Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 aprile 2017, n. 8834

Lavoro - Superamento del periodo di comporto - Aspettativa non retribuita - Scadenza - Risoluzione del rapporto di lavoro

 

Fatti di causa

 

La Corte d'Appello di Palermo confermava la pronuncia emessa dal giudice di prima istanza, con cui era stato respinto il ricorso proposto da C.G. nei confronti della s.p.a. P.I. inteso a conseguire la declaratoria di illegittimità del recesso intimatogli il 13/1/2009 per superamento del periodo di comporto, e la condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro con gli ulteriori effetti risarcitori sanciti dall'art. 18 legge n. 300 del 1970.

In giudice dell'impugnazione perveniva a tali conclusioni dopo aver rilevato, in fatto, che con lettera 31/12/08 il lavoratore aveva chiesto di usufruire della aspettativa non retribuita per malattia dal 1/1/09 al 9/1/09, e di un successivo periodo di ferie dal 10/1/09 al 20/1/09. Osservava, tuttavia, che il 9 gennaio era scaduto il periodo di aspettativa per malattia previsto dall'art. 40 c.c.n.I. di settore del 2003, sicché a norma del quarto comma di detta disposizione, la società aveva il potere di risolvere il rapporto. La Corte di merito non mancava di precisare che, al fine di sospendere il decorso di detto periodo, il lavoratore avrebbe potuto chiedere di usufruire di un periodo di ferie in epoca anteriore alla scadenza dei dodici mesi di aspettativa per malattia, ma non successiva, così come avvenuto nella fattispecie, rimarcando, da ultimo, che il mutamento del titolo della assenza presupponeva la permanenza dello stato di malattia anche per il periodo successivo al 9/1/09, circostanza questa, non dimostrata dal lavoratore.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il Cali affidato a quattro motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso la società intimata.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 43 c.c.n.I. di settore del 2007 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..

Si deduce che ai sensi della disposizione contrattuale collettiva, superate il periodo di comporto, al lavoratore che ne faccia richiesta e perdurando la malattia, può essere concesso un periodo di aspettativa non retribuita. Si argomenta, quindi, che una corretta interpretazione della norma postula la coincidenza della cessazione del periodo di comporto con il momento del superamento del termine ultimo di scadenza e non con quello di mero raggiungimento del termine stesso.

Nell'ottica descritta, si deduce che alla data del 9/1/2009 il periodo di comporto non era esaurito sicché, ripreso servizio il giorno successivo, rimaneva preclusa la possibilità per la parte datoriale di esercitare il diritto di recesso.

2. Il motivo va disatteso.

Al di là del pur assorbente rilievo circa la novità della questione proposta, che non risulta oggetto di trattazione nei pregressi gradi di giudizio, la censura presenta evidenti profili di improcedibilità.

Non può prescindersi, sul punto, dal richiamo all'orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all'art. 366 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame (vedi Cass. 6/3/2012 n. 4220, Cass. 9/4/2013 n. 8569, cui adde Cass. 24/10/2014 n. 22607).

Come le Sezioni Unite di questa Corte insegnano, infatti, l'onere di deposito sancito, a pena di improcedibilità, dall'art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., deve avere ad oggetto l'integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell'esercizio del sindacato di legittimità sull'interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale (Cass. SS.UU. 23/9/2010 n. 20075).

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità, giacché nell'ambito della contrattazione di lavoro privato la conoscenza del giudicante è consentita mediante l'iniziativa della parte interessata, da esercitare attraverso le modalità proprie del processo, non essendo previsti i meccanismi di pubblicità che assistono la contrattazione di lavoro pubblico (cfr. Cass. SS.UU. 12/10/2009 n. 21558 e Cass. 4/11/2009 n. 23329).

E' stato altresì precisato che "l'onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali - nel rispetto del principio di cui all'art. 111 Cost., letto in coerenza con l'art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli - anche mediante la riproduzione, nel corpo dell'atto d'impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio onde verificare l'esattezza dell'interpretazione offerta dal giudice di merito (vedi ex aliis,Cass. 7/7/2014 n. 15437).

Può quindi affermarsi che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un contratto collettivo da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - imposto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 - di produrlo integralmente agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi l'accordo in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto dello stesso.

Nello specifico, il ricorrente si è limitato a riprodurre il solo tenore dell'art. 43 del contratto collettivo per il personale non dirigente della società P.I. del 2007, omettendo di indicare in quale parte del fascicolo il contratto sia rinvenibile né se sia stato prodotto integralmente, sicché il motivo svolto non si sottrae ad un giudizio di improcedibilità alla stregua dei dettami sanciti dall'art. 369 c.p.c., comma 2 n. 4.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 2 I. 604/66 in relazione all'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..

Si deduce che la mancata indicazione nella lettera di licenziamento, del numero e della collocazione temporale delle assenze registrate, precludeva alla società la possibilità di far valere le dette assenze nelle proprie difese, in virtù della regola della immodificabilità delle ragioni di licenziamento.

4. Il motivo è destituito di fondamento.

Questa Corte ha affermato in più occasioni (vedi Cass. 25/11/2010 n. 23920, Cass. 18/11/2010 n. 23312, ed in motivazione, Cass. 3/5/2016 n. 8707) che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è assimilabile al licenziamento disciplinare, per cui solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato; tanto sul rilievo che l'onere di forma ha la funzione di individuare e cristallizzare la ragione giustificativa del provvedimento espulsivo, che nel caso è riferita ad un evento - I' assenza per malattia - di cui il lavoratore ha conoscenza diretta.

La statuizione impugnata resiste, pertanto, alla censura all'esame.

5. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 2110, 1175, 1375 c.c., dell'art. 36 Cost.nonché dell'art. 10 d.lgs. 66/03 ex art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.. Si deduce che in presenza di un'espressa richiesta del lavoratore, la parte datoriale non può rifiutare di concedere le ferie adducendo generiche esigenze aziendali dovendo fornire una giustificazione specifica sul diniego, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, richiamandosi al riguardo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui è illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto allorché il lavoratore abbia tempestivamente richiesto al datore di fruire di un periodo di ferie in luogo del periodo di malattia ricevendo un immotivato diniego.

6. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c..

Si critica la statuizione del giudice del gravame laddove ha affermato che, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, il lavoratore avrebbe dovuto mutare il titolo dell'assenza per malattia in assenza per ferie, in relazione al periodo anteriore alla scadenza della aspettativa per malattia. Si argomenta che, per converso, la richiesta di godimento delle ferie era stata proposta anteriormente alla scadenza del periodo di malattia, in tal senso palesandosi la carenza della pronuncia impugnata che di tale circostanza aveva omesso la doverosa considerazione.

7. Le censure, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono meritevoli di accoglimento.

Occorre premettere, come questa Corte ha già ricordato in numerosi approdi (vedi da ultimo, in motivazione, Cass. 20/9/2016 n. 18420), che scopo delle regole dettate dall'art. 2110 c.c. per l'ipotesi di assenza determinata da malattia del lavoratore è quello di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora, e del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, riversando sull'imprenditore, in parte e per un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente, per modo che il superamento del dato temporale è condizione sufficiente a legittimare il recesso, non essendo necessaria alcuna prova di giustificato motivo oggettivo né di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa o di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. 20/5/2013 n. 12233).

8. Sulla questione in questa sede delibata, è bene rammentare ancora, il consolidato orientamento di legittimità secondo cui il lavoratore assente per malattia e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio ha facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia (vedi Cass. 3/3/2009 n. 5078).

Nell'ottica descritta è stato rimarcato altresì, che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, deve attenersi alla direttiva conferitagli dalla legge ex art. 2109 secondo comma c.c., di armonizzare le esigenze aziendali con gli interessi del lavoratore, essendo tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore, in quanto esposto alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto.

9. Non può peraltro, sottacersi il rilievo che la descritta facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie da parte del lavoratore, non è incondizionata (vedi ex aliis, Cass. 09/04/2003 n. 5521), non potendo configurarsi un obbligo a carico della parte datoriale di accedere a tale istanza allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto nell'ipotesi di superamento del periodo di comporto (vedi in tali sensi, Cass. 8/11/2000 n. 14490, Cass. cit. n. 5521/2003, Cass. 10/11/2004 n. 21385).

10. Orbene, a siffatti principi si è conformata la Corte distrettuale la quale, nel proprio iter motivazionale ha rilevato come il lavoratore, alla data del 9 gennaio 2009, già esaurito il periodo di comporto, avesse ormai completato anche il periodo di aspettativa di dodici mesi previsto dal contratto collettivo di settore, di guisa che a tale data, essendo trascorso il periodo massimo di conservazione del posto, la società era legittimata a risolvere il rapporto di lavoro inter partes.

La Corte ha avuto modo quindi, di rilevare l'insussistenza, per la parte datoriale, di soluzioni alternative alla intimazione del recesso, non avendo il dipendente formulato alcuna istanza di ferie da usufruire in epoca anteriore alla cessazione del rapporto stesso.

11. Né è significativo il rilievo - introdotto in causa con il quarto motivo ai sensi del n. 5 comma primo art. 360 c.p.c. - conferito dal ricorrente alla omessa considerazione da parte dei giudici del gravame, della circostanza concernente la proposizione della domanda di ferie sin da epoca anteriore alla scadenza del periodo di aspettativa.

La circostanza è infatti priva di valenza decisiva ai fini della soluzione della questione qui delibata, ove si faccia richiamo al principio più volte affermato in questa sede di legittimità, in base al quale l'aspettativa opera nel rapporto di lavoro alla stregua di una parentesi che determina la sospensione di tutte le obbligazioni sinallagmatiche tra le parti senza decorrenza dell'anzianità e senza corresponsione della retribuzione e non può essere considerata utilmente al fine di ampliare il periodo di comporto (vedi in motivazione, Cass. 20/9/2016 n. 18420, Cass. 12/2/2015 n. 2794 Cass. 20/5/2013 n. 12233).

Nell’ottica descritta la proposizione dell-a domanda di ferie da parte del lavoratore anteriormente al decorso del periodo di aspettativa e con decorrenza successiva al termine di essa, non poteva, quindi, considerarsi rilevante ai fini perseguiti dal lavoratore e suscettibile di essere esaminata ed accolta dalla società, in quanto intervenuta quando il periodo di comporto era ormai incontestabilmente esaurito, e la decorrenza richiesta travalicava anche il periodo di aspettativa cui il ricorrente aveva diritto.

In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese del presente giudizio segue, infine, il regime della compensazione, in considerazione della complessità e delicatezza delle questioni trattate.

Occorre, infine, dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.