62 sexies, aggiunto dalla legge di conversione n. 427 del 1993, ai fini dell'avvio della procedura finalizzata all'accertamento, ed implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, (Cass. S.U. 26635 del 2009), nella versione applicabile ratione temporis, antecedente cioè alla modifica apportata dall’ 1, comma 23, della legge n. 296 del 2006, i cui effetti decorrono, ai sensi del comma 24 della medesima disposizione, <dal periodo d'imposta in corso al 1° gennaio 2007> (cfr. Cass. n. 20414 del 2014).

3. Con il secondo mezzo di impugnazione il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5. c.p.c., il vizio logico di motivazione sostenendo che la Commissione di appello non aveva proceduto ad una motivata valutazione delle circostanze fattuali specificamente dedotte da esso contribuente a giustificazione del rilevato scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore, essendo anche rimasta del tutto immotivata la rideterminazione dei ricavi in € 105.000,00 anziché nell'importo dichiarato di € 79.046.00.

4. Il motivo è inammissibile in quanto è evidente che il ricorrente intende rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme e a sé favorevole.

l’apprezzamento in fatto compiuto dalla Commissione di appello degli elementi di valutazione prospettati dalla parte, che appare in sé coerente. E' noto che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell'ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex multis, Cass. n. 7921 del 2011, n. 22901 del 2005, n. 15693 del 2004, n. 11936 del 2003).

Diversamente opinando, il motivo di ricorso per cassazione di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito (Cass. n. 5274 del 2007).

4.1. Ciò posto, osserva il Collegio che dal contenuto del provvedimento impugnato, in relazione al quale soltanto va verificata la sussistenza del denunciato errore intrinseco al ragionamento del giudice (cfr. Cass. n. 50 del 2014), si evince che la CTR ha tenuto in debita considerazione non solo le circostanze di fatto ed i documenti prodotti, ma anche le argomentazioni prospettate dalla parte ricorrente (affermando che <il contribuente abbia esposto convincenti argomentazioni, supportate da idonee prove documentali) e, con motivazione assai concisa ma essenziale (e, quindi, né omessa né insufficiente), le ha ritenute idonee a giustificare soltanto una riduzione proporzionale ed equitativa dell'entità dei ricavi accertati, nella misura (di € 105.000.00) già stabilita dai giudici di primo grado. Trattasi di valutazione esente dai prospettati vizi logici di motivazione e che va confermata.

4.2. Il contrasto della tesi sostenuta dal ricorrente anche con il principio giurisprudenziale in base al quale, <in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che denunci, quale vizio di motivazione, l'insufficiente giustificazione logica dell'apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poiché è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l'unica possibile> (Cass. n. 25927 del 2015), costituisce ulteriore ragione di rigetto del motivo in esame.

5. Conclusivamente, quindi, il ricorso va rigettato per infondatezza del primo motivo ed inammissibilità del secondo ed il ricorrente, rimasto soccombente, va condannato al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. Giustizia n. 55 del 2014, tenendo conto del valore della causa e delle attività espletate, in particolare della mancata partecipazione all’udienza della controricorrente, cui va però riconosciuto il rimborso delle eventuali spese prenotate a debito.

 

P.Q.M.

 

Dichiara infondato il primo motivo di ricorso ed inammissibile il secondo e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 4.000,00 oltre spese prenotate a debito.