Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 novembre 2017, n. 51603

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Reato di distrazione di beni aziendali - Imputazione dell’amministratore unico - Riconoscimento del beneficio di non menzione della condanna - Omessa indicazione in dispositivo - Correzione

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte d'appello di Milano ha, con la sentenza impugnata, confermata quella emessa dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Monza, che aveva, all'esito di giudizio abbreviato, condannato T.M. per la distrazione di beni della F.P. srl, dichiarata fallita il 16/2/2005 (artt. 110 e 216 della legge fall.).

Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici di merito, il T., amministratore unico della società dall'1/3/2000 al 5/3/2003, distrasse, in concorso con altri soggetti, giudicati separatamente, stampi del valore di £ 100 milioni, ceduti in comodato gratuito alla C. srl con scrittura dell'11/9/2001 e non consegnati al curatore, nonché macchinari del valore di 420 milioni di lire, pure ceduti - con scrittura dal 18/11/2000 - alla C. e mai pagati dall'acquirente (il credito della F.P. fu pretestuosamente compensato con debiti verso la controparte).

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato con quattro motivi.

2.1. Col primo lamenta una mancanza e contraddittorietà di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell'imputato, affermata in entrambi i gradi di merito nonostante fosse stato dato atto - in sentenza - che a disporre dei beni erano stati il procuratore della società (C.G.) ed "il reale ed unico dominus della società" (C.P.), giacché, dal momento in cui questi ultimi erano entrati in società (alla fine degli anni '90) "la posizione di T. si era ridotta a mera presenza fisica". L'affermazione di responsabilità di T. appare ancora più irragionevole - aggiunge il ricorrente - se valutata alla stregua della decisione assunta su M.M., che, seppur trovatasi nella stessa posizione di T., è stata assolta già in primo grado in applicazione del principio giurisprudenziale concernente l'amministratore apparente.

2.2. Col secondo lamenta un vizio di motivazione con riguardo all'elemento soggettivo, ritenuto sussistente - dai giudicanti - nella forma del dolo nonostante fosse stato dimostrato che i due contratti erano stati ideati, predisposti e gestiti da C.P. e nonostante la "effettività" dei debiti compensati e la realizzazione - nella successiva vendita - di una plusvalenza a favore della società fallita.

2.3. Col terzo si duole della erronea applicazione dell'art. 216 legge fall, e di una mancanza di motivazione in ordine alla qualificazione di uno dei due fatti contestati (quello relativo alla cessione dei macchinari del valore di 420 milioni di lire). In tal caso, deduce, non è stato spiegato perché l'ipotesi inizialmente formulata dal Pubblico Ministero nel capo d'imputazione (ove si parla, in via subordinata, di bancarotta preferenziale) non è stata ritenuta sussistente.

2.4. Col quarto lamenta che il dispositivo della sentenza d'appello non riporti il beneficio della non menzione della condanna, nonostante lo riconosca in parte motiva.

3. In udienza il difensore di T. ha poi eccepito la intervenuta prescrizione del reato.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso merita accoglimento limitatamente al trattamento sanzionatorio; è inammissibile nel resto.

1. Il primo motivo è infondato in fatto ed errato in diritto. L'amministratore di diritto (o formale) è cosa diversa dall'amministratore apparente, giacché il primo è il titolare, in base allo statuto dell'impresa, dei poteri di gestione, che esercita concretamente; il secondo è una mera testa di legno, collocato al vertice della società per le ragioni più disparate, ma sempre per consentire ad altri di gestire l'impresa senza esporsi personalmente. La sentenza - non smentita sul punto - chiarisce che i contratti incriminati, attraverso cui fu operata la spoliazione della società, furono posti in essere quando T. rivestiva la carica di amministratore e che furono da lui firmati, sicché è da escludere che egli sia rimasto estraneo alle attività che depauperarono il patrimonio sociale. Né la dedotta esclusione può dirsi conseguenza del fatto che, a partire dal 2000, l'impresa fu pesantemente condizionata dall'operato di C.P., ritenuto (anche in sentenza) amministratore di fatto della società, giacché nessun argomento (significativo) è stato dedotto per dimostrare che T. sia stato - a seguito dell'ingresso di C. in società - esautorato senza sua colpa dalla gestione societaria e che i contratti di cui si discute siano venuti ad esistenza senza il suo contributo (chiaramente - sottolinea la Corte di merito - la sottoscrizione degli stessi da parte di T. dimostra il contrario). Solamente assertiva, invero, è la deduzione difensiva che T. sia diventato, a seguito dell'ingresso di C.P. (e del figlio di quest'ultimo) in società, un "manichino senza volontà e senza possibilità di ribellarsi nelle mani di soggetti dediti al malaffare", trattandosi di affermazione campata in aria, smentita dalla assenza di qualsiasi atto costrittivo posto in essere da C. e compagni (nemmeno il difensore ne parla), nonché dalla partecipazione di T. alla conclusione degli "affari" per cui è processo. Trattasi di affermazione, del resto, in contrasto logico con la profonda conoscenza che T. aveva delle dinamiche societarie (lo stesso difensore ricorda che, "fino a quando T. ha potuto occuparsi in prima persona della gestione della società, ossia fino all'anno 1999-2000, la situazione economico patrimoniale della F.P. era, se non florida, certamente normale"): il che conferma che egli era ben consapevole della rilevanza dei negozi da lui sottoscritti e dei riflessi che avevano sulla vita della società.

La decisione dei giudici di merito, infine, non è - contrariamente all'assunto del ricorrente - in contrasto con l'assoluzione di M. dalla medesima imputazione, per la semplice e ovvia ragione che M. non sottoscrisse i negozi in questione, né era amministratrice quando vennero ad esistenza (M. - ricorda la sentenza - è stata amministratrice a partire dal 5 marzo 2003). Del tutto infondata, quindi, è la deduzione difensiva che i due si trovassero nella stessa situazione giuridica.

2. Il secondo e il terzo motivo (il terzo e il quarto per il ricorrente) sono parimenti inammissibili, perché ripropongono - senza argomenti ulteriori, rispetto a quelli già esaminati, e senza congruenza argomentativa - la tesi della estraneità di T. alla conclusione dei negozi per cui è processo e perché sono basati su una ricostruzione alternativa dell'occorso. Il fatto che i contratti siano stati predisposti da C. non toglie - invero - che furono da T. firmati, mentre la "effettività" dei debiti di F. verso C. (debiti compensati con i crediti sorti dai negozi incriminati) continua ad essere assertiva, laddove la sentenza impugnata ribadisce che si tratta di crediti (della C.) mai documentati (pag. 2). Ed assertiva - e persino incomprensibile - è la deduzione che "le dette macchine siano state vendute a prezzi in linea o addirittura superiori ai valori di una perizia asseverata (in atti), così procurando anche una plusvalenza per F.", laddove non è specificato di quale perizia si tratti e se i suoi risultati siano stati spesi dinanzi ai giudici di merito (in particolare, dinanzi al giudice d'appello). Tanto, a prescindere dal fatto che l'inesistenza - perché non provata - di una situazione debitoria in capo alla F. toglie qualsiasi rilevanza alle risultanze della perizia richiamata dal ricorrente.

Quanto all'elemento soggettivo richiesto per la bancarotta distrattiva, va rammentato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il delitto di bancarotta patrimoniale per distrazione è integrato dal dolo generico, ovvero dalla consapevole volontà dei singoli atti di sottrazione, occultamento o distrazione e, comunque, di quegli atti con i quali si viene a dare la patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa, con la consapevolezza di compiere atti che cagionano, o possono cagionare, danno ai creditori (Cass., SU, n. 22474 del 31/3/2016, rv 266805; sez. 5, n. 52077 del 4/11/2014, rv 261348; sez. 5, n. 11899 del 14/1/2010, rv. 246357). Nessun rimprovero può essere mosso - nella specie - ai giudici di merito, che l'hanno ravvisato nella palese diseconomicità dei contratti, rilevabile ad una semplice prima lettura del loro contenuto, atteso che F. si gravava, con essi, di costi e si spogliava di beni necessari alla prosecuzione dell'attività produttiva, in un'epoca in cui lo stato di insolvenza si era già ampiamente palesato (pag. 3).

3. Non ha fondamento l'eccepita prescrizione del reato, dedotta in udienza dinanzi a questa Corte, giacché il reato, commesso il 16/2/2005, si prescriverà solo in data 27/9/2017. Alla prescrizione ordinaria (16/8/2017) occorre aggiungere, infatti, 42 giorni di sospensione dovuta al rinvio dell'udienza del 30/9/2015, disposto per impedimento del difensore.

4. E' fondato, invece, l'ultimo motivo di ricorso, in quanto, effettivamente, la sentenza rivela, in parte motiva, la volontà della Corte d'appello di concedere all'imputato il beneficio della menzione della condanna: volontà non esplicitata nel dispositivo. Trattasi di errore che può essere rimediato in questa sede, attraverso apposita pronuncia.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla non menzione della condanna, beneficio che concede. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.