Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 06 novembre 2017, n. 26273

Sanzione disciplinare - Condotta adeguata ai principi di correttezza - Licenziamento senza preavviso

 

Fatti di causa

 

1. Con separati ricorsi al Giudice del lavoro del Tribunale di Roma, M. G. impugnava: a) la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per la durata di giorni dieci, irrogatagli in data 21 luglio 2008 dall'Università degli Studi di Roma Tre per violazione del dovere del dipendente di mantenere nei rapporti interpersonali e con gli utenti una condotta adeguata ai principi di correttezza e di astenersi da comportamenti lesivi della dignità della persona; b) il licenziamento senza preavviso, sanzione comminatagli dall'Università in data 12 giugno 2009, all'esito di procedimento avviato il 16 febbraio 2009, per avere il dipendente rivolto una grave minaccia alla dott.ssa T., responsabile dell'Ufficio staff del Direttore amministrativo dove era impiegato, nel corso di una conversazione avvenuta il 25 novembre 2008 nell'ufficio del superiore gerarchico, dott.ssa C..

2. Con sentenza n. 6843/2010 il Tribunale di Roma dichiarava inammissibile la domanda di cui al primo ricorso per carenza di interesse ad agire e, con sentenza n. 20244/2010, rigettava il secondo ricorso, condannando il ricorrente al pagamento le spese di giudizio.

3. L'appello proposto dal M. avverso entrambe le sentenze veniva respinto dalla Corte di appello di Roma con sentenza n. 4299/2015, sulla base delle seguenti considerazioni:

- la contestazione della sanzione espulsiva era tempestiva, in quanto un'istruttoria di circa quattro mesi si giustificava con la complessità dell'organizzazione dell'ente;

- vi era carenza di interesse ad agire quanto alla sanzione conservativa, perché mai in concreto applicata e tenuto conto che il licenziamento irrogato al M. si fondava su fatti la cui gravità era tale da escludere il rilievo della recidiva; pertanto, il riferimento operato dall'Università ai precedenti disciplinari del M. aveva carattere del tutto residuale;

- i fatti posti a base del licenziamento consistevano in una grave minaccia rivolta al superiore gerarchico, proferita in presenza di terzi; come emerso dalle deposizioni raccolte in fase disciplinare, l'appellante aveva ingenerato un clima di timore nell'ambiente di lavoro per le eventuali conseguenze derivanti dalle sue intemperanze;

- quanto alla dedotta violazione delle garanzie difensive per asserita mancata affissione del codice disciplinare, le risultanze processuali avevano evidenziato che il codice era stato affisso presso i locali della Divisione Personale Tab dell'Università ed era altresì stato pubblicato sul sito Web dell'Ateneo e dunque facilmente accessibile dai dipendenti; comunque, tale affissione non era necessaria, atteso che le minacce proferite all'indirizzo del dirigente erano tali da violare i più elementari doveri di carattere generale, connaturati allo svolgimento del rapporto di lavoro.

3. Per la cassazione di tale sentenza il M. propone ricorso affidato a cinque motivi. Resiste l'Università degli Studi Roma Tre con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo denuncia vizio di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti riguardante la violazione del diritto di difesa del lavoratore per mancata audizione nel corso del procedimento disciplinare. Il ricorrente, sebbene convocato, era stato impossibilitato a comparire all'audizione a causa delle sue condizioni di salute; il datore di lavoro non avrebbe potuto omettere l'audizione prima di irrogare la sanzione. In appello l'eccezione era stata riproposta, ma la sentenza aveva del tutto omesso di motivare al riguardo.

2. Il secondo motivo, denunciando violazione dell'articolo 44 CCNL e dell'art. 7, commi 1 e 2, Stat. lav., censura la sentenza per avere omesso di esaminare la previsione contrattuale secondo cui il procedimento disciplinare deve concludersi nel termine di 120 giorni dal momento del suo avvio.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge nella parte in cui la sentenza aveva dichiarato inammissibile per carenza di interesse l'impugnazione della sanzione conservativa, posto che la contestazione finale con l'irrogazione della sanzione espulsiva aveva fatto riferimento ai precedenti disciplinari del ricorrente, contemplando espressamente la recidiva, e che l'art. 45, comma 6, CCNL prevede il licenziamento senza preavviso in caso di terza recidiva nel biennio in caso di "minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico o altri dipendenti"; il giudice d'appello aveva dato alla fattispecie contestata una connotazione diversa da quella individuata dalla parte datoriale.

4. Il quarto motivo, denunciando violazione dell'art. 46 n. 8 CCNL, censura la sentenza per avere ritenuto sufficiente l'affissione del codice disciplinare nei locali della Divisione Personale TAB e non all'interno dello stabile presso cui prestava servizio il ricorrente, in Roma, via Ostiense n. 131.

5. Il quinto motivo denuncia violazione del CCNL (senza precisazione della norma di riferimento) e dell'art. 7 Stat. Lav. per avere la Corte di appello, nell'affermare la tempestività dell'esercizio dell'azione disciplinare, fatto riferimento ad insussistenti illeciti protrattisi fino al "luglio 2009" e ad una contestazione del "7 gennaio 2010", mentre il fatto di cui al provvedimento espulsivo risaliva al 25 novembre 2008, la contestazione disciplinare al 16/17 febbraio 2009 e il licenziamento al 12 giugno 2009.

6. Il primo motivo è inammissibile.

6.1. Innanzitutto, la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l'il settembre 2012. Trova, dunque, applicazione il nuovo testo dell'art. 360, primo comma, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti". A norma dell'art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012). Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio facti, che il nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente tale denuncia nei limiti dell'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In proposito, è stato, altresì, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit.). La deduzione del vizio di motivazione di cui al primo motivo non corrisponde al modello processuale come sopra delineato, alla luce delle modifiche normative intervenute.

6.2. Ove poi la questione, conformemente al suo contenuto sostanziale, fosse riqualificata come denuncia di omessa pronuncia su un motivo di appello, in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c., comunque la questione resterebbe inammissibile per mancato adempimento degli oneri di cui all'art. 366 c.p.c.. Non risulta trascritto il motivo di appello (ma solo la rubrica) formulato avverso la sentenza di primo grado che ebbe a respingere l'eccezione proposta con il ricorso introduttivo; la sentenza di primo grado, del pari, non è riportata nei suoi contenuti salienti. Il mancato adempimento di tali oneri processuali che gravano sul ricorrente per cassazione ex art. 366 c.p.c., precludono in radice la possibilità di comprendere se, a fronte di un motivo specifico formulato dall'appellante, la Corte di appello avesse omesso di pronunciare.

6.3. Peraltro, contrariamente all'apodittico assunto che denuncia la violazione del diritto di difesa per mancata audizione dell'incolpato, risulta dalla descrizione della vicenda processuale offerta dall'odierno ricorrente (pag 12 e pag. 20 ric.) ed emergente altresì dalla sentenza impugnata (pag. 3) che il datore di lavoro concesse plurimi differimenti al lavoratore, che ne aveva fatto richiesta per motivi di salute, con impedimento a tutto il 30 maggio 2009, e che l'ultima convocazione venne fissata per il 12 giugno 2009, cessato lo stato di malattia.

7. La questione prospettata con il secondo motivo, concernente il rispetto del termine di durata del procedimento disciplinare, non risulta menzionata dalla sentenza impugnata tra i motivi di appello proposti dal M. ed invero essa non risulta neppure dal sommario elenco dei motivi di appello riprodotti dallo stesso ricorrente (pag. 13 ric.). La questione è da ritenere nuova e come tale inammissibile, non avendo il ricorrente riferito se e in quali termini la questione sarebbe stata introdotta in primo grado e riproposta in appello.

7.1. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di cui all'art. 366 c.p.c. del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (ex plurimis, Cass. n. 23675 del 2013, n. 324 del 2007, nn. 230 e 3664 del 2006).

7.2. Essa comunque verte sulla presunta violazione dell'art. 45 comma 6, CCNL 16.10.2008 (già art. 44 CCNL 27.1.2005) relativo al personale del comparto università per il quadriennio normativo 2006-2009 che, contrariamente all'assunto di cui al ricorso per cassazione, individua il dies a quo del termine di 120 giorni previsto per la chiusura del procedimento (nella specie, avvenuta con l'intimazione del licenziamento in data 12 giugno 2009) dal momento della contestazione disciplinare (17 febbraio 2009).

8. Il terzo motivo presenta profili di inammissibilità e profili di infondatezza. Innanzitutto, non sono ottemperati gli oneri di cui all'art. 366 nn. 3 e 4 c.p.c., poiché il ricorrente non trascrive il tenore letterale della contestazione disciplinare del licenziamento, occorrente per stabilire la decisività o meno della recidiva in relazione alla fattispecie contestata dalla parte datoriale.

8.1. Per altro verso, va rilevato che idonea a sorreggere la decisione è la considerazione secondo cui la gravità dell'episodio commesso il 25 novembre 2008 ben poteva, in sé, integrare la giusta causa di licenziamento. In generale, va osservato che l'elencazione prevista dalla contrattazione collettiva ha carattere esemplificativo, ma non esaustivo, e nel CCNL in esame tanto può evincersi anche dalla previsione, costituente norma di chiusura, di cui al comma 7 dell'art. 46 CCNL (già art. 45 CCNL 27.1.2005) secondo cui "Le mancanze non espressamente previste nei commi da 2 a 6 sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all'individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all'art. 44 del presente CCNL, quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti". Il richiamato primo comma, a sua volta, contempla l'obbligo generale del dipendente di conformare "la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell'attività amministrativa, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui" nonché l'obbligo del dipendente di adeguare "il proprio comportamento ai principi riguardanti il rapporto di lavoro contenuti nel codice di condotta allegato al presente CCNL".

8.2. Secondo l'orientamento di questa Corte, costituente ius receptum (Cass. n. 5095 del 2011, cfr. pure Cass. n. 6498 del 2012), la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

8.3. Nel caso di specie, la sentenza, senza incorrere in vizi logici in ordine alla ricostruzione dei fatti, ha ravvisato la giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c. nella gravità delle minacce proferite (la contestazione disciplinare è del seguente tenore, come riportato dalla sentenza impugnata: "in data 25.11.2008, la S.V. è entrata nella stanza della dottoressa M. C., affermando che "era stato seguito da un segugio" e che non voleva essere seguito da nessuno e se ciò fosse ricapitato avrebbe dato "un'accettata in testa a qualcuno" perché si era rotto...., anzi gli avevano rotto...tutti"), evidenziando non solo che il comportamento del ricorrente, alla luce delle risultanze processuali, aveva "creato un clima di timore anche per eventuali conseguenze fisiche nascenti dalle sue intemperanze", ma pure che è fatto l'obbligo al datore di lavoro, in relazione all'art. 2087 c.c., di "preservare l'integrità fisica e morale dei dipendenti, di assicurare la serenità dell'ambiente di lavoro e la credibilità e la autorevolezza chi ha compiti di direzione e controllo del personale".

8.4. La sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta della giusta causa ex art. 2119 c.c. è conforme a diritto in quanto, alla stregua della ricostruzione fattuale condotta dal giudice di merito, la condotta addebitata al M., tanto per i suoi contenuti oggettivi, quanto per le altre circostanze di contesto, oltre ad integrare gli estremi di reato, aveva creato turbamento e timori tra il personale e quindi assumeva rilevanza anche ai fini degli obblighi gravanti sul datore di lavoro ex art. 2087 c.c. di garantire l'integrità fisica e morale dei dipendenti e la serenità nei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro.

9. Il quarto motivo, vertente sugli obblighi di pubblicità del codice disciplinare, è infondato. L'art. 46, comma 8, CCNL prevede che "Al codice disciplinare di cui al presente articolo deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in ogni posto di lavoro in luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre".

9.1. Se può convenirsi con l'assunto dell'attuale ricorrente secondo cui all'epoca dei fatti (prima della riforma di cui al D.Lgs. n. 150/09) la pubblicazione sul sito web costituiva un equipollente che non valeva ad escludere la tassatività della previsione contrattuale che imponeva l'affissione "in ogni posto di lavoro in luogo accessibile a tutti i dipendenti", deve altresì osservarsi che non è stata specificamente impugnata l'altra, concorrente, motivazione di cui alla sentenza impugnata secondo cui la garanzia di pubblicità del codice disciplinare non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (pag. 7 sent.).

10. Infine, l'inesattezza dei riferimenti temporali denunciata con il quinto motivo costituisce un mero refuso contenuto nella sentenza impugnata, che tuttavia non inficia la correttezza dell'ordine argomentativo, ove si consideri che, per sostenere la tempestività della contestazione rispetto al momento della conoscenza dei fatti, la Corte di appello ha ritenuto congruo un lasso di tempo di circa quattro mesi in ragione della complessità dell'organizzazione dell'Università degli Studi Roma Tre e che, a considerare invece l'esatta sequenza del fatti indicata nello stesso ricorso (25 novembre 2008/16 febbraio 2009), l'Ente avrebbe impiegato un tempo ancora inferiore (neppure tre mesi) e quindi sicuramente congruo, secondo lo stesso ordine logico sotteso alla sentenza impugnata.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell'art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

12. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 1 comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.