Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 luglio 2016, n. 15548

Tributi - IVA - Credito esposto in dichiarazione in misura superiore a quella spettante - Riporto nella dichiarazione dell’anno successivo nella misura corretta - Assenza di danno per l’Erario - Annullamento cartella esattoriale

 

Svolgimento del processo

 

L'Agenzia dalle Entrate propone ricorso per cassazione con due motivi nei confronti della sentenza della Commissione tributarla regionale della Lombardia che, rigettandone l'appello, per quel che ancora rileva ha confermato l'annullamento della cartella di pagamento, emessa nei confronti della spa R.R.E., a seguito della liquidazione dell'IVA in base alla dichiarazione per il 2000, nella quale la contribuente aveva ammesso di avere esposto per errore un credito di imposta superiore a quello effettivamente vantato.

Secondo il giudice d'appello, "la contribuente, pur avendo ammesso tali errori, nel corso del primo grado aveva dimostrato sul piano sostanziale la non debenza della soma addebitatagli"; nella dichiarazione relativa al successivo periodo d'imposta era stato infatti riportato il credito d'imposta corretto, sicché "il computo degli importi era ritornato in pareggio, e pertanto nessun danno si era concretizzato a favore dell'erario. Conclusivamente ... ai fini della conferma della sentenza impugnata, rilevava il principio sancito dall'art. 10, comma 1, della legge n. 212 del 2000", secondo cui i rapporti fra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

La società contribuente resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Va anzitutto disattesa l'eccezione, sollevata dalla controricorrente, di inammissibilità del ricorso per cassazione per tardività. L'atto di impugnazione della sentenza, depositata il 2 ottobre 2008, risulta dal "cronologico" tempestivamente affidato per la notifica (alla società, elettivamente domiciliata presso lo studio carbone e associati in via (...) Milano), in data 16 novembre 2009, dall'avvocato dello Stato all'ufficiale giudiziario; non essendo stato consegnato il plico "per irreperibilità del destinatario", la notifica al medesimo indirizzo era nuovamente richiesta ed il successivo 18 dicembre 2009 l'atto veniva regolarmente consegnato a mani della impiegata dipendente A.M..

Con il primo motivo l'amministrazione ricorrente denuncia la nullità della sentenza per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo, in quanto "dopo che la CTP aveva annullato la cartella per un vizio di notifica, dichiarando assorbita ogni altra censura, e che l'ufficio aveva proposto appello censurando tale statuizione nonché riproponendo le difese di merito, la detta sentenza, accolto il motivo d'appello inerente il vizio di notifica (che riteneva sanato con la proposizione del ricorso), aveva deciso la controversia nel merito in senso sfavorevole all'amministrazione finanziaria e si era conclusa con un dispositivo in cui "confermava la sentenza di primo grado".

La censura è infondata, ove si consideri che "sussiste un contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, ai sensi degli artt. 156 e 360 n. 4 cod. Proc. civ., nel caso in cui il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale, non essendo possibile ricostruire la statuizione del giudice attraverso il confronto tra motivazione e dispositivo, mediante valutazioni di prevalenza di una delle affermazioni contenute nella prima su altre di segno opposto presenti nel secondo" (Cass. n. 15990 del 2014).

La chiara e articolata motivazione della sentenza consente infatti di comprendere prima facie che con l'espressione "conferma la sentenza di primo grado" il giudice d'appello non ha inteso confermare l'annullamento della cartella di pagamento per la sua "illegittima notificazione", ma, una volta ritenuto, in accoglimento del motivo dell'ufficio finanziario, che detta nullità era stata sanata, ha "confermato" l'annullamento della cartella per ragioni diverse, dopo essere passata all'esame del merito, ed aver accolto sul punto l'originaria domanda della contribuente e disatteso le difese dell'ufficio.

Con il secondo motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 8 bis, e dell'art. 6, comma 6 bis, del d.P.R. n. 322/98, anche in combinato disposto con l'art. 10, comma 1, della legge n. 212/00, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.", l'amministrazione ricorrente sostiene che, "assumendo la contribuente di aver commesso errori nella dichiarazione IVA per il 2000, e contestando essa l'iscrizione a ruolo delle maggiori imposte richiestele in base a quella dichiarazione perché alla correzione dei dati erronei avrebbe provveduto riportando le cifre corrette nella dichiarazione per l'anno successivo, il Giudice d'appello che annulli la ripresa ritenendo valida tale forma di ritrattazione della dichiarazione applicherebbe in modo erroneo la generale clausola di buona fede di cui all'art. 10 l. 212/00 ed il principio di diritto posto dall'art. 2 co. 8 bis del d.P.R. 322/98, applicabile anche in materia di IVA, per cui la correzione di errori ed omissioni finalizzata a favorire il contribuente deve avvenire entro il termine perentorio fissato per la presentazione della dichiarazione relativa all'anno successivo e con le modalità previste nella disposizione medesima".

Il motivo è inammissibile perché corredato di un quesito di diritto - appena riportato - inidoneo alla stregua dell'art. 366 bis cod. proc. civ., in quanto non pertinente rispetto al caso in esame, e quindi malamente riferito alla fattispecie concreta.

La previsione dell'invocato art. 2, comma 8 bis, del d.P.R, n. 322 del 1998, del quale l'Agenzia delle entrate lamenta la violazione, non può infatti trovare applicazione nella fattispecie, che concerne un errore determinante un maggior credito del contribuente, in quanto relativa all'ipotesi di errore nella dichiarazione "che abbia determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito".

in conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 5.000 per compensi di avvocato, oltre a spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.