Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 novembre 2017, n. 27325

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Cessione di ramo d'azienda - Ridimensionamento dell'organico aziendale - Mancata prova - Volontà vessatoria, in termini mobbing

 

Fatti di causa

 

1. All'esito delle sentenze n. 156/12 e n. 214/13 - rispettivamente non definitiva e definitiva - il Tribunale di Trieste, accertata la nullità del licenziamento intimato il 28.2.09 a M.M. da F. S.r.l. (società operante nel settore turistico-alberghiero), condannava quest'ultima a ripristinare il rapporto di lavoro con la dipendente e a pagarle le retribuzioni globali di fatto dal 15.4.09 sino al ripristino del rapporto medesimo, nonché a pagarle a titolo risarcitorio la somma di € 96.263,82 per danni patrimoniali e quella di € 70.821,00 per danni non patrimoniali, danni tutti sofferti a seguito del mobbing attuato da parte datoriale.

2. Con sentenza pubblicata il 23.7.15 la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma di quella di primo grado, riduceva il risarcimento dei danni patrimoniali a € 66.521,43 (pari alle retribuzioni maturate dalla messa in mora fino alla data dell'opzione sostitutiva della reintegra manifestata dalla lavoratrice), oltre alle conseguenti differenze sul TFR, e riduceva altresì il risarcimento dei danni non patrimoniali a complessivi € 34,225,00, confermando nel resto le statuizioni di prime cure.

4. Per la cassazione della sentenza ricorre F. S.r.l. affidandosi a sette motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

5. M.M. resiste con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1.1. Il primo motivo prospetta violazione degli artt. 342, 346 e 112 cod. proc. civ., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che non fosse stato oggetto di specifica censura il punto della pronuncia di primo grado in cui il Tribunale aveva asserito che la mera cessione di ramo d'azienda da parte della società non potesse integrare motivo di licenziamento: obietta a riguardo F. S.r.l. che, in realtà, l'affermazione del primo giudice era stata specificamente impugnata con il dire che il motivo del licenziamento di M.M. non risiedeva nell'avvenuta cessione del ramo d'azienda cui era preposta la lavoratrice (come malamente interpretato dai giudici d'appello), bensì in una dimostrata perdita di ricavi tale da imporre il ridimensionamento dell'organico aziendale, con conseguente cessione a terzi del ramo d'azienda non più gestibile.

1.2. Il secondo motivo denuncia omesso esame d'un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, consistente nello stato di crisi che aveva investito il ramo d'azienda (ristorante) cui era preposta la lavoratrice.

1.3. Con il terzo motivo ci si duole di violazione dell'art. 111, comma 6, Cost. e dell'art. 132 cod. proc. civ., nella parte in cui la Corte territoriale è incorsa in un'illogicità della motivazione affermando dapprima la mancanza di prova del giustificato motivo oggettivo del licenziamento e, poi, la nullità del licenziamento stesso perché affetto da motivo (vessatorio) illecito.

1.4. Con il quarto motivo si lamenta omesso esame d'un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, consistente nel processo riorganizzativo che nel febbraio 2009 aveva indotto la società ricorrente a far cessare l'attività di ristorazione previa cessione a terzi del relativo ramo d'azienda.

1.5. Il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1345 e 1324 cod. civ. e 111, comma 6, Cost., per avere la Corte territoriale trascurato che in tanto un eventuale motivo illecito del licenziamento può renderlo nullo in quanto sia unico (oltre che determinante), mentre nel caso di specie la tempestiva allegazione da parte della società del predetto giustificato motivo oggettivo (ossia la sopra descritta riorganizzazione aziendale) era tale da impedire ogni rilevanza invalidante al motivo illecito ravvisato dai giudici di merito.

1.6. Il sesto motivo denuncia violazione degli artt. 342, 346 e 112 cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che il capo della pronuncia di primo grado che aveva riconosciuto alla lavoratrice il danno da invalidità temporanea parziale non fosse stato impugnato, nonostante che esso - in realtà - fosse stato investito da apposita censura nell'atto di gravame.

1.7. Con il settimo motivo ci si duole di violazione dell'art. 115 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale - travisando le risultanze istruttorie e quelle di entrambe le consulenze tecniche d'ufficio acquisite - ravvisato un nesso causale tra le denunciate condotte di mobbing ai danni della lavoratrice e il disturbo depressivo da lei sofferto.

2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Invero, al di là della più o meno esatta interpretazione, da parte della Corte territoriale, delle censure contenute nell'atto d'appello di F. S.r.l., resta il rilievo dirimente che i giudici d’appello non solo hanno ritenuto in punto di fatto non provato il dedotto giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ma ne hanno ravvisato un'ulteriore concorrente ragione di invalidità (a parte il motivo illecito: su ciò v. meglio infra) nella mancanza di prova dell'impossibilità d'un diverso utilizzo della lavoratrice in altre mansioni, oltre che nell'omesso rispetto dei principi di correttezza e buona fede nella scelta dei lavoratori da licenziare.

Costituendo - queste ultime - ulteriori e autonome rationes decidendi della sentenza impugnata, nel caso di specie trova applicazione la costante giurisprudenza di questa S.C. secondo cui, ove venga impugnata una statuizione fondata su più ragioni argomentative, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura; diversamente, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza (v., ex aliis, Cass. 25.2.13 n. 4672; Cass. 3.11.11 n. 22753 e Cass. S.U. 8.8.2005 n. 16602).

2.2. Il secondo e il quarto motivo di ricorso - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - sono infondati.

In realtà la sentenza impugnata ha esaminato il fatto consistente nel dedotto stato di crisi del ramo d’azienda in cui lavorava l'odierna controricorrente, solo che l'ha ritenuto sfornito di prova e, comunque, superato dai rilievi ricordati nel paragrafo che precede sub 2.1. (vale a dire mancata prova dell'impossibilità d’una diversa utilizzazione della lavoratrice e violazione dei principi di correttezza e buona fede nella scelta dei lavoratori da licenziare).

Le ulteriori argomentazioni che si leggono nel motivo di ricorso - e che lamentano un'errata od incompleta lettura delle risultanze di causa da parte dei giudici d'appello - si collocano al fuori del novero dei motivi di censura spendibili ex art. 360 co. 1° cod. proc. civ. e, segnatamente, di quello di cui al relativo n. 5.

Infatti, la nuova formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell'art. 54, co. 3°, d.l. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 in poi e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata) rende denunciabile per cassazione solo il vizio di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

In tal modo il legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all'originaria formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. del codice di rito del 1940.

Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell'interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di <<minimo costituzionale>>, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c.

Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Per l'effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.

Secondo le S.U., l'omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).

Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche l'omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria come astrattamente rilevanti.

A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).

Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.

L'omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell'ottica della sentenza n. 8053/14 come il "tassello mancante" (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

Invece, con il motivo in esame in sostanza si lamentano vizi di motivazione che non sarebbe stati denunciabili neppure alla luce del previgente testo dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c.: in realtà la censura suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata; ma non può il ricorso per cassazione enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un'operazione che suppone pur sempre un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità.

2.3. Il terzo motivo è da disattendersi, vuoi per le considerazioni già espresse nel paragrafo che precede sub 2.2. vuoi perché la sentenza impugnata non ha affatto ricavato il motivo illecito del licenziamento quale conseguenza inferenziale della mancanza di prova del giustificato motivo oggettivo, ma si è limitata a notare che, mentre tale prova è mancata, dall'istruzione di causa è invece emersa la prova positiva della volontà vessatoria in termini di mobbing (in quanto tale illecita) della società, poi sfociata nel recesso di cui si controverte.

2.4. Il quinto motivo è infondato.

È pur vero che la rilevanza del motivo illecito determinante ex art. 1345 cod. civ., ma non anche necessariamente unico, a fini di nullità del licenziamento è stata prevista soltanto con il nuovo testo dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012), mentre nel caso di specie trova applicazione ratione temporis il previgente testo dell'art. 18 cit.

Nondimeno, dalla lettura complessiva della sentenza impugnata emerge che i giudici d'appello hanno ritenuto che, mentre non era stato provato il giustificato motivo oggettivo dedotto dalla società, era emerso (come si è già detto) che il vero motivo del licenziamento risiedeva soltanto in una volontà vessatoria (in termini di vero e proprio mobbing) nei confronti dell'odierna controricorrente.

In altre parole, affinché resti escluso il carattere unico e determinante del motivo illecito ex art. 1345 cod. civ. non basta che il datore di lavoro alleghi l'esistenza d'un giustificato motivo oggettivo, ma è necessario che quest'ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito parimenti emerso all'esito di causa.

Nella vicenda in oggetto è stato positivamente dimostrato soltanto il motivo illecito, mentre non è emersa prova di quello lecito (il giustificato motivo oggettivo allegato dalla società).

2.5. Il sesto motivo è infondato perché deriva da un’errata lettura della sentenza d'appello.

In essa la Corte territoriale, nel momento in cui, nel confermare la liquidazione del danno da invalidità temporanea, afferma che la relativa statuizione non è stata impugnata, chiaramente si riferisce non all'appellante (vale a dire a F. S.r.l.), ma all'appellata (v. pag. 37), ossia a M.M. (che - appunto - non aveva impugnato né tale liquidazione né altra statuizione emessa dal primo giudice).

2.6. Anche il settimo motivo si colloca al di fuori del novero delle censure che possono farsi valere ex art. 360 co. 1° cod. proc. civ., perché sostanzialmente sollecita - ad onta del richiamo normativo in esso contenuto - un nuovo apprezzamento in punto di fatto delle risultanze istruttorie.

Valgano in proposito le medesime considerazioni già svolte nel paragrafo che precede sub 2.2.

3.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.