Giurisprudenza - CORTE DI APPELLO GENOVA - Sentenza 21 novembre 2017, n. 498

Assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori - Art. 65, D.Lgs. n. 448/1998 - Rigetto dell’istanza - Cittadino di Paese terzo - Titolare di un permesso unico di lavoro - Diritto alla parità di trattamento ex art. 12 della Direttiva 2011/98/UE - Sussiste - Carattere discriminatorio della condotta dell’Inps

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso innanzi al Tribunale di Genova, in funzione di giudice del lavoro, M.S.K.D.R. proponeva "azione civile contro la discriminazione", ai sensi degli artt. 28 del decreto legislativo n. 150/2011 e 44 del T.U. Immigrazione, denunciando il carattere discriminatorio della condotta tenuta nei suoi confronti dal Comune di Genova; condotta consistente nell’aver rigettato la sua istanza volta ad ottenere l’assegno di cui all’art. 65 del decreto legislativo n. 448/1998 (ndr: art. 65 della legge n. 448/1998).

Richiamando innanzitutto il quadro normativa di riferimento, la ricorrente esponeva che:

- l’art. 65 del decreto legislativo n. 448/1998 (ndr l’art. 65 della legge n. 448/1998) ha introdotto una prestazione sociale denominata "assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori" in favore dei nuclei familiari composti da cittadini italiani, residenti, con tre o più figli di età inferiore ai 18 anni titolari di redditi inferiori a un determinato valore ISE;

- l’erogazione della prestazione suddetta è regolata dal D.M. n. 452/2000, a norma del quale: la domanda volta ad ottenere la prestazione va presentata, da uno dei genitori, al Comune di residenza entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello per cui il beneficio viene richiesto (art. 16); il beneficio decorre dal 1° gennaio dell’anno in cui si verificano i requisiti di reddito richiesti (art. 14); il pagamento viene effettuato dall’Inps entro 60 giorni dal ricevimento dei dati da parte del Comune, il quale deve inviarli almeno 45 giorni prima della scadenza del semestre (art. 20);

- per l’anno 2014 il limite di reddito è stato fissato in € 25.384,91 e l’importo mensile in € 141,02 (v. Circolare Inps n. 29 del 27 febbraio 2014);

- con l’art. 80 della legge n. 388/2000 l’accesso alla prestazione è stato esteso ai cittadini comunitari;

- con Circolare n. 9 del 22 gennaio 2010 l’Inps ha riconosciuto tale diritto anche ai cittadini di paesi terzi titolari dello status di rifugiato politico o della protezione sussidiaria in base alla previsione dell’art. 27 del decreto legislativo n. 251/2007, il quale, recependo la direttiva CE n. 2004/83, ha stabilito il diritto di costoro di godere del medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria;

- con la legge n. 97/2013 il beneficio è stato esteso ai titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo ed ai familiari dei cittadini comunitari.

Tutto ciò premesso, la ricorrente riferiva di aver richiesto al Comune di Genova l’erogazione della prestazione suddetta relativamente all’anno 2014, domanda che le era stata rigettata con la seguente motivazione: "la S.V. non è in possesso di carta di soggiorno/permesso soggiornanti di lungo periodo C.E. come previsto dall’art. 13 della Legge n. 97/2013".

Secondo la ricorrente tale diniego era illegittimo in quanto contrastante con la Direttiva 2011/98 UE, che, all’art. 12, prevede il diritto dei cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi di beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale, come definiti dal regolamento CE 883/2004; regolamento, quest’ultimo, che all’art. 3 indica, tra le varie prestazioni assistenziali e previdenziali, i "trattamenti di maternità e paternità assimilati" (lett. b) e le "prestazioni familiari" (lett. j), comprendendo dunque anche l’assegno per cui è causa. Rilevava inoltre che con il decreto legislativo n. 40/2014 lo Stato italiano aveva recepito in parte il contenuto della Direttiva 2011/98 UE introducendo la nozione di "permesso unico lavoro", che raggruppa tutte le tipologie di permesso che consentono il lavoro; non aveva, però, trasposto il dettato dell’art. 12 cit., omettendo dunque di garantire la parità di trattamento ivi prevista. Essendo ormai scaduto (il 25 dicembre 2013) il termine per il recepimento, la Direttiva doveva essere applicata direttamente nell’ordinamento italiano, quantomeno nei rapporti verticali, con conseguente disapplicazione delle norme nazionali eventualmente contrastanti.

Si costituiva in giudizio l’Inps il quale eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva avendo, nella procedura di erogazione della prestazione de qua, un ruolo di mero adiectus solutionis causa. In via subordinata eccepiva l’inammissibilità del ricorso affermando che il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. non è compatibile con i procedimenti di cognizione soggetti al rito del lavoro.

Nel merito, l’Istituto contestava che potesse ravvisarsi la sussistenza di un comportamento discriminatorio ai sensi dell’art. 44 del decreto legislativo n. 286/1998 giacché la discriminazione, qualora effettivamente sussistente, era riconducibile ad una norma di legge. Osservava inoltre che all’assegno in questione non poteva attribuirsi natura di prestazione essenziale (cioè necessaria a soddisfare bisogni primari inerenti alla sfera di tutela della persona umana), non essendo dunque invocabili le norme costituzionali richiamate dalla ricorrente. Rilevava poi che il regolamento (CE) 859/2003, nel 12° considerando, afferma il principio secondo cui le disposizioni del regolamento (CEE) 1408/71 non possono applicarsi alle situazioni i cui elementi si collochino tutti all’interno di un solo Stato membro; principio, questo, ribadito dall’art. 1, ultima parte, del Regolamento predetto; con la conseguenza che il citato regolamento non poteva essere invocato in quanto la situazione della ricorrente presentava una relazione oggettiva con un solo Stato membro. In ogni caso, anche volendo interpretare analogicamente la nozione di sicurezza sociale di cui alla Reg. (CEE) 1408/71, tale opzione ermeneutica non poteva comportare il riconoscimento in favore della ricorrente della prestazione richiesta, posto che tra le prestazioni speciali in denaro a carattere non contributivo di cui all’art. 4 ed allegato II-bis, lett. j), del Regolamento non è contemplata alcuna misura sostegno della famiglia e del reddito familiare.

L’Inps formulava inoltre domanda di chiamata in causa ovvero domanda riconvenzionale condizionata all’esito del giudizio, chiedendo la condanna del Comune di Genova a tenerlo indenne dal pagamento delle somme eventualmente da corrispondersi alla ricorrente.

Costituitosi a sua volta, il Comune di Genova resisteva contestando la sussistenza della condotta discriminatoria. Rilevava inoltre che la propria interpretazione della normativa di riferimento era stata condivisa dall’Inps il quale, nel fornire le istruzioni applicative, aveva escluso che fossero destinatari del beneficio i cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno di lungo periodo. Aggiungeva che, in ogni caso, un eventuale accoglimento della domanda non avrebbe potuto comportare il riconoscimento dell’assegno anche per gli anni successivi al 2014, essendo prevista la proposizione di una specifica domanda anno per anno. Infine, il Comune dichiarava che nell’ipotesi di accoglimento della domanda vi si sarebbe conformato anche in assenza di un’espressa pronuncia ordinatoria.

Il Tribunale con ordinanza del 18 agosto 2015 rigettava il ricorso compensando integralmente le spese di lite.

In motivazione dichiarava, preliminarmente, la sussistenza del litisconsorzio necessario dei due convenuti: il Comune di Genova quale soggetto legittimato alla concessione della prestazione richiesta e l’Inps quale erogatore della prestazione stessa. Venendo al merito, rilevava che l’art. 13 della Direttiva (UE) 98/2011, nello stabilire il principio di parità di trattamento dei cittadini dei paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi per quanto concerne determinati settori, tra cui quello della sicurezza sociale, contiene un richiamo alla definizione di "settori della sicurezza sociale" di cui al regolamento (CE) 883/2004, il quale contiene disposizioni di tipo programmatico prive di sufficiente precisazione e, comunque, non incondizionate. Faceva inoltre presente che la Corte Costituzionale, decidendo una pluralità di fattispecie aventi ad oggetto prestazioni di natura assistenziale, aveva affermato che il legislatore può legittimamente condizionare il riconoscimento delle prestazioni stesse alla permanenza stabile e duratura dello straniero nello Stato italiano. Conclusivamente, sosteneva che i cittadini extracomunitari hanno diritto alle previdenze assistenziali a condizioni di parità rispetto ai cittadini italiani in presenza del requisito temporale consistente nel soggiorno in Italia da almeno cinque anni, risultando così provata la stabile e non episodica permanenza sul territorio italiano; requisito che nel caso di specie non risultava soddisfatto, con conseguente legittimità del rigetto della prestazione richiesta.

Avverso l’ordinanza proponeva appello M.S.K.D.R., la quale censurava analiticamente le argomentazioni formulate dal giudice di primo grado ribadendo, tra l’altro, la contrarietà del diritto interno al diritto comunitario nella materia de qua.

L’Inps ed il Comune di Genova, costituitisi a loro volta, sollecitavano il rigetto del gravame.

All’udienza dell’11 maggio 2016 questa Corte, rilevato che l’appello ex art. 702 quater c.p.c. doveva essere introdotto con citazione e non con ricorso (cfr. Cass. n. 26326/2014) e che la tempestività del gravame erroneamente introdotto con ricorso andava verificata con riferimento non solo alla data di deposito ma anche a quella di notifica dell’atto alla controparte (cfr. Cass. n. 18022/2015), invitava l’appellante a depositare la copia notificata del ricorso nonché la documentazione attestante la data di comunicazione o di notifica dell’ordinanza oggetto di impugnazione; ciò sul rilievo che non erano state depositate, né in telematico né in cartaceo, le notifiche del ricorso in appello. L’appellante vi ottemperava, depositando documentazione da cui emergeva la tempestività dell’appello. All’udienza dell’8 luglio 2016 questa Corte tratteneva la causa in decisione emettendo poi un’ordinanza, depositata il 1° agosto 2016, con cui sottoponeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:

- "se una prestazione come quella prevista dall’art. 65 della legge n. 448/1998, denominata "assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori" costituisca una prestazione familiare ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, lettera j) del regolamento CE n. 883/2004";

- "in caso di risposta positiva, se il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE osti ad una normativa, come quella italiana, in base alla quale un lavoratore di paese terzo in possesso di "permesso unico per lavoro" (avente durata superiore a sei mesi) non può beneficiare del suddetto "assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori" pur essendo convivente con tre o più figli minori e titolare di redditi inferiori al limite di legge".

Con sentenza del 21 giugno 2017 la CGUE statuiva sulla questione pregiudiziale suddetta affermando: "L’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’art. 2, lett. c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23 dicembre 1998, n. 448, recante Misura di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo".

La causa era veniva riassunta dalla Sig.ra M., la quale insisteva per l’accoglimento delle conclusioni di cui in rubrica.

Si costituiva altresì l’Inps, il quale ribadiva la propria eccezione di difetto di legittimazione passiva.

All’udienza del 29 settembre 2017 compariva anche il Comune di Genova, il quale contestava la sussistenza dei presupposti dell’azione di discriminazione e chiedeva la compensazione delle spese di lite. Le parti concludevano come in atti e dichiaravano concordemente di rinunciare ai termini di cui all’art. 190 c.p.c. Questa Corte, preso atto di quanto sopra, tratteneva la causa in decisione.

 

Motivi della decisione

 

L’eccezione di carenza di legittimazione passiva, formulata dall’Inps, deve essere disattesa. Come già rilevato dal giudice di primo grado, la legittimazione dell’Istituto va ravvisata quale soggetto che eroga l’assegno in questione; l’instaurazione della causa anche nei suoi confronti appare dunque corretta, avendo la ricorrente chiesto la condanna dell’Inps al pagamento del predetto assegno.

Va altresì disattesa la prospettazione dell’Inps secondo cui lo strumento processuale prescelto per l’accertamento del diritto azionato sarebbe inammissibile per l’asserita incompatibilità tra il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. ed i procedimenti di cognizione soggetti al rito del lavoro. Ed invero, l’azione contro la discriminazione nella fattispecie proposta dalla ricorrente ben può essere devoluta alla cognizione del Giudice del Lavoro qualora verta su una delle materie contemplate dall’art. 442 c.p.c. Quanto al rito applicabile questa Corte ha ritenuto che il richiamo all’art. 702-quater c.p.c. implichi, stante la collocazione della norma nell’ambito del capo III-bis (rubricato "Del procedimento sommario di cognizione"), l’applicazione del rito ordinario, salve le norme specificamente dettate dal medesimo art. 702-quater relativamente all’ammissione dei mezzi di prova, etc. Si rileva infine che nella fattispecie il ricorso in appello è stato tempestivamente notificato alle parti, non ponendosi dunque alcuna questione di inammissibilità del gravame per tardività dello stesso.

Ciò premesso, ritiene questa Corte che l’appello sia fondato.

E’ opportuno, per comodità espositiva, ripercorrere i passaggi dell’ordinanza con cui questa Corte ha proposto una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ex art. 267 TFUE:

"26. Questa Corte d’appello dubita della compatibilità della normativa nazionale (segnatamente: l’art. 65 della legge n. 448/1998) con il diritto UE (segnatamente: l’art. 12 della direttiva n. 2011/98/UE).

27. Infatti la norma interna non consente al cittadino di paese terzo in possesso del permesso unico di lavoro di ottenere la prestazione denominata "assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori". Ciò appare in contrasto con il principio della parità di trattamento enunciato dall’art. 12 con riferimento ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento CE n. 883/2004.

28. La prestazione in oggetto consiste in una somma di denaro erogata, anno per anno, alle famiglie che ne facciano richiesta al Comune di residenza, a condizione che abbiano almeno tre figli minori di 18 anni e che siano portatori di una situazione reddituale svantaggiata. Trattasi, dunque, di una prestazione in denaro destinata a compensare i carichi familiari, che viene erogata in favore delle famiglie che ne abbiano particolare bisogno in considerazione del numero dei figli minori (almeno tre) e delle disagiate condizioni economiche (reddito inferiore a determinati importi).

30. La prestazione suddetta appare riconducibile a quelle di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j) ("prestazioni familiari") del regolamento CE n. 883/2004.

31. Come già ricordato, l’art. 1, lettera z), del regolamento definisce le prestazioni familiari come "tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1".

32. L’assegno predetto non costituisce "anticipo sull’assegno alimentare", né viene menzionato nell’allegato 1 del regolamento citato.

33. A parere di questa Corte d’appello non sussiste, nel caso in esame, alcuna delle ipotesi in cui gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento secondo quanto previsto dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 2011/98/UE.

34. A tale proposito si ricorda che con sentenza del 24.4.2012, resa nella causa C-571/10, Kamberaj, la Corte di Giustizia - pronunciandosi in una fattispecie avente ad oggetto il mancato riconoscimento di un sussidio per l’alloggio in favore di un cittadino di paese terzo - ha affermato che: "dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri ed il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’art. 11, paragrafo 1, della Direttiva 2003/109 costituiscono la regola generale, la deroga prevista al paragrafo 4 di tale articolo deve essere interpretata restrittivamente" (punto 86); ed ha precisato che tale deroga può essere invocata "unicamente qualora gli organi competenti dello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta" (punto 87).

35. Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame, deve rilevarsi che lo Stato italiano non ha inteso avvalersi della facoltà di limitare la parità di trattamento ai sensi dell’art. 12, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 2011/98/UE giacché non ha manifestato in alcun modo tale volontà. Né può rinvenirsi una siffatta deroga nell’art. 80, comma 19, della legge n. 388/2000 (che estende determinate prestazioni ai soli cittadini di paesi terzi titolari della carta di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), in quanto trattasi di disposizione emessa anteriormente alla direttiva suddetta.

36. Non sussiste inoltre l’ipotesi di cui all’art. 12, paragrafo 2, lettera b), seconda parte, della direttiva 2011/98/UE in quanto il "permesso unico lavoro" rilasciato alla ricorrente ha durata superiore ai sei mesi.

37. La questione proposta (compatibilità dell’art. 65 della legge 448/1998 con l’art. 12 della direttiva n. 2011/98/UE) appare rilevante per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, non è contestato che la ricorrente sia in possesso di tutti gli altri requisiti per accedere alla prestazione richiesta (essendo pacifico che ella abbia tre figli minori di anni 18, risieda nel Comune di Genova e sia titolare di un reddito inferiore ai limiti di legge). In secondo luogo, può ravvisarsi una discriminazione oggettiva anche per effetto dell’applicazione di una norma di legge quando da tale applicazione derivi un effetto pregiudizievole vietato dall’ordinamento sovrannazionale. Ed è ormai pacifico che l’obbligo di applicazione diretta della norma comunitaria gravi anche sulle pubbliche amministrazioni (cfr. Corte di Giustizia, C - 103/88, Fratelli Costanzo).

38. Non pare invece necessario valutare se la prestazione richiesta dalla ricorrente possa ritenersi "essenziale" giacché la direttiva 2011/98/UE, nel sancire il principio di parità di trattamento, non distingue tra prestazioni essenziali e non essenziali (a differenza della precedente direttiva 2003/109/UE che, all’art. 11, prevedeva tale distinzione).

39. Si rileva infine che la ricorrente, in quanto titolare del "permesso unico lavoro", va considerata a tutti gli effetti come lavoratrice secondo la definizione di cui alla direttiva 2011/98/UE all’art. art. 3, paragrafo 1, lettera c) e rientra, dunque, tra i soggetti beneficiari del principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 della direttiva medesima.

40. Dato il tenore letterale inequivocabile della norma interna, non pare possibile addivenire ad una interpretazione della medesima conforme al diritto comunitario."

Rispondendo al quesito posto da questa Corte territoriale, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato la non compatibilità tra l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE e la normativa italiana laddove quest’ultima prevede che non possa beneficiare dell’assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori il cittadino di un paese terzo sebbene titolare di permesso unico ai sensi dell’art. 2, lettera c), della medesima direttiva.

Ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

" 19 Dato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98 prevede che i lavoratori provenienti da paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b) e c), della medesima direttiva benefici non dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento n. 883/2004, occorre in primo luogo esaminare, come suggerito dal giudice di rinvio, se una prestazione come l’ANF costituisca una prestazione di sicurezza sociale, riconducibile alle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del medesimo regolamento, oppure una prestazione di assistenza sociale, esclusa dall’ambito di applicazione di tale regolamento ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 5, lettera a) di quest’ultimo, come sostiene il governo italiano.

20 A tale riguardo si deve ricordare che, come ripetutamente giudicato dalla Corte con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C-101/04, EU:C:2005:51, punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C-177/12, EU:C:2013:689, punto 28). Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente indicati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C-85/99, EU:C:2001:166, punto 28, nonché del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C-216/12 e C-217/12, EU:2013: 568, punto 48).

21 La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale (v. in tal senso, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 21; del 15 marzo 2001, Offermanns, C-85/99, EU:C:2001:166, punto 46, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C-177/12, EU:C:2013:689, punto 32).

22 Peraltro, il fatto che una prestazione sia concessa o negata in considerazione dei redditi e del numero di figli non implica che la sua concessione dipenda da una valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, caratteristica dell’assistenza sociale, nei limiti in cui si tratta di criteri obiettivi e definiti per legge che, quando sono soddisfatti, danno diritto a tale prestazione senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 17). Così, prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale (sentenza del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C-308/14, EU:C:2016:436, punto 60).

23 In merito alla questione se una data prestazione rientri nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, si deve rilevare che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, l’espressione "prestazione familiare" indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento. La Corte ha già dichiarato che l’espressione "compensare i carichi familiari" deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli (v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C-216/12 e C-217/12, EU:C:2013:568, punto 55 e giurisprudenza ivi citata).

24 Per quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta dagli atti che, da un lato, l’ANF è versato ai beneficiari che ne facciano richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli.

25 Dall’insieme delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004.

26 Occorre pertanto esaminare, in secondo luogo, se il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98, possa essere escluso dal beneficio di una siffatta prestazione da una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale.

27 A tal riguardo, dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), di quest’ultima, risulta che devono beneficiare della parità di trattamento prevista dalla prima di tali disposizioni, fra gli altri, i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale. Ebbene, è questo il caso del cittadino di un paese terzo titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, dato che, in forza di tale disposizione, detto permesso consente a tale cittadino di soggiornare regolarmente a fini lavorativi nel territorio dello Stato membro che l’ha rilasciato.

28 Tuttavia, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), primo comma, della direttiva 2011/98, gli Stati membri possono limitare i diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della medesima direttiva ai lavoratori di paesi terzi, eccezione fatta per quelli che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, conformemente all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), secondo comma, della predetta direttiva, gli Stati membri possono decidere che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della stessa, che concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, nonché ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in tale territorio a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è ivi consentito lavorare in forza di un visto.

29 Quindi, analogamente alla direttiva 2003/109, la direttiva 2011/98 prevede, in favore di taluni cittadini di paesi terzi, un diritto alla parità di trattamento, che costituisce la regola generale, ed elenca le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno la facoltà di istituire. Tali deroghe possono dunque essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse (v., per analogia, sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj, C-571/10, EU:C:2012:233, punti 86 e 87).

30 Orbene, il giudice di rinvio osserva che la Repubblica italiana non ha inteso avvalersi della facoltà di limitare la parità di trattamento facendo ricorso all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, giacché essa non ha manifestato in alcun modo una simile volontà. Quindi, le disposizioni della normativa italiana che limitano il beneficio dell’ANF, nel caso di cittadini di paesi terzi, ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e alle famiglie dei cittadini dell’Unione, disposizioni adottate dal resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva.

31 Ne consegue che il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98 può essere escluso dal beneficio di una prestazione quale l’ANF mediante una tale normativa nazionale."

Recependo la decisione suddetta - in particolare sulla natura di prestazione di sicurezza sociale dell’ANF e, per l’effetto, sulla sua inclusione tra le prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004 - può dunque affermarsi che l’art. 65 della legge n. 448/1998 contrasta con l’art. 12 della direttiva n. 2011/98/UE laddove non attribuisce al cittadino di un paese terzo titolare di un permesso unico ai sensi dell’art. 2, lett. c, della medesima direttiva, il diritto di fruire dell’assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori (ANF), a parità di trattamento con i cittadini italiani.

Venendo alla fattispecie per cui è causa, si rileva che l’appellante è in possesso dei requisiti previsti per l’erogazione della prestazione in favore dei cittadini italiani, cioè la titolarità di un reddito inferiore al il limite previsto per l’anno di riferimento (2014) e la convivenza di tre figli di età inferiore ai 18 anni. Costituisce, altresì, circostanza pacifica che ella abbia proposto la domanda al Comune di residenza. La prestazione le è stata negata unicamente per mancanza della "carta di soggiorno/permesso soggiornanti di lungo periodo C.E. come previsto dall’art. 13 della Legge n. 97/2013", mentre la sussistenza dei restanti requisiti, peraltro documentalmente provati, non è stata posta in discussione neppure nell’ambito del presente giudizio, così come è provata la titolarità da parte della stessa del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, ai sensi dell’art. 2, lett. c, della direttiva n. 2011/98/UE.

In forza dell’art. 12 della direttiva n. 2011/98/UE deve dunque riconoscersi il diritto di M.S.K.D.R. di ottenere l’assegno richiesto relativamente all’anno 2014 di ottenere detto assegno anche per gli anni successivi a parità di trattamento con i cittadini italiani, previo riscontro della sussistenza dei presupposti di legge.

Va, per contro, disattesa la tesi dell’Inps secondo cui non potrebbe nella fattispecie ravvisarsi la sussistenza di un comportamento discriminatorio ai sensi dell’art. 44 del decreto legislativo n. 286/1998 essendo la discriminazione, qualora effettivamente sussistente, riconducibile ad una norma di legge. Da un lato, infatti, la norma di riferimento stigmatizza, in generale, il "comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi ...", non attribuendo alcun rilievo "scriminante" al fatto che il comportamento discriminatorio discenda da una norma del diritto interno; dall’altro, essa non richiede che la discriminazione sia sorretta da un elemento psicologico di intenzionalità, giacché ciò che rileva è unicamente l’oggettiva violazione del principio di parità.

Ai sensi dell’art. 44 del D. Leg.vo n. 286/1998 è compito del giudice, una volta accertata l’effettiva esistenza del comportamento discriminatorio, "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo (...) a rimuovere gli effetti della discriminazione".

Nel caso in esame dunque, conformemente a quanto richiesto dall’appellante, deve:

1) accertarsi e dichiararsi il carattere discriminatorio della condotta tenuta dal Comune di Genova, consistente nell’aver negato all’appellante l’assegno di cui all’art. 65 D.lgs. 448/1998;

2) ordinarsi al Comune di Genova e all’Inps di riconoscere all’appellante il diritto a percepire l’assegno suddetto a condizioni di parità con i cittadini italiani;

3) per l’effetto, condannarsi l’Inps a pagare in favore di M.S.K.D.R. la somma di complessivi € 1.833,26 (€ 141,02 x 13 mesi) a titolo di assegno spettante per l’anno 2014, oltre agli interessi legali dalla maturazione al saldo, nonché a riconoscere detto assegno negli anni successivi a parità di condizioni con il cittadino italiano;

4) ordinarsi al Comune di Genova e all’Inps, quale piano di rimozione volto ad evitare il reiterarsi della discriminazione, di pubblicare il testo della presente sentenza sul proprio sito, previa anonimizzazione del nome della ricorrente.

Va ricordato che nel presente grado di giudizio l’Inps non ha riproposto la domanda formulata in primo grado nei confronti del Comune di Genova ma si è limitato ad eccepire il proprio difetto di legittimazione passiva e a sollecitare, in via subordinata, il rigetto delle domande proposte dalla ricorrente, abbandonando dunque la domanda di condanna del Comune di Genova a tenerlo indenne dal pagamento delle somme eventualmente da corrispondersi alla ricorrente.

Si rileva altresì che il Comune di Genova, pur affermando di voler proporre un appello incidentale, non ha impugnato alcuna statuizione del giudice di primo grado a sé sfavorevole ma ha semplicemente riproposto alcune osservazioni critiche nei confronti dell’iter logico posto a base della sentenza, cosicché non appare nella fattispecie ravvisabile un vero e proprio appello incidentale.

Venendo infine alle spese, ritiene questa Corte di doverle regolare secondo il principio di soccombenza condannando pertanto il Comune di Genova e l’Inps, in solido, alla rifusione delle stesse in favore dell’appellante; spese che si liquidano nella misura specificata in dispositivo con distrazione in favore dell’Avv. A.G., dichiaratosi antistatario.

Si dispone infine che la presente sentenza venga trasmessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come dalla stessa espressamente richiesto con missiva del 21 giugno 2017 (Prot. 1052802 IT).

 

P.Q.M.

 

In riforma dell’impugnata ordinanza:

1) accerta e dichiara il carattere discriminatorio della condotta tenuta dal Comune di Genova, consistente nell’aver negato alla ricorrente l’assegno di cui all’art. 65 D.lgs. 448/1998;

2) ordina al Comune di Genova e all’Inps di riconoscere all’appellante il diritto a percepire l’assegno suddetto a condizioni di parità con i cittadini italiani;

3) condanna l’Inps a pagare in favore di M.S.K.D.R. complessivi € 1.833,26 (€ 141,02 x 13 mesi) a titolo di assegno spettante per l’anno 2014, oltre agli interessi legali dalla maturazione al saldo, nonché a riconoscere detto assegno negli anni successivi a parità di condizioni con il cittadino italiano;

4) ordina al Comune di Genova e all’Inps di pubblicare il testo della presente sentenza sul proprio sito, previa anonimizzazione del nome della ricorrente.

5) Condanna il Comune di Genova e l’Inps, in solido, alla rifusione delle spese di lite in favore di M.S.K.D.R.; spese che si liquidano in complessivi € 1.800,00 per il giudizio di primo grado, € 2.000,00 per il giudizio di secondo grado ed € 2.100,00 per la fase relativa alla questione pregiudiziale trattata innanzi alla CGUE, oltre a quanto spettante per spese generali, IVA e CPA; con distrazione in favore dell’Avv. A.G., dichiaratosi antistatario.

6) manda alla Cancelleria affinché la presente sentenza venga trasmessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.