Giurisprudenza - TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE LAZIO - Ordinanza 21 luglio 2016

Impiego pubblico - Disposizioni in materia di trattamenti economici - Applicazione del meccanismo del tetto massimo degli emolumenti ai magistrati ordinari - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 23-ter; decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, art. 13, comma 1

 

Considerato e ritenuto in fatto ed in diritto

 

1 - Che il dott. F.I., odierno esponente, magistrato ordinario alla settima valutazione di professionalità attualmente in servizio come Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma, rappresenta di aver diritto a percepire, oltre al trattamento economico annuale spettante ai magistrati ordinari alla suddetta valutazione di professionalità e all'indennità di cui all'art. 3, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, anche la speciale indennità pensionabile di cui all'art. 5, comma 3, della legge 1° aprile 1981, n. 121, quest'ultima in ragione dell'incarico di Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria ricoperto dal ricorrente dal 4 agosto 2008 al 16 febbraio 2012.

 Che con il ricorso in epigrafe viene impugnato il provvedimento con il quale è stata disposta la riduzione del trattamento economico annuo ai sensi dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011, nonché il provvedimento con il quale è stata interrotta la corresponsione in favore del medesimo esponente dell'assegno personale pensionabile relativo alla speciale indennità prevista dall'art. 5, comma 3, della legge 1° aprile 1981, n. 121, in applicazione dell'art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre 1993, n. 537; unitamente ad ogni altro atto annesso, connesso, presupposto o consequenziale.

 Il ricorrente chiede inoltre l'accertamento del diritto a percepire, nella loro interezza, o - in via subordinata - nella misura ritenuta dovuta, il trattamento economico annuo spettantegli in virtù del proprio inquadramento nell'organico della Magistratura ordinaria e delle funzioni dallo stesso svolte, senza le riduzioni operate in pretesa applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459, 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 89/2014, con la conseguente condanna dell'Amministrazione al versamento ed alla restituzione delle somme nelle more indebitamente trattenute.

 2 - Che il contenzioso in esame, avuto riguardo al primo motivo di gravame, concerne in primo luogo la vicenda applicativa conseguente all'adozione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, in legge 22 dicembre 2011, n. 214, il quale stabilisce, al comma 1, primo periodo, che, «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione»;

 3 - Che, in attuazione della citata disposizione, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adottato il decreto 23 marzo 2012, in questa sede impugnato, il quale, all'art. 3, stabilisce che, «a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto, il trattamento retributivo percepito annualmente, comprese le indennità e le voci accessorie nonché le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o consulenze conferiti da amministrazioni pubbliche diverse da quella di appartenenza [...] non può superare il trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al primo Presidente della Corte di cassazione, pari nell'anno 2011 a euro 293.658,95. Qualora superiore, si riduce al predetto limite».

 L'art. 1, commi 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, ha poi statuito quanto segue:

 comma 471: «A decorrere dal 1° gennaio 2014 le disposizioni di cui all'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo»;

 comma 473: «Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui ai commi 471 e 472 sono computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico di uno o più organismi o amministrazioni, ovvero di società partecipate in via diretta o indiretta dalle predette amministrazioni».

 Da ultimo l'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, ha ridotto il tetto massimo fissato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 marzo 2012, prevedendo che "a decorrere dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni e integrazioni, è fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente".

 4 - Che il contenzioso in esame, avuto riguardo al secondo motivo di gravame e all'atto di motivi aggiunti, riguarda la vicenda applicativa - contestuale seppure indipendente rispetto alla prima questione - conseguente all'adozione dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 che hanno statuito quanto segue:

 comma 458: «L'art. 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l'art. 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall'incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità»;

 comma 459: «Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall'art. 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall'art. 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135».

 5 - Che il ricorrente afferma l'illegittimità degli atti impugnati deducendo i motivi di ricorso di seguito sintetizzati:

 5.1 - Illegittimità derivata per incostituzionalità dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459, 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 89/2014 per violazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104, 108 e 117 della Costituzione, anche in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali:

 5.1.1 - L'introduzione, ad opera dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011, di un prelievo obbligatorio sulle retribuzioni (avente natura di «prelievo tributario»), in quanto limitato alla sola categoria dei dipendenti pubblici, sostanzierebbe una violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione, alla luce dell'orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 223 dell'11 ottobre 2012, che ha ritenuto che l'imposizione di un prelievo obbligatorio, con finalità di concorso alle pubbliche spese, ad un'unica categoria di soggetti, a parità di reddito lavorativo violi il principio «della parità di prelievo a parità di presupposto d'imposta economicamente rilevante»; a giudizio della Corte, infatti, le disposizioni del decreto-legge n. 78/2010 - il quale, analogamente al prelievo disposto dall'art. 23-ter in contestazione, prevedeva che a decorrere dal primo gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 «i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro» - si pongono in evidente contrasto con gli articoli 3, 36 e 53 della Costituzione, in quanto «l'introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d'imposta economicamente rilevante».

 Nel caso di specie, l'art. 23-ter citato presenterebbe i medesimi elementi dell'imposta tributaria che sono stati ravvisati dalla Corte costituzionale nella sentenza richiamata, in quanto, in particolare, tale disposizione prevederebbe una decurtazione patrimoniale a carico dei soli dipendenti pubblici interessati e di natura definitiva, non essendo previsto un termine di durata del prelievo né la restituzione ai soggetti passivi delle somme prelevate.

 Inoltre, la disposizione non modificherebbe in alcun modo il rapporto sinallagmatico di lavoro che intercorre tra i dipendenti pubblici e lo Stato, i quali - stando all'attuale indirizzo della Corte costituzionale (Corte costituzionale n. 223/2012) - non potrebbero ridurre la loro prestazione lavorativa in proporzione alla diminuita retribuzione.

 Infine, l'art. 23-ter, con lo stabilire che le risorse rivenienti dall'applicazione delle misure di cui al medesimo articolo siano annualmente versate al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato, così manifestandone la destinazione a favore dell'Erario - come confermato anche dalla circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 8/2012 a termini della quale il prelievo de quo serve a raggiungere gli "obiettivi generali della finanza pubblica - evidenzierebbe il carattere tributario della misura di cui all'art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011, imposta in spregio ai principi di cui agli articoli 3, 36 e 53 della Costituzione.

 5.1.2 - Secondo altro profilo di censura, tale decurtazione della remunerazione si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 4, 36 e 38 della Costituzione, nonché con i principi di ragionevolezza e di irretroattività dei trattamenti in pejus, in quanto verrebbe a incidere «a posteriori» illegittimamente sulle retribuzioni e sulle indennità già maturate dai pubblici dipendenti, costituenti oramai diritti quesiti, compromettendo altresì il legittimo affidamento dell'odierno esponente, e tanto, in violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e, quindi, dell'art. 117 della Costituzione.

 Ciò comporterebbe una decurtazione sia del trattamento retributivo che di quello di fine servizio e pensionistico dei dipendenti pubblici coinvolti, derivante dall'accumulo del montante contributivo, e risulterebbe irragionevole, oltrepassando i limiti previsti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, in tema di interventi legislativi idonei ad incidere su diritti quesiti quali quello alla retribuzione e al trattamento pensionistico, di cui, rispettivamente, agli articoli 36 e 38 della Costituzione, ha affermato il principio per cui «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto» (in tal senso, sentenza n. 264/2005; in senso conforme, sentenze n. 236 e n. 206 del 2009).

 Anche la Corte di Giustizia UE ha più volte chiarito che, sebbene i principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento siano di derivazione comunitaria, ciò nondimeno essi non impediscono ai legislatori nazionali di intervenire sulla normativa vigente per introdurvi modifiche che comportino un riassetto delle condizioni economiche proprie dei rapporti di durata, tra l'altro, precisando che spetta al giudice nazionale stabilire se le modifiche introdotte siano effettivamente non irrazionali e prevedibili (cfr. Corte di Giustizia CE, 10 settembre 2009, causa C-201/08, Plantanol, punti 46 e segg.; id., 11 maggio 2006, causa C-384/04, Federation of Technological Industries, punto 34).

 Tuttavia, l'art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011 non rispetterebbe le condizioni indicate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale affinché l'intervento modificativo del legislatore possa ritenersi razionale, in quanto detta disposizione inciderebbe in termini peggiorativi su un diritto soggettivo perfetto, non costituirebbe una misura graduale e progressiva ma un taglio della retribuzione improvviso e arbitrario, e non avrebbe una finalità perequativa o armonizzatrice dei trattamenti economici toccati, applicandosi unicamente ai dipendenti pubblici.

 In merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della suddetta questione di legittimità, soggiunge il ricorrente che questa Sezione - seppur con riferimento ai magistrati contabili - si sarebbe già espressa in senso positivo (cfr. ordinanze nn. 5715, 5716, 5718, 5721, 5723, 5725, 5727 del 17 aprile 2015 e nn. 5833, 5835, 5836 e 5839 del 21 aprile 2015).

 5.1.3 - Sotto un terzo profilo, la citata decurtazione della remunerazione determinerebbe, oltre alla violazione del diritto al lavoro e dell'obbligo di retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto ai sensi degli articoli 4 e 36 della Costituzione, anche un vulnus ai principi di indipendenza e autonomia dei magistrati previsti dagli articoli 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.

 Anche in merito a tale censura le recenti ordinanze del TAR Lazio avrebbero prospettato analoghi dubbi e pertanto il ricorrente chiede al Collegio di sollevare la medesima questione di legittimità costituzionale anche nel caso in esame.

 2) Violazione e falsa applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459, 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 89/2014.

 Violazione e falsa applicazione dell'art. 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 marzo 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16 aprile 2012 n. 89. Violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104, 108 e 117 della Costituzione, anche in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, travisamento dei fatti, inosservanza di circolari, manifesta ingiustizia, carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

 Ribadita l'incostituzionalità dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011 sotto i vari profili sopra esposti, in seconda battuta il ricorrente contesta l'erronea soppressione delle indennità retributive di sua spettanza, operata in pretesa applicazione, oltretutto retroattiva, dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge 27 dicembre 2013 n. 147.

 Tali disposizioni non sarebbero applicabili al caso di specie, giacché farebbero esclusivo riferimento agli impiegati civili dello Stato, mentre i magistrati, pur rientrando nella categoria dei dipendenti pubblici intesa in senso lato, non svolgerebbero funzioni assimilabili in tutto a qualsiasi impiegato dello stato.

 Erroneamente, dunque, il Dicastero intimato avrebbe applicato l'art. 1, commi 458 e 459, cit., all'odierno esponente, equiparandone la posizione a quella degli impiegati civili rientrati in ruolo e giungendo ad eliminare l'erogazione in suo favore dell'indennità di cui all'art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981, quale indennità speciale di Capo della Polizia Penitenziaria.

 6 - Che l'Amministrazione intimata si è costituita in giudizio per difendere la piena legittimità e doverosità del proprio operato a termini di legge, legge le cui disposizioni vengono altresì argomentatamente ritenute scevre dai dedotti vizi di legittimità costituzionale.

 7. - Che con atto di motivi aggiunti, il ricorrente ha quindi impugnato il provvedimento del 1° ottobre 2014, con il quale è stata interrotta la corresponsione in suo favore dell'assegno personale pensionabile relativo alla speciale indennità prevista dall'art. 5, comma 3, della legge 1° aprile 1981, n. 121, riproponendo e specificando le censure svolte con il secondo motivo di ricorso.

 8 - Che alla camera di consiglio convocata per l'esame della domanda cautelare, con ordinanza n. 4261/2015 dell'8 ottobre 2015, è stata rigettata la domanda incidentale di sospensione degli atti impugnati; che in sede di appello cautelare il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 308 del 29 gennaio 2016, ritenute favorevolmente apprezzabili le esigenze dell'appellante, ha accolto l'appello ai fini della fissazione dell'udienza di merito e, per l'effetto, ha ordinato la trasmissione dell'ordinanza medesima a questo Tribunale per la sollecita fissazione dell'udienza di merito, ai sensi dell'art. 55, comma 10, del cod. proc. amm., nella quale avrebbero potuto compiutamente delibarsi le questioni di incostituzionalità prospettate che, ad un sommario esame, al giudice di seconde cure apparivano rilevanti e non manifestamente infondate.

 9 - Che all'esito dell'udienza pubblica dell'8 giugno 2016 il ricorso è stato quindi introitato dal Collegio per la decisione.

 10 - Che, ai fini della decisione delle complesse e delicate questioni evocate dall'odierno esponente, vanno tenute distinte le due vicende portate all'attenzione del Collegio: la prima, relativa all'applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011, e del successivo art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89 - norme che hanno, rispettivamente, introdotto e ulteriormente ridotto il nuovo tetto economico agli emolumenti a carico delle finanze pubbliche - la cui stessa legittimità costituzionale viene posta in dubbio dal ricorrente; la seconda vicenda, legata all'applicazione dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge 27 dicembre 2013 n. 147, disposizione che viene sostanzialmente contestata sul solo piano dell'applicabilità al caso concreto e non anche della legittimità.

 11 - Che le suddette questioni riguardano entrambe l'odierno esponente in modo diretto e personale, andando ugualmente ad incidere - in pejus - sul suo trattamento retributivo ma che tuttavia discendono da disposizioni normative logicamente indipendenti e sono quindi suscettibili di essere trattate in modo disgiunto e autonomo, di tal che nessuna delle due assume carattere di pregiudizialità o di complementarità rispetto all'altra, mentre solo la prima questione, evocando dubbi di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, può formare oggetto di scrutinio nella presente sede; e che pertanto il Collegio rinvia ad altra sede la delibazione della seconda questione, per la decisione della quale, avendo ravvisato la necessità di maggiori ragguagli in ordine al titolo dell'originaria attribuzione al dott. I. dell'assegno personale pensionabile e non riassorbibile e alle modalità applicative del lamentato taglio dell'indennità suddetta, con ordinanza n. 7958 del 2016 ha posto a carico delle amministrazioni intimate l'esecuzione di incombenti istruttori.

 12 - Che il Collegio deve dunque esaminare le plurime questioni di possibile illegittimità costituzionale, rispettivamente, dei ripetuti art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011 e 13, comma 1, del decreto-legge n. 66/2014 - sollevate dal ricorrente ma altresì deducibili d'ufficio e in tal senso integrate anche dal decidente - per la possibile violazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104, 108 e 117 della Costituzione, anche in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

 13 - Che la rilevanza delle indicate questioni di legittimità costituzionale per la decisione del giudizio a quo non appare dubbia alla luce dell'esposizione dei fatti di causa, atteso che i provvedimenti impugnati con il primo motivo di ricorso trovano un'indefettibile base normativa nei citati art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011, e 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, di modo che il loro eventuale annullamento per illegittimità costituzionale comporterebbe l'illegittimità derivata di quegli atti, con il conseguente accoglimento, in parte qua, del ricorso.

 14 - Che ben più complesso è il vaglio della «non manifesta infondatezza» dei numerosi profili di illegittimità costituzionale sopra indicati, riservato al giudice a quo.

 Non fondata appare, in primo luogo, la censura riferita al possibile profilo di illegittimità dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011 e dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, per violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;

come già nelle precitate ordinanze della Sezione, il Collegio osserva che la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia ha espressamente chiarito che questo principio è fondamentale nell'ordinamento europeo (fra le altre, la sentenza CGUE, 14 settembre 2006, cause riunite C-181/04 e C-183/04, ha sancito che «i principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario; pertanto devono essere rispettati dalle istituzioni comunitarie ma anche dagli Stati membri nell'esercizio dei poteri loro conferiti dalle direttive comunitarie»), mentre sul piano interno la migliore dottrina e la giurisprudenza gli annettono una valenza costituzionale alla stregua dei principi di legalità (art. 1 Cost.), e di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2) in condizioni di eguaglianza davanti alla legge (articoli 3 e 97).

 Al riguardo, riconosciuta la piena operatività nel nostro ordinamento del principio di tutela della certezza giuridica e del legittimo affidamento, il Collegio tuttavia osserva che il nuovo tetto economico in esame - introdotto dall'art. 23-ter e ulteriormente ridotto dall'art. 13, comma 1, citt. - risponde agli obiettivi d'interesse pubblico generale lasciati alla discrezionalità dei singoli Stati quanto al contenimento, alla trasparenza ed alla congruità della spesa pubblica, nel quadro dei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 della Costituzione e dei principi di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., mentre la Corte costituzionale ha più volte chiarito che, salvi i limiti in materia penale derivanti dall'art. 25, comma 2, Cost., non è in linea di principio precluso al legislatore intervenire per mutare la disciplina dei rapporti di durata in corso, anche con disposizioni che modificano in senso sfavorevole situazioni soggettive perfette, purché nel limite del rispetto del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. e del principio di affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, che non appaiono violati nella fattispecie in esame (in senso conforme, Corte costituzionale, sentenze n. 92 del 2013, n. 166 del 2012, n. 525 del 2000, n. 211 del 1997, n. 409 del 1995).

 La questione in esame si rivela pertanto, a giudizio del Collegio, non fondata.

 15 - Che ugualmente non fondata - salvo quanto si dirà al numero successivo - è, per consolidata opinione del Collegio, la possibile questione di legittimità per violazione degli articoli 3 e 53 Cost. riferita all'effetto delle disposizioni in esame di trattenimento forzoso di una parte (ampia) della remunerazione dell'attività lavorativa, che corrisponderebbe all'imposizione di un prelievo fiscale speciale, ovvero di un prelievo di natura tributaria perché imposto a fini di finanza pubblica e incidente in beni materiali dei percossi, ma discriminatorio in quanto gravante solo sui dipendenti pubblici, lasciando indenne la posizione di coloro che prestino servizio alle dipendenze di un datore di lavoro privato o esercitino attività libero-professionale.

 Infatti, considera il Collegio che le descritte finalità di contenimento, trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica determinano, non irragionevolmente, una progressiva decurtazione, disciplinata ex lege, dei possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato, indifferenziatamente applicata a tutti i compensi comunque posti a carico della finanza pubblica, senza che ciò possa generare, proprio per la sua trasversalità, indebite disparità di trattamento, divenendo quindi non rilevante, ai fini del giudizio a quo, la sua invocata qualificazione quale imposizione fiscale, che sembra comunque doversi escludere, in quanto la legge, in estrema sintesi, pone un «tetto» a regime all'erogazione a chiunque di somme a titolo retributivo (e pensionistico) poste a carico della finanza pubblica, anziché imporre un prelievo forzoso sulle somme percepite dal singolo interessato oltre il tetto prefissato.

 16 - Che a conclusioni più articolate - peraltro già sviluppate da questo Tribunale nelle ripetute ordinanze nn. 5715, 5716, 5718, 5721, 5723, 5725, 5727 del 17 aprile 2015 e nn. 5833, 5835, 5836 e 5839 del 21 aprile 2015 nonché, più di recente, nelle ordinanze nn. 4153/2016 e 4250/2016 - si presta la questione di possibile illegittimità dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011, e dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, per violazione degli articoli 3, 4, 36 e 38 nonché dagli articoli 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, in quanto il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta che la remunerazione dell'esercizio della funzione di giudice ordinario, nella specie il servizio come Procuratore aggiunto della Repubblica, risulti fortemente ridotta con una corrispondente decurtazione del trattamento di fine servizio e pensionistico, sì da determinare una violazione del diritto al lavoro e ad una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità» del lavoro prestato oltre che un indebolimento delle garanzie di indipendenza nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali.

 17 - Che in tal modo la scelta dello Stato, mediante le disposizioni di legge in esame, di avvalersi del pieno apporto professionale del ricorrente (nulla la norma dicendo al riguardo, salve le sue eventuali dimissioni per evitare, in applicazione delle citate norme, di prestare attività lavorativa non adeguatamente retribuita) anziché disciplinare normativamente l'ipotesi in esame (ad esempio, prevedendo una opzione per funzioni più limitate e retribuite in minor misura, oppure del tutto onorarie e gratuite) e al tempo stesso di «di auto-esonerarsi» in parte dalla sua retribuzione (non ponendo alcuna deroga al tetto a tale riguardo, malgrado l'elevatissimo standard professionale raggiunto in ragione della delicatezza e dell'impegno delle funzioni da svolgere), appare costituzionalmente irragionevole, con la conseguente possibile violazione dell'art. 36, primo comma, della Costituzione, quanto al diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità (oltrechè alla qualità) del lavoro, nonché, indirettamente, dell'art. 38 della Costituzione, in quanto la drastica riduzione della retribuzione - e quindi della relativa contribuzione - precludono la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall'ordinamento.

 18 - Che a giudizio del Collegio sembra potersi parimenti dedurre la violazione dagli articoli 100, 101, 104 e 108 Cost., quanto al possibile vulnus allo status di indipendenza ed autonomia dei magistrati, protetto dalle predette disposizioni costituzionali. Infatti, la Corte costituzionale, nel decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e la disciplina dell'adeguamento retributivo dei magistrati, ha affermato che l'indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante l'«apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti concernenti, fra l'altro, la progressione in carriera ed il trattamento economico (così, fra le altre, sentenza n. 1 del 1978) che, in un assetto costituzionale dei poteri dello Stato che vede la magistratura come ordine autonomo ed indipendente, non possono esaurirsi in un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto» (Corte costituzionale, sentenza n. 223 del 2012).

 19 - Che l'accertata rilevanza e non manifesta infondatezza della predetta questione incidentale di legittimità costituzionale dei citati articoli 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011, e 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, nei termini sopra evidenziati, determina la necessità di rimettere gli atti di causa alla Corte costituzionale sospendendo il presente giudizio fino alla sua decisione, per la parte relativa alla vicenda applicativa conseguente all'adozione delle disposizioni predette.

 

P.Q.M.

 

Non definitivamente pronunciando sul ricorso n. 6647/2015, come in epigrafe proposto, visti gli articoli 1 della legge 9 febbraio 1948 n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, riservata ogni altra pronuncia nel merito e sulle spese, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, meglio evidenziata in premessa, degli articoli 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge n. 214/2011 e 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, in relazione agli articoli 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.

 Dispone la sospensione parziale del presente giudizio e ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

 Ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

 Riserva al definitivo ogni statuizione in rito, nel merito e sulle spese.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. del 26 ottobre 2016, n. 43