Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 06 giugno 2016, n. 11595

Pubblico impiego - Licenziamento - Anzianità massima contributiva di 40 anni - Ilegittimità della risoluzione - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d'Appello di Milano, con a sentenza n. 551 del 2013, pubblicata 25 luglio 2013, confermava la sentenza n. 61/11 emessa dal Tribunale di Monza nella controversia promossa da R. G. A. e Z. V. nei confronti del Comune di Cologno Monzese.

2. R. G. A. e Z. V., dipendenti del Comune di Cologno Monzese, avevano adito il Tribunale di Monza impugnando il licenziamento intimato loro dal suddetto Comune, con comunicazione del 18 luglio 2008, in applicazione dell'art. 72, comma 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che consentiva alla Pubblica amministrazione di risolvere il rapporto di lavoro dei propri dipendenti al raggiungimento, da parte degli stessi, dell'anzianità massima contributiva di 40 anni.

I ricorrenti chiedevano accertarsi l'illegittimità della risoluzione, con la conseguente reintegra, con la qualifica e le mansioni espletate al momento del licenziamento, oltre al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

3. Il giudice di primo grado riteneva che il licenziamento trovasse piena giustificazione nella richiamata normativa, nel testo vigente all'epoca della risoluzione, che richiedeva come unico requisito la maturazione dell'anzianità massima contributiva di 40 anni, non ritenendo applicabili le modifiche normative intervenute durante il periodo del preavviso (terminato il 30 giugno 2009, essendosi interrotto per alcuni mesi di assenza: ferie e malattia) come introdotte dall'art. 6, comma 3, della legge n. 15 del 4 marzo 2009, che aveva invece richiesto come requisito il compimento dell'anzianità massima di servizio effettivo di 40 anni.

II Tribunale valorizzava, inoltre, quanto stabilito dall'articolo 17, comma 35- decies, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 3 agosto 2009, che prevedeva espressamente che sarebbero rimaste ferme tutte le cessazioni dal servizio per effetto della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro a causa del compimento dell'anzianità massima contributiva di quarant'anni già decise dall'amministrazione pubblica in applicazione dell'articolo 72, comma 11, del decreto-legge n. 112 del 2008. Il Tribunale aveva escluso, altresì, l'incompatibilità della suddetta risoluzione con la effettuata assunzione di 12 persone in epoca successiva al licenziamento, avuto riguardo da un lato al fatto che la normativa in questione non aveva unicamente l'intento di ridurre il personale ma per lo più l'esigenza di riorganizzare le strutture in relazione a nuovi progetti di ammodernamento e quindi al reperimento di specifiche professionalità e di una maggiore razionalizzazione, e dall'altro, al fatto che le posizioni ricoperte dai nuovi assunti erano differenti dalle posizioni dei ricorrenti che avevano rispettivamente le mansioni di istruttore di polizia e di commissario aggiunto. Tale considerazione portava il Tribunale a non ravvisare il carattere discriminatorio del licenziamento, ponendo in evidenza come la normativa in questione non necessitasse comunque di motivazione specifica, in ogni caso non richiesta espressamente dai lavoratori, non trattandosi di atto amministrativo ma di atto di carattere privatistico essendo sufficiente il richiamo alla normativa di cui al citato art. 72.

4. La Corte d'Appello confermava quanto statuito dal Tribunale in ordine alla inapplicabilità alla fattispecie in esame della disciplina sopravvenuta nel corso del preavviso. Riteneva eccezione nuova la pretesa genericità della motivazione.

Poneva in evidenza che l'art. 72 non richiedeva nessun obbligo di motivazione, poiché era il raggiungimento dei limiti di anzianità la motivazione che giustificava il licenziamento. L'obbligo della motivazione, avrebbe dovuto, comunque, essere valutato alla stregua dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 e, nella specie, nessuno degli appellanti nei 15 giorni successivi alla intimazione del licenziamento aveva fatto richiesta di specificazione. In ordine alla deduzione dei lavoratori circa la necessità di un atto di macro organizzazione, la Corte d'Appello rilevava che la Giunta comunale con la delibera n. 117 del 17 luglio 2008, rubricata "atto di indirizzo in merito all'applicazione dell'articolo 72 del decreto-legge n. 112 del 2008, riguardante i dipendenti con anzianità contributiva di quarant'anni", evidenziava cinque posizioni interessate dalla richiamata normativa e "considerata la necessità e l'opportunità che la giunta comunale esprime un atto di indirizzo in merito alla facoltà concessa alle pubbliche amministrazioni anche considerando le esigenze e le possibilità di rinnovamento dell'organico, deliberava di esprimere la valutazione di procedere per tutte le figure interessate alla risoluzione del rapporto di lavoro con i modi e i tempi previsti dal comma 11 dell'art. 72 del decreto-legge n.112 del 2008.

Quindi la Giunta - ad avviso della Corte di merito - si era espressa sulle ragioni dell'applicazione dell'art. 72, comma 11, del d.l. 112 del 2008, per procedere ad una riorganizzazione che preveda la possibilità di rinnovamento dell'organico, esigenza, quest'ultima, che faceva procedere a nuove assunzioni.

Infine la Corte d'Appello riteneva che la questione di legittimità costituzionale prospettata dai lavoratori non superasse il vaglio di non manifesta infondatezza, tenuto conto, in particolare delle specificità del rapporto di pubblico impiego e dell'esigenza di perseguimento degli interessi generali.

5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello, ricorrono i lavoratori prospettando due motivi di ricorso.

6. Resiste il Comune di Cologno Monzese con controricorso assistito da memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

La Corte d'Appello non avrebbe tenuto in considerazione la circostanza che il recesso, per essere legittimo, avrebbe dovuto fondarsi su un atto di macro organizzazione con il quale il Comune avrebbe dovuto indicare esigenze e strategie che intendeva porre in essere.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la censura di violazione ed errata applicazione di norme di diritto.

Sono richiamati: gli artt. 1, 3, 11 e 34 della legge n. 349 del 1958; gli artt. 34 e 82 del d.P.R. n. 382 del 1980; l'art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001; l’art. 3 della legge n. 241 del 1990; l'art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973, l'art. 2118 cc.; la direttiva 2000/78 CE.

2.1. Premettono i ricorrenti, che durante il periodo di preavviso (il licenziamento era intervenuto il 18 luglio 2008 ed il preavviso era terminato il 30 giugno 2009) la legge 4 marzo 2009 n. 15 aveva sostituito il requisito dei 40 anni di anzianità contributiva con quello dei 40 anni di anzianità massima di servizio effettivo, per cui la legittimità del recesso sarebbe stata condizionata dalla sussistenza di tale secondo requisito e non del primo.

2.2. Nell'illustrare il motivo di impugnazione, assumono i lavoratori che il recesso in esame, per essere legittimo, avrebbe dovuto essere disposto sulla base di determinazioni supportate da esauriente motivazione suscettibile di controllo giudiziale, per quanto integrante atto di gestione del rapporto di lavoro privatizzato, non potendosi ravvisare un'iniziativa necessitata ed automatica in presenza del mero raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni.

All'Amministrazione è attribuita una facoltà che deve essere esercitata nei limiti generali della correttezza e buona fede, nonché dell'imparzialità e correttezza dell'azione amministrativa imposti dall'art. 97 Cost., dovendosi procedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina in esame.

Né la delibera della Giunta comunale, richiamata dalla Corte d'Appello, costituendo mero atto di indirizzo politico, potrebbe integrare un atto di riorganizzazione del personale ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n. 165 del 2001: il Comune avrebbe dovuto prima fissare i criteri guida per l'adozione di provvedimenti di risoluzione dei singoli rapporti di impiego, quindi interessare i potenziali destinatari della disciplina, mettendoli in condizione di presentare argomentazioni.

I lavoratori sospettano d'illegittimità costituzionale l'art. 72, comma 11, in riferimento agli artt. 3, 4, 33, 35, 36 e 97 Cost.; rilevano il carattere discriminatorio del recesso in esame intimato in relazione all'età, ciò in ragione, non solo dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 60 del 1991 che, ricordano i ricorrenti ha affermato "il ricorso alla forma esclusivamente obbligatoria del prepensionamento richiede, per potere incidere legittimamente su interessi costituzionalmente rilevanti e non apparire discriminatorio ed arbitrario, che la misura si prospetti come obbiettivamente non sostituibile con soluzioni fondate sul consenso dei singoli interessati e sia determinata da situazioni tali da renderla indispensabile"), ma della direttiva del Consiglio n. 2000/78 CE. Tale direttiva stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e con essa è coerente la relativa giurisprudenza della CGCU (sentenze rese nei procedimenti: C- 144/04 Mangold; C-555/07 Kucukdeveci; C-187/00 Kutz-Bauer; C-167/97 Seymour-Smith e Perez) tenuto conto che il divieto di discriminazione basato sull'età costituisce elemento essenziale del perseguimento degli obiettivi comunitari in materia di promozione dell'occupazione, e che i decreti legislativi n. 215 e n. 216 del 2003 hanno innovato la nozione di licenziamento discriminatorio.

Si dolgono della natura della risoluzione quale atto vincolato alla ricorrenza del requisito del raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni, peraltro in mancanza di un atto di macro organizzazione.

La chiara descrizione del vizio, illegittimità dei recesso in quanto intimato solo in presenza della anzianità, come esposto dalla stessa Corte d'Appello, sottopone quindi alla Corte il vaglio interpretativo degli elementi costitutivi della fattispecie normativa, senza che, in ragione del principio iura novit curia, rilevi la tempestività di ulteriori specifiche eccezioni difensive.

3. Rileva il Collegio che, nella sostanza, le complesse censure sottoposte all'esame della Corte, per come articolate, con assorbente priorità logico - giuridica, si incentrano, anche con riguardo alla disciplina e alla giurisprudenza comunitaria richiamata, sulle modalità e sulle condizioni di esercizio della facoltà di recesso attribuita alle Pubbliche amministrazioni dall'art. 72, comma 11, citato.

Ciò tenuto conto, peraltro, che l'espressione "possono risolvere", oggetto delle problematiche interpretative poste dai ricorrenti, presente nel testo originario della norma, è rimasta sostanzialmente immutata nella novellazione successiva (sia pure in relazione a diverso requisito) non solo richiamata dai ricorrenti, ma anche come risultante dalle modifiche introdotte dal decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, atteso che il riferimento all'esercizio dei poteri di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 165 del 2001 e al carattere unilaterale della risoluzione, nonché l'applicabilità al rapporto di lavoro e al contratto individuale anche del personale dirigenziale, non sciolgono, in ragione del dato letterale, le questioni relative alle modalità di formazione e manifestazione della volontà negoziale dì risoluzione.

4. Tanto premesso, si osserva che il dubbio di legittimità costituzionale impone a questa Corte la verifica di un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in esame (sentenza Corte cost. n. 237 del 2015), non preclusa in linea di principio dal mero dato letterale qualora, come il Giudice delle Leggi ha avuto modo di osservare, debba tenersi conto del contesto normativo in cui la disposizione si inserisce e della ratio della stessa (Corte cost., sentenza n. 206 del 2015).

5. Si osserva, altresì in relazione al prospettato contrasto con la disciplina comunitaria che l'interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di Giustizia, sia in sede di rinvio pregiudiziale, sia in sede di procedura d'infrazione (Corte cost., sentenze n. 168 del 1991, n. 389 del 1989, n. 113 del 1985 e n. 227 del 2010), ha efficacia "ultra partes", sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino "ex novo" norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia "erga omnes" nell'ambito della Comunità (Cass., n. 22577 del 2012).

Ne consegue che, in presenza di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi, il giudice di ultima istanza non ha l'obbligo di disporre il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass., ord. n. 22103 del 2007; Cass., n. 4776 del 2012; Cass., n. 26924 del 2013, Cass. n.13603 del 2011).

L'effetto diretto delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia secondo l'art. 267 (ex art. 234) del TUEF è, infatti, quello di vincolare il giudice a quo a conformarsi, nel decidere il caso concreto, alle soluzioni dei problemi di diritto in essa contenute, con efficacia erga omnes.

6. Tanto premesso può passarsi all'esame dei motivi del ricorso, che devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

7. I motivi sono fondati e devono essere accolti.

7.1. La direttiva comunitaria 2000/78 CE ha come obiettivo stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

La riconduzione del divieto di discriminazione per l'età nell'ambito dei principi generali dell'ordinamento dell'Unione europea risale alla sentenza Mangold - i cui principi sono stati confermati e chiariti dalla sentenza Kucukdeveci, poi richiamati nella sentenza C-447/09 Prigge - che ha affermato che il principio di non discriminazione in ragione dell'età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario che trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

7.2. La Corte di Giustizia con la sentenza 16 ottobre 2007 in causa C- 411/05, Palacios de la Villa, ha ritenuto ricompresa nel campo di applicazione della direttiva (art. 3, n. 1, lett. c) la disciplina nazionale (spagnola) che stabiliva la cessazione ex lege del rapporto di lavoro fra un datore di lavoro ed un lavoratore allorché quest'ultimo avesse raggiunto una determinata età (65 anni), poiché incideva sulla durata del rapporto di lavoro che vincolava le parti, nonché, in maniera più generale, sull'esercizio da parte del lavoratore interessato della propria attività professionale, impedendone la partecipazione futura alla vita attiva.

Analogamente anche la disciplina in esame attenendo alla cessazione del rapporto di lavoro in presenza della anzianità massima contributiva, nozione che necessariamente si interseca con l'età dei lavoratori - poiché incide sulla durata del rapporto stesso, nonché sull'esercizio da parte del lavoratore della propria attività professionale, ricade nell'ambito di applicazione della direttiva 2000/78 CE (citato art. 3, n. 1, lett. c).

7.3. La direttiva, dopo aver fissato la nozione di discriminazione (art. 2), all'art. 6 prevede cause di giustificazione della disparità di trattamento collegate all'età, e al paragrafo 1, stabilisce che gli Stati membri "possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari".

Proprio nel decidere la questione Palacios de la Villa, la CGCE ha affermato che il divieto di qualunque discriminazione basata sull'età, come realizzato dalla direttiva 2000/78, dev'essere interpretato nel senso che lo stesso non osta ad una misura che, benché fondata sull'età, sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima relativa alla politica del lavoro e al mercato del lavoro, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità d'interesse generale non appaiano inappropriati e non necessari a tale scopo.

A seguito della direttiva 2000/78/CE, è stato adottato il d.lgs. n. 216 del 2003 che reca le disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento fra le persone, in un'ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, in una prospettiva che si può dire oggettiva in quanto prescinde dalla sussistenza di un intento quale elemento costitutivo della fattispecie discriminatoria.

Analogamente a quanto previsto dalla direttiva 2000/78, l'art 3 del d.lgs. n. 213 del 2006, prevede una serie di eccezioni e, in particolare, al comma 6, stabilisce che "Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari".

Rilievo alla sussistenza di una finalità legittima è attribuito anche nella sentenza CGCE C-250/09 Georgiev.

Analoghe considerazioni altresì si rinvengono nella sentenza della CGCE C- 341/08 Domnica Petersen.

7.4. Ritiene il Collegio che la giurisprudenza comunitaria richiamata pone in evidenza la sussistenza di un'interpretazione consolidata della direttiva che non lascia adito a dubbi interpretativi, poiché una disparità di trattamento in ragione dell'età, (come quella oggetto della disciplina in esame, nei termini sopra precisati), non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Peraltro, una mancanza di precisione della normativa, riguardo allo scopo perseguito, non ha la conseguenza di escludere automaticamente che quest'ultima possa essere giustificata ai sensi della disposizione suddetta. In mancanza di una tale precisazione, è importante che altri elementi, attinenti al contesto generale della misura interessata, consentano l'identificazione dell'obiettivo cui tende quest'ultima, al fine di esercitare un controllo giurisdizionale, quanto alla sua legittimità, e al carattere appropriato e necessario dei mezzi adottati per realizzare detto obiettivo (citate sentenze Palacios de la Villa, C-411/05, C-Vital Pérez C- 416/13).

8. La fattispecie in esame attiene alla risoluzione unilaterale da parte di una Pubblica amministrazione, Comune di Cologno Monzese, di alcuni rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato facenti capo a lavoratori che avevano compiuto l'anzianità massima contributiva di 40 anni, ai sensi dell'art. 72, comma 11, nel testo originario, come convertito in legge, in combinato disposto con l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Non rientrano nel thema decidendum accesso e condizioni del trattamento pensionistico.

8.1. Sulle modalità applicative di detta disciplina, sempre con riguardo a dipendenti comunali, è peraltro intervenuta questa Corte con la sentenza n. 21626 del 2015, le cui statuizioni, in una linea di condivisione e continuità, devono essere sviluppate come verrà di seguito esposto, ed alla luce degli specifici motivi di ricorso che investono la compatibilità comunitaria della disciplina in esame con la direttiva 2000/78 CE, in particolare con l'art. 6, comma 1, anche in ragione della giurisprudenza della CGCE.

8.2. Ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie, occorre procedere ad una sia pure sintetica ricognizione del quadro normativo nazionale in cui si colloca la vicenda in esame.

8.3. Ancor prima, va osservato che la comunicazione del recesso in esame interveniva nella vigenza dell'art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, poi convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 112, testo vigente, per quanto qui rileva, dal 25 giugno 2008 al 19 marzo 2009, che prevedeva "Nel caso di compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti" (...) "sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello "affari esteri"), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordinamentali".

L'art. 72, comma 11, veniva successivamente novellato dall'art. 6, comma 3, della legge 4 marzo 2009, n. 15, che ne modificava il testo, sostituendo il requisito del compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del "compimento dell'anzianità massima di servizio di 40 anni".

8.4. Come si può rilevare, pur cambiando significativamente il requisito in presenza del quale le pubbliche amministrazione potevano risolvere il rapporto di lavoro, passandosi dall'anzianità massima contributiva di 40 anni all'anzianità massima di servizio di 40 anni, in entrambi i casi, oltre il preavviso, non venivano stabilite in modo espresso altre condizioni "procedimentali", recte di formazione della volontà negoziale dell'Amministrazione, e motivazionali. Come si è visto, la determinazione di specifiche modalità applicative era espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti.

8.5. Successivamente, l'art. 17, comma 35-novies, del d.l. 10 luglio 2009 n. 78 convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, sostituiva il comma 11 dell'art. 72. Si faceva riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva; si confermava il preavviso; si precisava la unilateralità del recesso collegandolo all'esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell'art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; si prevedeva l'applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale.

L'adozione di specifici criteri e modalità applicative continuavano ad essere previsti solo per i comparti sicurezza, difesa e affari esteri.

8.6. Tali punti sono rimasti immutati anche nelle successive novelle, fino all'intervento dell'art. 1, comma 5, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che "Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l'accesso al pensionamento" (...) "risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un'età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale" (...).

La ricostruzione della disciplina va completata con il richiamo dell'art. 16, comma 11, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che, ha stabilito: "In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l'esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell'articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l'amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri di applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi dì controllo".

8.7. Proprio in ragione di tale ultima disposizione, questa Corte, con la sentenza n. 21626 del 2015 ha affermato che "è solo a partire da tale ulteriore modifica che l'esercizio della facoltà delle pubbliche amministrazioni di risolvere il rapporto di impiego sul presupposto del compimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni è condizionato, in generale (ossia in tutti i comparti), alla previa adozione di un atto generale di organizzazione interna che ponga i criteri applicativi per l'esercizio di tale facoltà. In precedenza invece solo per alcuni comparti - come già rilevato - si richiedeva l'integrazione regolamentare per la definizione degli specifici criteri e le modalità applicative della disposizione che tale facoltà prevedeva". E se è chiaro, e dal Collegio condiviso, che il requisito della adozione dell'atto generale organizzativo (sostitutivo dell'ulteriore motivazione) è frutto di scelta innovativa (come detto dalla citata pronunzia del 2015), è altrettanto chiaro e condiviso che l'obbligo motivazionale - solo de futuro sostituito dall'atto generale - sussisteva già a regolare l'originaria risoluzione di cui all'art. 72 comma 11 del d.l. del 2008.

9. Rileva il Collegio che il quadro normativo complessivo, pone in evidenza come il legislatore abbia inteso, nel tempo, chiarire che, nella fattispecie, viene in rilievo l'esercizio di poteri di natura privatistica nel disporre la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, così venendosi ad escludere l'adozione di atti provvedimentali soggetti alla disciplina della legge n. 241 del 1990.

Tuttavia, proprio la successiva previsione esplicita della generale necessità (prevista in origine solo per settori - comparti difesa e sicurezza - in cui i rapporti di lavoro di mero diritto pubblico hanno significativa consistenza), benché non vengano esercitati poteri autoritativi, di un percorso motivazionale e dell'adozione di criteri (testo vigente), pone in evidenza come il legislatore ha avvertito l'esigenza di ancorare la facoltà attribuita alla PA, nonostante il ribadito contesto privatistico, all'effettuazione di una valutazione oggetto di ostensione, in sintonia con quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale, e cioè che la Pubblica amministrazione "conserva pur sempre - anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare", essendo tenuta "al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa" (Corte cost., sentenze n. 146 del 2008, n. 82 del 2003).

Il carattere facoltativo della risoluzione in ragione di anzianità necessita, per non tradursi in discriminazione, di un percorso valutativo che garantisca la legittima finalizzazione dell'interesse pubblico dell'Amministrazione ad una più efficace ed efficiente organizzazione, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza e dei criteri di imparzialità e trasparenza: ciò costituendo garanzia dei diritti dei lavoratori, del buon andamento dell'amministrazione e del generale interesse al corretto esercizio dell'azione pubblica, in un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi costituzionalmente protetti che vengono in rilievo.

Le ragioni della risoluzione non possono pertanto rinvenirsi nel solo raggiungimento dell'anzianità in questione, come affermato dalla Corte d'Appello, che, quindi, erroneamente ha ritenuto esaustiva la delibera n. 117 del 17 luglio 2008. Detta delibera, avente ad oggetto atto di indirizzo, non era sussumibile né formalmente, né sostanzialmente, in ragione della sua genericità, in un atto valutativo con finalità organizzative che tenesse conto delle specifiche posizioni che venivano in rilievo, atteso che nello stesso, come riportato in sentenza, nonché nel controricorso (pag. 29) si affermava soltanto che "Considerata la necessità e l'opportunità che la Giunta comunale esprima un atto di indirizzo in merito alla facoltà concessa alle pubbliche amministrazioni anche considerando le esigenze e le possibilità di rinnovamento dell'organico", si intendeva esprimere la valutazione di procedere per tutte le figure interessate alla risoluzione.

9.1. Va altresì rammentato che il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere totalmente assimilati (Corte costituzionale sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, e che la medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l'area del lavoro pubblico contrattualizzato e l'area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale (Corte cost., sentenza n. 178 del 2015): in particolare i principi costituzionali di legalità ed imparzialità concorrono comunque a conformare la condotta della Pubblica amministrazione e l'esercizio delle facoltà riconosciutele quale datore di lavoro pubblico in regime contrattualizzato.

9.2. In proposito si ricorda che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 21671 del 2013 (cfr., anche ordinanza 1252 del 2004) hanno riaffermato, con riguardo agli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, che agli stessi, poiché hanno natura di determinazioni negoziali, devono applicarsi i criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.

Tali principi sono stati ribaditi dalla Corte a Sezioni semplici (Cass., n. 18972 del 2015, n. 7495 del 2015, in materia di incarichi dirigenziali).

D'altro canto la peculiarità del rapporto di lavoro pubblico, rinviene la sua origine storica, non solo nella natura pubblica del datore di lavoro, ma nella relazione che sussiste tra la prestazione lavorativa del dipendente pubblico e l'interesse generale, tutt'ora persistente anche in regime contrattualizzato.

10. Pertanto, va affermato il seguente principio di diritto:

"La facoltà attribuita dall'art. 72, comma 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, alle Pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, nel caso di compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell'Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento, che caratterizzano anche gli atti di natura negoziale posti in essere nell'ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato. L'esercizio della facoltà richiede, quindi, idonea motivazione, poiché in tal modo è salvaguardato il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguite nell'ambito di politiche del lavoro".

Tale motivazione, si aggiunge, si rende ancor più necessaria in mancanza di un atto generale di organizzazione perché costituisce il solo strumento di conoscenza e verifica delle ragioni organizzative che inducono l'Amministrazione ad adottare atti di risoluzione contrattuale.

In mancanza, la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato viola le norme imperative che richiedono la rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001), l'applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cc), e i principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., nonché l'art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE.

11. Il ricorso va pertanto accolto. La sentenza deve essere cassata con rinvio, non potendo essere decisa nel merito, alla Corte d'Appello di Milano, la quale, in diversa composizione, procederà al riesame dei motivi accolti adeguandosi al principio sopra trascritto e conclusivamente regolerà le spese anche del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d'Appello di Milano in diversa composizione.