Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 giugno 2016, n. 12103

Rapporto di lavoro - Demansionamento - Mobbing - Risarcimento danni - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 18.6.13 la Corte d'appello di L’Aquila rigettava il gravame dell'Azienda Speciale per i Servizi Sociali del Comune di Montesilvano contro la sentenza n. 1694/11 con cui il Tribunale di Pescara l'aveva condannata a pagare in favore della dott.ssa M.R. (sua dipendente), la somma di € 24.705,87 a titolo di risarcimento danni per demansionamento e mobbing.

Per la cassazione della sentenza ricorre l'Azienda Speciale per i Servizi Sociali del Comune di Montesilvano affidandosi a due motivi.

L'intimata resiste con controricorso.

Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 182 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost., per avere il difensore dell'odierna controricorrente utilizzato nei giudizi di merito la procura rilasciatagli solo per il preventivo procedimento cautelare promosso ex art. 700 c.p.c., poi estintosi per sopravvenuta carenza di interesse ad agire.

Il motivo è improcedibile perché formulato senza rispettare l'onere di cui all'art. 369 co. 2° n. 4 c.p.c.

A tal fine non basta la mera allegazione della precedente produzione eventualmente contenente l'atto (nella specie, il ricorso ex art. 700 c.p.c. contenente la procura rilasciata dall'attrice al difensore in occasione del promovimento dell'azione cautelare) su cui venga fondato il ricorso. È, invece, altresì necessario che se ne indichi - cosa che l'odierna ricorrente non ha fatto - la precisa collocazione nell’incarto processuale (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 22726/2011), per consentire a questa S.C. di operarne un'immediata verifica (segnatamente - nel caso in esame - allo scopo di accertare se, alla stregua del tenore testuale della procura in discorso, la procura dovesse intendersi come espressamente limitata alla sola fase cautelare o estesa anche al successivo giudizio di merito).

2- Il secondo mezzo prospetta vizio di motivazione riguardo alle circostanze di fatto del mobbing ravvisato dai giudici di merito: lamenta a riguardo la ricorrente che non si è verificata alcuna limitazione delle precedenti mansioni espletate dall'odierna intimata, avendo la Corte territoriale travisato i fatti e la legge, anche perché le mansioni di coordinamento del servizio sociale, in quanto spettanti unicamente al Comune di Montesilvano, non avrebbero mai potuto essere conferite alla dott.ssa R.; prosegue il ricorso con il lamentare un ulteriore travisamento nella parte in cui i giudici di merito non hanno tenuto conto del fatto che esattamente era stata contestata alla lavoratrice un'incompatibilità (dimostrata per tabulas) fra le sue mansioni di capo area e l'incarico, affidatole dalla Coop. Sociale A., di coordinare il progetto "E."; né - conclude il ricorso - si è considerato che i fatti giudicati "inquietanti" dalla sentenza impugnata sono stati poi oggetto d'una sentenza di assoluzione pronunciata dall'A.G. penale, che ha escluso che all'interno dell’azienda ricorrente qualcuno volesse nuocere alla dott.ssa R.

Il motivo va disatteso.

Da un lato, in esso si sollecita una mera rivalutazione delle risultanze istruttorie, di cui si denuncia un sostanziale travisamento, tralasciando che tale ipotetico vizio può astrattamente farsi valere - ove mai del caso - solo in via di revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c. (revocazione che, infatti, in ricorso si afferma essere stata proposta nella competente sede) e non mediante ricorso per cassazione (giurisprudenza costante: cfr., ex aliis, Cass. n. 3535/15; Cass. n. 24834/14; Cass. n. 15702/10; Cass. n. 213/07).

Dall'altro, la nuova formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell'art. 54, co. 3°, d.l. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata) rende denunciabile per cassazione solo il vizio di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

In tal modo il legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all'originaria formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. del codice di rito del 1940.

Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell'interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di "minimo costituzionale", ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c.

Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Per l'effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.

Secondo le S.U., l'omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).

Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche l'omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria come astrattamente rilevanti.

A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).

Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalia sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.

L'omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell'ottica della sentenza n. 8053/14 come il "tassello mancante" (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

Invece, il ricorso in oggetto non risponde ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U.

Né può accogliersi - perché in sostanza costituisce un inammissibile nuovo motivo di ricorso - la prospettata violazione dell'art. 132 c.p.c. (di cui si legge nella memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dall'azienda ricorrente), che non può confondersi con il vizio di cui all'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c., costituendo - invece - una denuncia di error in procedendo (di cui al precedente n. 4) tale da comportare nullità della sentenza (per altro comunque da escludersi nel caso in oggetto, atteso che la motivazione resa dalla Corte territoriale è tutt'altro che apparente, perplessa, oggettivamente incomprensibile o manifestamente e irriducibilmente contraddittoria).

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 3.600,00, di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.