Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 marzo 2018, n. 7562

Licenziamento disciplinare - Condotta tipizzata - Equiparazione della sentenza di condanna alla sentenza di patteggiamento - Giusta causa deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro - Gravità dei fatti addebitati, in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale - Lesione dell’elemento fiduciario

 

Fatti di causa

 

1. V.V., dipendente di P.I. s.p.a., impugnava davanti al Tribunale del lavoro di Lodi il licenziamento intimatogli il 19 dicembre 2001, deducendo, tra l'altro, che per gli stessi fatti gli era stato intimato un primo licenziamento in data 9 novembre 1999, licenziamento annullato dal Tribunale del lavoro di Milano (per tardività della contestazione) con sentenza n. 2046/2000 in data 5 luglio 2000, passata in giudicato.

2. Il giudice di primo grado respingeva il ricorso e la decisione era confermata dal giudice di appello.

3. Con sentenza 08/02/2006 n. 2709 la Corte di cassazione, in accoglimento del primo motivo di ricorso del V., cassava la decisione.

4. La Corte d'appello di Milano, pronunziando quale giudice del rinvio, annullava il licenziamento intimato il 19 dicembre 2001, ordinava alla società P.I. s.p.a. di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e la condannava al risarcimento del danno nella misura pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra.

4. Con sentenza 02/10/2013 n. 22535 la Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso principale di P.I. s.p.a., cassava la sentenza sopraindicata osservando che era esatto il rilievo della difesa della società ricorrente in ordine all'erroneità del mancato riconoscimento, da parte della Corte territoriale, dell'equipollenza della sentenza di applicazione della pena su richiesta dell'imputato, di cui all'art. 444 cod. proc. pen., a quella prevista, come giustificativa della sanzione espulsiva, dalla norma di cui all'art. 54 del contratto collettivo delle Poste dell’11/01/2001 riguardante la fattispecie in controversia.

5. La Corte di appello di Milano, pronunziando in sede di giudizio di rinvio ha così statuito "In parziale riforma della sentenza n. 112/2002 del Tribunale di Lodi compensa le spese di primo grado e conferma nel resto".

5.1. Il giudice del rinvio, ribadito che all'esito della decisione rescindente non potevano più venire in discussione le questioni attinenti gli effetti preclusivi del giudicato nascente da altra sentenza del Tribunale che aveva dichiarato illegittimo un precedente licenziamento per tardività della contestazione, ed il profilo attinente all'equiparazione, al fine dell'applicazione dell'art. 54 c.c.n.I., della sentenza di condanna alla sentenza di patteggiamento pronunziata su richiesta dell'imputato, ha ritenuto legittimo il licenziamento senza preavviso avuto riguardo alla gravità dei reati di cui ai capi di imputazione (in particolare con riguardo all'ipotesi di cui all'art. 314 cod. pen. - appropriazione indebita, e dell'art. 479 cod. pen. in relazione all'art. 476 cod. pen. per avere il V., nella qualità di cassiere, falsamente formato il conto di cassa accertando la esistenza di un fittizio saldo contabile ammontante a £ 1.947.554 a fronte di una consistenza effettiva in denaro contante pari a £ 1.447.150), correlata alle specifiche mansioni di addetto alla cassa espletate dal V.. Ha osservato che, in tale contesto, non vi era spazio per gli ulteriori accertamenti istruttori sollecitati dal lavoratore ed evidenziato che questi non aveva negato di avere artificiosamente indicato come falsa la cifra di £ 1.947,554 a fronte di una consistenza di cassa inferiore e di avere, quindi, così facendo, nascosto deliberatamente la sottrazione di danaro che ben avrebbe potuto essere indicata come "prelievo". La sentenza di primo grado doveva quindi essere confermata salvo che per le spese di lite compensate sia in ragione della complessa valutazione della eccezione del ne bis in idem sia in ragione della non univocità degli accertamenti sul punto.

6. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso V.V. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 4 cod. proc. civ. nullità della sentenza impugnata. In sintesi si censura la decisione per avere "confermato" la sentenza di primo grado laddove questa doveva ritenersi tamquam non esset per effetto della successiva cassazione.

2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 52 e 54 c.c.n.I. per il personale non dirigente di Poste e dell'art. 2119 cod. civ.. Si sostiene violazione del dictum della sentenza rescindente per avere il giudice del rinvio omesso l'esame del merito dalla stessa devolutogli. Si evidenzia che l'art. 54 c.c.n.I. richiede, al fine della legittimità del licenziamento, oltre alla sentenza di condanna passata in giudicato - alla quale secondo il dictum della sentenza rescindente andava equiparata la sentenza di patteggiamento ai sensi dell'art. 444 cod. proc. civ. - anche una ulteriore valutazione relativa alla lesione, in concreto, del rapporto fiduciario; si assume, quindi, che il giudice del rinvio non aveva fatto alcun accertamento ulteriore in tal senso e che aveva, tra l'altro, omesso di considerare alcune circostanze quali l'atteggiamento immediatamente confessorio tenuto dal dipendente all'atto della verifica da parte degli ispettori di Poste in esito alla quale era emerso il fatto addebitato.

3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e si richiamano una serie di circostanze, tra le quali, soprattutto l'atteggiamento confessorio tenuto dal lavoratore al momento in cui era emerso il fatto, che si assumono non valutate dal giudice del rinvio.

4. Il primo motivo di ricorso è infondato. Come è noto il giudizio di rinvio instauratosi a seguito di annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza d'appello per i motivi di cui ai nn. 3 e 5 dell'art. 360 cod. proc. civ. non si pone in parallelo con alcun precedente grado del processo, ma ne costituisce, per converso, fase del tutto nuova ed autonoma, ulteriore e successivo momento del giudizio (cosiddetto "iudicium rescissorium") funzionale all'emanazione di una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (né di primo, né di secondo grado), riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti (Cass. 22/05/2006 n. 11936 Cass. 17/11/2000 n. 14892).

4.1. La sentenza impugnata non esprime alcun contrasto con tale principio, in quanto dalla motivazione della stessa risulta del tutto evidente la consapevolezza nel giudice del rinvio dell'effetto rescindente collegato alla sentenza di cassazione e del fatto che la sentenza di primo grado non rivive per effetto della cassazione con rinvio della pronuncia d'appello. La decisione è stata, infatti, adottata sulla base del solo dictum della sentenza di cassazione prescindendosi, quindi, dai motivi di gravame originariamente formulati avverso la sentenza di primo grado. Consegue che l'espressione utilizzata in dispositivo "conferma la sentenza di primo grado" costituisce solo frutto di improprietà linguistica avente mera funzione di esplicitare il contenuto del decisum, mediante rinvio, sia pure inappropriato, alla sentenza di prime cure, pacificamente eliminata dal mondo giuridico.

5. Il secondo motivo di ricorso è infondato in quanto, a differenza di quanto sostenuto dalla parte ricorrente, il giudice di appello non si è arrestato, nell'applicazione della norma collettiva, al profilo dell'equipollenza tra la sentenza di condanna passata in giudicato e la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. ma ha proceduto, con autonoma valutazione, alla verifica della gravità della condotta ascritta e della idoneità della stessa a ledere l'elemento fiduciario, sulla base delle circostanze del caso concreto.

5.1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. 26/04/2012 n. 6498; Cass. 02/03/2011 n. 5095).

5.2. Parte ricorrente ha incentrato le proprie censure non sulla corretta individuazione e applicazione del parametro normativo di riferimento ma sul concreto apprezzamento da parte del giudice del rinvio delle circostanze di fatto e quindi su una valutazione che, in quanto sorretta da adeguata e logica motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 27/09/2007 n. 20221), dovendo altresì evidenziarsi, quale specifico profilo di inammissibilità che le circostanze delle quale si assume l'omessa o inadeguata valutazione da parte del giudice di merito non sono evocate nel rispetto del disposto dell'art. 366 n. 6 cod. proc. civ.; parte ricorrente,infatti, non chiarisce, con riferimento alla vicenda processuale ed alle varie fasi del giudizio di merito, da quale atto o documento tali circostanze risultino, omettendo la trascrizione dell'atto e del documento come,invece, prescritto (Cass. 12/12/2014, n. 26174).

6. Per ragioni analoghe deve essere respinto il terzo motivo di ricorso che non è articolato con modalità conformi all'attuale configurazione dell'art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., applicabile ratione temporis. Parte ricorrente deduce l'omesso esame di una serie di circostanze ed innanzitutto dell'atteggiamento confessorio del dipendente, circostanze che, oltre ad essere evocate in violazione del disposto dell'art. 366 n. 6 cod. proc. civ. per cui valgono le medesime considerazioni di cui al motivo precedente, risultano intrinsecamente prive del carattere di decisività al fine da incidere sulla valutazione relativa alla verifica della legittimità del licenziamento. Gli elementi addotti, infatti, rappresentano circostanze che possono sicuramente assumere rilievo nella globale valutazione di legittimità del licenziamento; non emerge, né è dimostrato, tuttavia, che tali elementi, siano di portata tale da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento, come invece richiesto (Cass. 19150 28/09/2016; Cass. 05/12/2014 n. 25756).

7. Alle considerazione che precedono segue il rigetto del ricorso ed il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.

8. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.