Giurisprudenza - TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE LAZIO - Ordinanza 07 aprile 2016

Impiego pubblico - Divieto di erogazione di trattamenti economici eccedenti il c.d. "tetto retributivo" - Legge 27 dicembre 2013, n. 147 ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)") , art. 1, comma 489.

 

 Ritenuto in fatto e considerato in diritto, quanto segue

 

 1. Il Consigliere di Stato M. rappresenta di appartenere ad un'esigua categoria di pubblici funzionari di altissimo livello, che, giunti all'apice della propria carriera, sono stati nominati Consiglieri di Stato ai sensi dell'art. 19, comma 1, n. 2), della legge n. 186 del 1982, essendo collocati in quiescenza dall'Amministrazione di originaria appartenenza.

 Anche nel suo caso, «la nomina a Consigliere di Stato giunge, dunque, a coronamento di una carriera pubblica di assoluto spicco e concerne un numero molto ridotto di servitori dello Stato, che in tale nomina (accettata, sovente, anche rinunciando a significative opportunità nel settore privato) trovano il riconoscimento dei meriti acquisiti nell'esercizio delle precedenti funzioni, ma anche della specifica attitudine all'esercizio delle nuove attribuzioni». 

In particolare il Cons. M. rappresenta che, nel corso della.sua attività lavorativa, quale appartenente ai ruoli della Camera dei Deputati, è stato, fra l'altro, Capo della segreteria della Camera dei Deputati e che esercita le funzioni di Consigliere di Stato a far data dal 1998, risultando al contempo titolare di un trattamento pensionistico erogato da un soggetto pubblico (nella specie Camera dei Deputati).

 2. Il ricorrente procede quindi ad illustrare il quadro normativo nel quale si inseriscono i provvedimenti impugnati con i ricorsi introduttivi evidenziando quanto segue.

 Di recente sono state introdotte importanti misure di contenimento della spesa nel settore pubblico, anche mediante la previsione di limiti ai trattamenti economici ed agli emolumenti corrisposti ai dipendenti pubblici, ai titolari di cariche elettive e ai titolari di incarichi con emolumenti a carico della finanza pubblica.

 In tale contesto si inserisce l'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, il quale, al comma 1, primo periodo, stabilisce che «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata  in vigore della legge di conversione del presente decreto, è definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione». 

In attuazione di tale disposizione, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adottato il decreto 23 marzo 2012, recante «Limite massimo retributivo per emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni statali», il quale dispone, all'art. 3, che «a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto, il trattamento retributivo percepito annualmente, comprese le indennità e le voci accessorie nonché le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o consulenze conferiti da amministrazioni pubbliche diverse da quella di appartenenza, dei soggetti di cui all'art. 2 [trattasi dei "soggetti destinatari" del decreto] non può superare il trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al Primo Presidente della Corte di cassazione, pari nell'anno 2011 a € 293.658,95. Qualora superiore, si riduce al predetto limite».

 In seguito, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia con l'art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, disponendo che, ai fini del raggiungimento del predetto tetto, devono esser computati anche i trattamenti pensionistici pregressi eventualmente percepiti a carico di gestioni previdenziali pubbliche.

 In particolare quest'ultima disposizione prevede che «ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell'elenco ISTAT di cui all'art. 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive». 

Il terzo periodo della medesima disposizione, al fine di armonizzare il nuovo regime con le posizioni retributivo - previdenziali in essere alla sua entrata in vigore, aggiunge che «sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi», mentre l'ultimo periodo prevede che «gli organi costituzionali applicano i principi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti». 

Da ultimo l'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014, ha ridotto il tetto massimo fissato dal d.P.C.M. 23 marzo 2012, prevedendo che «a decorrere dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni e integrazioni, è fissato in € 240.000,00 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente». 

3. Ciò premesso il ricorrente - nel rimarcare che i provvedimenti impugnati, adottati dall'Amministrazione per dare attuazione al suesposto quadro normativo, determinano un rilevantissimo sacrificio delle proprie aspettative economiche - avverso tali provvedimenti deduce le seguenti censure.

I) Violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, anche in riferimento all'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, come convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214.

 Il ricorrente - nel rammentare il fondamentale canone ermeneutico secondo il quale le leggi debbono essere dichiarate costituzionalmente illegittime laddove non sia possibile darne interpretazioni conformi alla Costituzione - si duole innanzi tutto del fatto che l'Amministrazione non abbia ritenuto applicabile la deroga contenuta al terzo periodo dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, secondo il quale «sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi».

 In particolare i provvedimenti impugnati poggerebbero su una lettura parziale ed errata della disposizione in commento perché la stessa non può non riferirsi anche ai rapporti di lavoro a regime pubblicistico intesi nella loro globalità, non potendosi legittimamente differenziare tra rapporti la cui prestazione specifica consista nell'assolvimento di un «incarico», e rapporti la cui prestazione specifica consista nello svolgimento di una «funzione».

 In altri termini, secondo parte ricorrente, il legislatore avrebbe inteso far salvi i trattamenti in essere, sia che ineriscano al pubblico impiego privatizzato, sia che ineriscano al pubblico impiego non privatizzato, nel quale vengono costituiti rapporti di lavoro per i quali non avrebbe senso distinguere tra «incarichi» e «funzioni».

 Del resto, a conferma dell'applicabilità della disposizione derogatoria anche al pubblico impiego non privatizzato, rileverebbe il fatto che la stessa si pone in evidente parallelismo con la stessa norma istitutiva del tetto massimo di cumulo (l'art. 23-ter, del decreto-legge n. 201 del 2011), la quale, al comma 1, indica come suo destinatario «chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni [ossia il pubblico impiego privatizzato], ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni [ossia il pubblico impiego non privatizzato]».   Il termine «incarico» comprenderebbe, quindi, qualunque conferimento di compiti da parte dell'amministrazione, ivi compreso il conferimento di funzioni nell'ambito di un rapporto di impiego non privatizzato, come dimostra il fatto che, proprio nell'ambito della disposizione istitutiva del tetto (art. 23-ter cit.), il legislatore ha utilizzato indifferentemente i due termini, prevedendo al comma 2 che «il personale di cui al comma 1 che è chiamato, conservando il trattamento economico riconosciuto dall'amministrazione di appartenenza, all'esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, anche in posizione di fuori ruolo o di aspettativa, presso Ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti, non può ricevere, a titolo di retribuzione o di indennità per l'incarico ricoperto, o anche soltanto per il rimborso delle spese, più del 25 per cento dell'ammontare complessivo del trattamento economico percepito». 

L'intenzione del legislatore di riferire la nuova disciplina a tutte le forme di pubblico impiego si desumerebbe poi dal fatto che il primo periodo del richiamato comma 489, nel disporre il computo nel tetto dei «trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche», si riferisce a tutti i trattamenti in questione, a prescindere dalla fonte generatrice del rapporto di lavoro o di impiego, e quindi sarebbe internamente illogico uniformare il trattamento del lavoro privatizzato e del lavoro non privatizzato dal punto di vista del computo del tetto e differenziarlo dal punto di vista della salvaguardia delle situazioni in essere. Infine il ricorrente, a supporto delle considerazioni sin qui svolte, invoca la circolare della P.C.d.M., Dipartimento della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza trattamento personale, n. 3 del 18 marzo 2014, che - nel fornire alcune note esplicative per l'applicazione della nuova disciplina - non prevede alcuna diversità di trattamento basata sul tipo rapporto di lavoro con l'Amministrazione.

II) Difetto di motivazione. 

Parte ricorrente si duole del fatto che l'amministrazione nei provvedimenti impugnati nulla dica in ordine alle ragioni che l'hanno indotta a ritenere inapplicabile la deroga di cui all'art. 1, comma 489, terzo periodo, della legge n. 147 del 2013 a coloro che svolgono la funzione di Consigliere di Stato. 

III) In subordine. Illegittimità derivata dei provvedimenti impugnati per illegittimità costituzionale della disposizione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.

 Per il caso in cui la suddetta disposizione derogatoria fosse ritenuta applicabile anche al suo caso, parte ricorrente sostiene che la disciplina introdotta dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 sarebbe incostituzionale sotto molteplici profili, con conseguente illegittimità (derivata) degli atti applicativi della stessa.

 III.1) Disparità di trattamento e violazione del principio di ragionevolezza. 

Innanzi tutto parte ricorrente sostiene che la disciplina introdotta dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 sarebbe incostituzionale nella parte in cui prevede la suddetta disposizione derogatoria, perché regola antiteticamente situazioni sostanzialmente identiche, senza alcuna giustificazione meritevole di apprezzamento, e quindi determina gravi disparità di trattamento e contrasta con il principio di ragionevolezza. Difatti, non sussisterebbero comprensibili ragioni per far salvi i dipendenti contrattualizzati o quelli titolari di «incarichi» in quanto:

A) ogni prestazione può essere indifferentemente resa in regime pubblicistico o privatistico, ovvero sulla base di un contratto individuale o della generale disciplina delle mansioni affidate al personale appartenente ad un determinato ruolo;

B) la scelta fra l'uno e l'altro regime spetta alla discrezionalità del legislatore e non le è sottesa una diversità ontologica tra questa o quella prestazione o fra questa o quella categoria di lavoratori;

 C) un criterio distintivo non potrebbe essere rinvenuto nella differente durata del rapporto, perché il contratto può ben essere (ed è normalmente, nel caso di rapporto di lavoro privatizzato) a tempo indeterminato tanto quanto il rapporto di impiego dei dipendenti non contrattualizzati; 

D) anche quando l'incarico o il contratto è a termine, non mancano esempi di incarichi (si pensi a quelli dei componenti delle autorità indipendenti) e di contratti dirigenziali che si estendono per un arco temporale considerevole, sovente eccedente il residuo arco di servizio espletabile dal ricorrente a far data dall'introduzione del cumulo e fino al collocamento in quiescenza come Consigliere di Stato. Né varrebbe obiettare che nel caso in esame si pretende l'estensione di una norma derogatoria, perché la norma stessa fa salva la generalità dei rapporti con l'Amministrazione. 

III.2) Violazione del principio di ragionevolezza sotto un altro profilo.

Parte ricorrente - premesso che per la nomina a Consigliere di Stato l'art. 19, comma 2, della legge n. 186 del 1982 presuppone l'aver già svolto attività di professore universitario ordinario di materie giuridiche o di avvocato da almeno quindici anni ovvero l'appartenenza alla dirigenza generale dei Ministeri, degli organi costituzionali e delle altre amministrazioni pubbliche ovvero ancora l'avere la qualifica di magistrato di Corte d'appello o altra equiparata - evidenzia che il legislatore stesso ha prefigurato uno schema che generalmente comporta la coesistenza di un trattamento di quiescenza e di una nuova retribuzione. Difatti la disciplina della nomina governativa dei Consiglieri di Stato mira ad acquisire le competenze più solide e prestigiose disponibili nel mondo del diritto, che sono naturaliter possedute proprio da coloro che hanno già una rilevante attività professionale alle spalle, sicché la coesistenza tra pensione e stipendio è implicita nella ratio stessa della legge n. 186 del 1982. Quindi la censurata disciplina determinerebbe una contraddizione interna al sistema delle fonti che regolano l'esercizio delle funzioni di Consigliere di Stato, con conseguente violazione del principio di ragionevolezza, desumibile dall'art. 3 Cost. 

 III.3) Violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

 Parte ricorrente - premesso che la Corte costituzionale ha più volte precisato come la facoltà del legislatore di intervenire retroattivamente sui rapporti di durata trovi limiti insormontabili nel rispetto del principio di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento e del principio di tutela dell'affidamento, desumibili dall'art. 3 Cost. - sostiene che la censurata disciplina, nell'interpretazione fatta propria dall'Amministrazione resistente, determina il superamento dei predetti limiti. In particolare, secondo il ricorrente, le ingiustificate disparità di trattamento sarebbero rese palesi da quanto già dedotto sul trattamento differenziato delle diverse categorie di dipendenti pubblici, mentre la lesione dell'affidamento discenderebbe dal fatto che egli, avendo meritato e maturato sia il trattamento pensionistico sia il trattamento retributivo percepito in qualità di Consigliere di Stato, aveva legittimamente diritto di giovarsene a tempo indeterminato. Inoltre nel caso in esame la lesione del legittimo affidamento determinerebbe anche la violazione del combinato disposto dell'art. 117, comma 1, Cost. con l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, perché la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha più volte affermato che, tra i motivi imperativi di interesse generale che giustificano interventi normativi retroattivi, non rientra l'ottenimento di un mero beneficio economico per la finanza pubblica. Infine parte ricorrente rammenta che anche la Corte di Giustizia ha precisato come nell'ordinamento dell'Unione europea il principio dell'affidamento si sostanzi nella legittima aspettativa, riconosciuta a ciascun soggetto operante in quell'ordinamento, a che non si realizzi una irragionevole, retroattiva, modificazione del quadro giuridico di riferimento.

III.4) Violazione degli articoli 3, 4, 36 e 38 della Costituzione. 

La censurata disciplina contrasta (per un ulteriore profilo) con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., con il diritto ad un'equa retribuzione (art. 36 Cost.), anche differita (art. 38 Cost.), con il diritto alla tutela assistenziale e previdenziale (ancora art. 38 Cost.) e con il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) perché, per effetto di tale disciplina, la retribuzione di attività lavorative connotate da elevatissimi standard qualitativi, svolte da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione di assoluta eccellenza, viene sottoposta a ingenti decurtazioni e in non poche ipotesi addirittura azzerata. Difatti tali figure, avendo ricoperto/svolto, in anni di servizio alle dipendenze dello Stato, delle cariche/funzioni apicali, hanno maturato un trattamento pensionistico di ammontare prossimo o superiore al tetto di € 240.000,00 e, quindi, si troverebbero a svolgere una funzione di cruciale importanza e di grande responsabilità - qual è quella di Consigliere di Stato - percependo una retribuzione esigua o addirittura inesistente. Né potrebbe opporsi che egli ha volontariamente assunto lo status che comporta le menzionate decurtazioni della retribuzione e del precedente trattamento retributivo; difatti l'orientamento della Corte costituzionale che esclude la lesione di un diritto costituzionalmente garantito laddove il titolare dello stesso si sia posto, attraverso la propria condotta, nelle condizioni che determinano la compressione del diritto stesso non sarebbe applicabile nel caso in esame perché la sovrapposizione tra la pensione e la retribuzione è la logica conseguenza dell'applicazione della legge n. 186 del 1982, sicché il ricorrente medesimo, accettando la nomina a Consigliere di Stato, ha legittimamente fatto affidamento nell'osservanza di tale logica da parte del legislatore. Inoltre, egli deduce che per poter percepire il proprio precedente trattamento pensionistico (corrispondente a cospicui versamenti contributivi eseguiti per un periodo particolarmente lungo) dovrebbero rinunciare a svolgere l'incarico che gli è stato attribuito; pertanto delle due l'una: o egli si rassegna a percepire un trattamento pensionistico non commisurato al montante contributivo accumulato e una retribuzione non commisurata all'attività professionale prestata, oppure deve rinunciare a svolgere l'attuale incarico, con conseguente violazione della libertà di esercitare qualsivoglia attività lavorativa. 

 Infine, lamenta la violazione dell'art. 38 della Costituzione evidenziando che la drastica riduzione o addirittura l'azzeramento della retribuzione precludono la tutela assistenziale prevista dall'ordinamento soltanto per chi versa la relativa contribuzione. 

III.5) Violazione degli articoli 3, 95 e 97 della Costituzione.

Il ricorrente - premesso che la nomina governativa di una parte dei Consiglieri di Stato, da scegliere nella platea degli aventi titolo di cui all'art. 19, comma 2, della legge n. 186 del 1982, è uno strumento di sicura rilevanza per lo svolgimento delle funzioni affidate al Consiglio stesso, dato che introduce nell'Istituto esperienze particolari di amministrazione attiva, ne accentua la specializzazione e aumenta il grado di conoscenza del funzionamento della macchina amministrativa - deduce ancora che la normativa censurata, penalizzando fortemente proprio le figure di maggiore spicco, finisce per costringere il Governo ad indirizzare altrove le proprie scelte e quindi contrasta, oltre che con il principio di ragionevolezza, anche con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), perché la scelta non è indirizzata ai migliori, e con l'affidamento al Governo dell'indirizzo politico-amministrativo (art. 95 Cost.), perché esso viene qui distolto dal suo approdo più coerente e mortificato nella libertà della sua esplicazione. 

III.6) Violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione.

Invocando un precedente specifico della Corte costituzionale (la sentenza n. 223 del 2012) e l'ordinanza di questo Tribunale n. 5693 del 2014 (con la quale è stata sollevata la questione di costituzionalità dell'art. 9, comma 21, del decreto-legge n. 78 del 2010), sostiene che la normativa censurata istituisce un prelievo di natura sostanzialmente tributaria, che risulta però discriminatorio perché grava soltanto sui pensionati titolari di incarichi o rapporti di lavoro pubblici, lasciando indenne la posizione dei pensionati che prestino servizio alle dipendenze di un datore di lavoro privato o esercitino attività libero-professionale.

 III.7) Violazione degli articoli 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.

Premesso che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 223 del 2012, n. 99 del 1995, n. 42 del 1993 e n. 238 del 1990), una disposizione di legge che incide in peius sul trattamento retributivo dei magistrati è legittima purché abbia natura eccezionale e portata temporale limitata e sia comunque inserita in un ragionevole e non arbitrario intervento perequativo fra categorie di cittadini, parte ricorrente ritiene che ciò non accade nel caso in esame, perché il tetto massimo agli emolumenti, oltre ad incidere retroattivamente su un trattamento retributivo e su un trattamento previdenziale già maturati, non persegue un intervento perequativo, non essendo applicabile a tutte le categorie dei percettori di reddito, ma solo a quella di chi si trova alle dipendenze della amministrazioni pubbliche. Ne consegue la violazione delle invocate disposizioni costituzionali poste a garanzia dell'indipendenza di tutti coloro che sono chiamati ad esercitare funzioni giurisdizionali, ivi compresi i magistrati amministrativi.

 III.8) violazione dell'art. 23 della Costituzione.

Infine, il ricorrente lamenta la violazione dalla riserva di legge sancita dell'art. 23 Cost. per le prestazioni patrimoniali imposte, evidenziando che la normativa censurata non definisce i criteri per la propria applicazione, lasciando del tutto indefinita, ad esempio, la questione delle modalità di recupero delle somme eccedenti il tetto già percepite o quella della sorte della copertura assicurativa.

4. Il ricorrente, con i ricorsi per motivi aggiunti in epigrafe indicati, ha successivamente impugnato gli ulteriori provvedimenti adottati dall'Amministrazione nei propri confronti in attuazione della disciplina introdotta dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.

 5. Il ricorrente - con memoria successivamente depositata - nel rappresentare che la prima Sezione questo Tribunale con l'ordinanza 17 aprile 2015, n. 5715 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 - ha evidenziato innanzi tutto che i dubbi prospettati con tale ordinanza sono in parte analoghi a quelli prospettati con il ricorso in esame, avendo ad oggetto: 

 A) la violazione dell'art. 36 della Costituzione, in ragione del fatto che il ricorrente, per effetto della censurata disciplina, si troverebbe a svolgere la funzione di Consigliere di Stato - percependo una retribuzione esigua se non addirittura inesistente (cfr. il motivo III.4);

 B) la violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione, in ragione del fatto che la normativa censurata, penalizzando le figure di maggiore spicco, finisce per costringere il Governo ad indirizzare altrove le proprie scelte (cfr. il motivo III.5); 

C) la violazione dell'art. 38 della Costituzione, in ragione del fatto che chi non percepisce uno stipendio non ha diritto alla tutela assistenziale prevista dall'ordinamento, riconosciuta solo a chi versa la relativa contribuzione (cfr. il motivo III.4); 

D) la violazione delle disposizioni degli articoli 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, poste a presidio dell'indipendenza di tutti coloro che esercitano o possono esercitare funzioni giurisdizionali (ivi compresi i magistrati amministrativi). 

Inoltre ha insistito affinché vengano sollevate anche le ulteriori questioni di legittimità prospettate con il ricorso in epigrafe indicato, incentrate:

 A) sulla violazione del principio di ragionevolezza e sulla disparità di trattamento tra dipendenti contrattualizzati o titolari di incarichi e dipendenti non contrattualizzati;

 B) sull'ulteriore violazione del principio di ragionevolezza connessa al contrasto con la disciplina posta dall'art. 19, comma 2, della legge n. 186/1982;

 C) sulla violazione dell'art. 23 della Costituzione; 

D) sulla violazione degli articoli 3, 95 e 97 della Costituzione;

 E) sulla violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

 Ha infine precisato che nel caso in esame non sussistono i presupposti per disporre la c.d. sospensione impropria del giudizio per pendenza di un'analoga questione di legittimità costituzionale sollevata in altro giudizio (ossia in quello nel quale è stata pronunciata la suddetta ordinanza n. 5715/2015), perché egli ha interesse ad interloquire innanzi alla Corte costituzionale.

6. La Difesa erariale, in rappresentanza delle intimate Amministrazioni, ha sostenuto l'infondatezza delle suesposte censure osservando, in particolare, che:

 A) la disciplina dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 è stata introdotta in attuazione del principio di pareggio del bilancio, sancito dal novellato art. 81 della Costituzione e mira al contenimento della spesa nel settore pubblico; 

B) la clausola che salvaguarda i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza non si applica ai rapporti a tempo indeterminato regolati da norme di legge o da contratti collettivi, essendo volta a garantire la certezza di situazioni giuridiche derivanti da rapporti a tempo determinato, aventi fonte convenzionale e regolati da una specifica disciplina in base alla quale le parti hanno raggiunto l'accordo e assunto le rispettive obbligazioni.

 Quindi, con successiva memoria - oltre a rilevare che la prima Sezione questo Tribunale con l'ordinanza n. 5715 del 2015 ha già ritenuto infondate talune delle questioni legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente - ha eccepito l'infondatezza delle ulteriori questioni sollevate con la predetta ordinanza. 

In particolare, secondo la Difesa erariale, la disciplina posta dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 non viola: 

A) gli articoli 3 e 97 Cost., perché concorre ad assicurare, mediante il rispetto del limite retributivo, una più equa redistribuzione di risorse pubbliche;

B) gli articoli 36 e 38 Cost., perché non limita direttamente il trattamento economico o previdenziale connesso allo svolgimento di una qualsivoglia attività lavorativa, bensì il cumulo di trattamenti economici posti a carico della finanza pubblica, sicché le decurtazioni sul trattamento economico corrisposto per le attività svolte successivamente al collocamento in quiescenza sono meramente eventuali, perché operano solo nei casi in cui venga superato il tetto posto dall'art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66/2014;

C) gli articoli 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., perché ai fini del rispetto del tetto non è in discussione la corresponsione della retribuzione, ma il solo trattamento complessivo, derivante dal cumulo tra il trattamento previdenziale in godimento e la retribuzione corrisposta in virtù in un nuovo rapporto - liberamente accettato dall'interessato - che determina il superamento del tetto retributivo. 

7. Alla pubblica udienza del 24 febbraio 2016 il ricorso e i motivi aggiunti sono passati in decisione.

8. Il Collegio ritiene - anche sulla scorta di quanto affermato dalla prima Sezione questo Tribunale nell'ordinanza n. 5715 del 2015, pronunciata nell'ambito di un giudizio analogo a quello di esame, promosso da magistrati della Corte dei Conti - che siano rilevanti e non manifestamente infondate talune delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente, alla luce delle seguenti considerazioni. 

9. Innanzi tutto, in punto di rilevanza, si osserva quanto segue.

I provvedimenti impugnati trovano la loro indefettibile base normativa nell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.

Al riguardo, non possono essere condivise le censure dedotte con i primi due motivi del ricorso introduttivo e ribadite con i motivi aggiunti riferite alla disposizione derogatoria che fa «salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi», riferendosi la stessa a «tutti i rapporti - indifferentemente di diritto privato o pubblico ... - che a quel momento, peraltro, non solo erano già in corso, bensì erano anche individuati da un naturale termine di "scadenza", e non già, quindi, ai rapporti relativi all'esercizio in atto di una funzione giurisdizionale "togata" e non onoraria, «ovverosia svolta a seguito dell'inserimento a pieno titolo in un plesso giurisdizionale, con la conseguente creazione di un rapporto d'ufficio caratterizzato non già da una prefissata temporaneità bensì - al contrario - dalla stabilità ed anzi dalla garanzia di inamovibilità» (ordinanza n. 5715/2015, cit.).

 In sostanza, la deroga relativa ai contratti e agli incarichi in corso, limitata alla loro naturale scadenza, non riguarda il ricorrente, in quanto egli è titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato regolato da norme di legge. 

I provvedimenti impugnati, in quanto frutto dell'applicazione di puntuali previsioni legislative, impongono quindi lo scrutinio dei plurimi, delicati profili di possibile incostituzionalità delle stesse, sollevati da parte ricorrente e/o deducibili d'ufficio. 

La rilevanza delle indicate questioni di legittimità costituzionale per la decisione del ricorso non appare dubbia, atteso che i provvedimenti impugnati trovano la loro indefettibile base normativa nel citato art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per modo che il suo eventuale annullamento per illegittimità costituzionale comporterebbe l'illegittimità derivata degli atti amministrativi impugnati con il conseguente accoglimento del ricorso che altrimenti -alla stregua delle pregresse considerazioni- dovrebbe essere respinto.

 10. Passando dunque al preliminare scrutinio dei numerosi profili di illegittimità costituzionale prospettati, appare manifestamente infondata, in primo luogo, la censura di violazione dell'art. 3 Cost. riferita al trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio che la norma avrebbe riservato alla categoria cui appartiene il  ricorrente, in particolare per quanto riguarda la mancata estensione ad essa della disposizione derogatoria, prevista, in sede di prima applicazione, che fa "salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi".

Essa, infatti, come già evidenziato, non si riferisce a tutti i dipendenti della pubblica amministrazione titolari di rapporti di lavoro privatizzati e contrattualizzati, bensì soltanto ai rapporti a tempo determinato su base convenzionale tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati, in corso alla data di entrata in vigore della disposizione medesima.

Al riguardo, non appare ipotizzabile una ingiustificata disparità di trattamento, poiché è evidente che gli incarichi a tempo determinato assunti su base convenzionale non sono in alcun modo paragonabili a rapporti di lavoro a tempo indeterminato, regolati da norme di legge, e caratterizzati dall'esercizio di una funzione pubblica di natura giurisdizionale, assistita dalle garanzie di stabilità e di inamovibilità. 

11. Parimenti infondata risulta la questione incentrata sulla violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. 

In proposito è sufficiente ribadire le considerazioni svolte al riguardo dalla prima Sezione di questo Tribunale. 

In particolare, nella suddetta ordinanza n. 5715 del 2015 è stato posto in rilevo quanto segue: 

 A) «la previsione di compensi e trattamenti pensionistici massimi a carico della finanza pubblica per i singoli soggetti titolari di pubblici uffici non appare intrinsecamente illogica o negativa ai fini di una razionalizzazione della c.d. "giungla retributiva" che storicamente ha caratterizzato - secondo numerose indagini del Parlamento, del Governo e di Organi indipendenti - un'Amministrazione non sempre caratterizzata da massimi livelli di efficienza, mentre - dal punto di vista dei singoli trattamenti retributivi oggetto del presente giudizio - all'atto dell'accettazione della nomina alla Corte dei Conti gli interessati -anche in virtù delle stesse competenze ed esperienze professionali che ne avevano motivato la scelta - erano o ben potevano essere a conoscenza delle recenti misure di legge volte al contenimento della spesa pubblica ed adottate proprio su iniziativa dello stesso Potere Esecutivo che li aveva proposti al nuovo incarico, di modo che - da un lato - l'accettazione non poteva non implicare la piena consapevolezza circa i prevedibili limiti al proprio compenso e - dall'altro - la proposta di nomina assolutamente fiduciaria da parte del Governo non poteva ragionevolmente suscitare l'aspettativa di un trattamento differenziato quanto alla sorte del proprio compenso a carico della finanza pubblica, in quanto ciò si sarebbe tradotto in una ampissima facoltà di deroga del Governo - rispetto alle norme da esso proposte - in favore di singoli soggetti dallo stesso individuati, suscitando profili di problematica coesistenza con i principi di legalità ed uguaglianza davanti alla legge sanciti dal nostro ordinamento»;

B) «il nuovo generale tetto economico in esame risponde agli obiettivi d'interesse pubblico lasciati alla discrezionalità dei singoli Stati quanto al contenimento, alla trasparenza ed alla congruità della spesa pubblica, nel quadro dei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 della Costituzione e dei principi di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97, mentre la Corte costituzionale ha più volte chiarito che, salvi i limiti in materia penale derivanti dall'art. 25, comma 2, Cost., non è in linea di principio precluso al legislatore intervenire per mutare la disciplina dei rapporti di durata in corso, anche con disposizioni che modificano in senso sfavorevole situazioni soggettive perfette, purché nel limite del rispetto del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. e del principio di affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, che - come sopra chiarito - non appaiono violati nella fattispecie in esame (in senso conforme, Corte cost., sentenze n. 92 del 2013, n. 166 del 2012, n. 525 del 2000, n. 211 del 1997, n. 409 del 1995)».

12. Anche con riferimento alla questione incentrata sulla violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione, valgono le considerazioni svolte dalla prima Sezione questo Tribunale.

In particolare, nella suddetta ordinanza n. 5715 del 2015 è stato evidenziato che «le descritte finalità di contenimento, trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica determinano, non irragionevolmente, una progressiva decurtazione, disciplinata ex lege, dei possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato, indifferenziatamente applicata a tutti i compensi comunque posti a carico della finanza pubblica, senza che ciò possa generare, proprio per la sua trasversalità, indebite disparità di trattamento, divenendo quindi non rilevante, ai fini del giudizio a quo, la sua invocata qualificazione quale imposizione fiscale, che sembra comunque doversi escludere, in quanto la legge, in estrema sintesi, pone un "tetto" a regime all'erogazione a chiunque di somme a titolo retributivo e pensionistico poste a carico della finanza pubblica, anziché imporre un prelievo forzoso sulle somme percepite dal singolo interessato oltre il tetto prefissato». 

13. Non manifestamente infondate, risultano invece le questioni di legittimità costituzionale incentrate sulla violazione degli articoli 3, 4, 36 e 38 Cost., degli articoli 3, 95 e 97 Cost., nonché degli articoli 100, 101, 104 e 108 Cost. Il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta infatti che la remunerazione della funzione di Consigliere di Stato risulti fortemente ridotta o del tutto azzerata, con una corrispondente decurtazione dei contributi previdenziali e, di conseguenza, del trattamento pensionistico derivante dall'accumulo di tale montante contributivo, sì da determinare: 

A) una violazione del diritto al lavoro e ad una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità» del lavoro prestato;

B) una disparità di trattamento fra soggetti che svolgono la medesima attività ed una irrazionale organizzazione della Giustizia amministrativa;

 C) un indebolimento delle garanzie di indipendenza nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali. 

14. In particolare, con riferimento alla prospettata violazione degli articoli 3, 4, 36 e 38 Cost., nella suddetta ordinanza n. 5715 del 2015 è già stato posto in rilievo quanto segue:

«il Collegio ritiene che debba essere preso in considerazione non il pur elevatissimo standard qualitativo dell'attività svolta da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione di assoluta eccellenza per aver ricoperto in anni di servizio alle dipendenze dello Stato cariche apicali (avendo di conseguenza maturato l'elevato trattamento pensionistico "causa" del taglio del compenso), in quanto ciò potrebbe giustificare anche un incarico "onorario", in ipotesi anche gratuito, bensì la circostanza dello svolgimento continuativo, con lo stabile ed organico inserimento nel relativo organico e con particolari garanzie di stabilità, della funzione di Consigliere della Corte dei conti, con l'assunzione da parte degli interessati di tutte le connesse prerogative e delicate e - non da oggi - rilevanti responsabilità, di natura professionale e civile, per il proprio operato. I tratti fondamentali dell'attività professionale stabilmente svolta dai ricorrenti, a seguito della nomina alla Corte dei Conti, sotto la propria responsabilità e con pieno inserimento organico, nell'ambito di una "magistratura togata" vale dunque a configurare l'esercizio di una vera e propria e stabile attività lavorativa professionale, differenziando la fattispecie in esame dai numerosi casi di svolgimento (talvolta essenzialmente gratuito) di pubblici uffici "onorari", di volta in volta motivati da alte e peculiari competenze (come accade per i Tribunali per i minori) o da meccanismi di sorteggio nell'ambito di platee in possesso di particolari requisiti (come accade per le giurie popolari), anche ai fini dell'esercizio della sovranità popolare (come accade per i seggi elettorali)»; inoltre, «la scelta dello Stato, mediante la disposizione di legge in esame, di continuare ad avvalersi del pieno apporto professionale dei ricorrenti (nulla la norma dicendo al riguardo, salve le loro eventuali dimissioni per evitare, in applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, di prestare attività lavorativa non retribuita o retribuita in maniera estremamente esigua), anziché disciplinare normativamente l'ipotesi in esame (ad esempio, prevedendo la incompatibilità o decadenza ovvero una opzione per funzioni differenziate con minore compenso o del tutto onorarie e gratuite) e al tempo stesso di "di auto-esonerarsi" in tutto o in parte dalla loro retribuzione (non ponendo la norma alcuna deroga al tetto a tale riguardo), pur avendo esso Stato chiesto agli interessati di svolgere tale funzione mediante la proposta di nomina alla funzione (retribuita) di Consigliere della Corte dei Conti - dichiaratamente motivata dalla loro eccellenza professionale in ragione della delicatezza e quindi dell'impegno delle funzioni da svolgere - appare costituzionalmente irragionevole, con la conseguente possibile violazione dell'art. 36, primo comma, della Costituzione, quanto al diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità (oltrechè alla qualità) del lavoro, nonché, indirettamente, dell'art. 38 della Costituzione, in quanto la drastica riduzione o addirittura l'azzeramento della retribuzione - e quindi della relativa contribuzione - precludono la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall'ordinamento». 

Alla luce di tali condivisibili considerazioni, al Collegio resta solo da evidenziare che le stesse valgono evidentemente anche per il ricorrente.

 Difatti egli, attraverso la propria, pregressa esperienza, ha maturato un trattamento pensionistico di ammontare prossimo al tetto di 240.000,00 euro e, quindi, si troverebbe a dover svolgere una funzione di cruciale importanza e di grande responsabilità - qual è quella di Consigliere di Stato - percependo una retribuzione esigua o addirittura azzerata.

15. Relativamente alla prospettata violazione degli articoli 3, 95 e 97 Cost., il Collegio osserva poi che anche per i Consiglieri Stato di nomina governativa, del tutto equiparati ai Consiglieri Stato vincitori di concorso e a quelli provenienti dati Tribunali Amministrativi Regionali, valgono le seguenti considerazioni, svolte nell'ordinanza n. 5715 del 2015: «premessa la determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità in modo indifferenziato per i Consiglieri di concorso ovvero di nomina governativa, la disposizione di legge che pone il tetto retributivo e pensionistico - e quindi differenzia nell'ambito di questi ultimi fra quelli retribuiti, ovvero privi di retribuzione a seguito del raggiungimento del tetto, senza disciplinare la loro sorte - potrebbe essere ritenuta suscettibile di determinare, da un lato, una ingiustificata disparità di trattamento quanto alla retribuzione ovvero mancata retribuzione della medesima attività professionale, e, dall'altro, una irragionevole organizzazione contraria al buon andamento amministrativo mediante l'indifferenziato affidamento, a titolo oneroso ovvero a titolo gratuito, di funzioni di dichiarata rilevanza, impegno e delicatezza, atteso che anche la retribuzione dei funzionari pubblici deve rispondere - alla stregua del Trattato, della Convenzione europea e degli articoli 36 e 97 della Costituzione - ad un rapporto sinallagmatico ("proporzionato") riguardo alla quantità e qualità del lavoro svolto, non potendo quindi essere considerati fungibili il trattamento pensionistico per un'attività precedente e il compenso per un'attività in atto, ove consentita nell'ambito dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione». 

16. Non manifestamente infondata appare infine la questione incentrata sulla violazione degli articoli 100, 101, 104 e 108 Cost., in ragione del possibile vulnus allo status di indipendenza ed autonomia dei magistrati, protetto dalle predette disposizioni costituzionali.

 Infatti, «la Corte costituzionale, nel decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e la disciplina dell'adeguamento retributivo dei magistrati, ha affermato che l'indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante l'apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti concernenti, fra l'altro, la progressione in carriera ed il trattamento economico (così, fra le altre, sentenza n. 1 del 1978) che, in un assetto costituzionale dei poteri dello Stato che vede la magistratura come ordine autonomo ed indipendente, non possono esaurirsi in un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto (Corte cost., sent. n. 223 del 2012)» (ordinanza n. 5715/2015, cit.). 

17. Quanto appena argomentato giustifica la valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in relazione agli articoli 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.

 Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale affinché si pronunci sulla questione.

 

P.Q.M.

 

Non definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in premessa, così dispone:

1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, in relazione agli articoli 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione;

2) dispone la sospensione del presente giudizio e ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

3) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica;

 4) riserva al definitivo ogni statuizione in rito, nel merito e sulle spese.

 

---

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 28 settembre 2016, n. 39