Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 maggio 2018, n. 20422

Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta - Utilizzo di fatture per operazioni inesistenti - Responsabilità penale - Condanna del titolare di ditta individuale - Manifestazione del dolo - Trasmissione telematica della dichiarazione fraudolenta

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 14/07/2017, la Corte di appello di Milano in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pavia del 29.4.2016 - che aveva dichiarato C.E., nella qualità di titolare della omonima ditta individuale, responsabile dei reati di agli artt. 8, comma 1 (capo 2) e 2, comma 1 ( capi 3, 4, 5) del d.lgs 74/2000 (assolvendolo dal reato di cui al capo 1) e lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi tre di reclusione - dichiarava non doversi procedere in ordine ai reati di cui ai capi 2) e 3) per essere estinti per prescrizione e riduceva la pena ad anni due e mesi uno di reclusione.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione C.E., a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce violazione dell'art. 507 cod.proc.pen. e del diritto di difesa, lamentando che il Tribunale aveva disposto l'esame testimoniale dei militi della Guardia di Finanza delle sezioni di Voghera e Clusone, nonostante essa non fosse mai stata richiesta dal P.M, esercitando i poteri di cui all'art. 507 cod.proc.pen. prima che fosse terminata l'acquisizione della prova; proposto motivo di appello sul punto, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che il Tribunale avesse correttamente applicato il disposto dell'art. 507 cod.proc.pen., in quanto le verifiche effettuate dalle sezioni di Voghera e Clusone non erano state mai acquisite neppure in fase di indagini preliminari e la difesa si era opposta all'escussione dei testi in questione.

Con il secondo motivo deduce violazione dell'art. 2 d.lgs 74/2000 in relazione alla configurabilità della condotta tipica, lamentando che la Corte territoriale aveva tratto la prova dell'elemento costitutivo del reato (indicazione delle fatture o di altro documento in una delle dichiarazioni sui redditi o sul valore aggiunto) dalle dichiarazioni rese dal teste P..

Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del dolo specifico, lamentando che la motivazione esposta dalla Corte territoriale era di mero stile e fondata su una non corretta valutazione del materiale probatorio.

Con il quarto motivo deduce violazione di legge in relazione al trattamento sanzionatorio, lamentando che, nonostante la dichiarazione di estinzione del reato di cui al capo 2), individuato dal Tribunale quale reato più grave, la Corte territoriale non aveva rideterminato la pena considerando i soli fatti di cui ai capi 4) e 5), meno gravi di quelli coperti dalla prescrizione.

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, il giudice può esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art. 507 cod. proc. pen., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto; (Sez.U, n. 41281 del 17/10/2006, Rv. 234907; Sez.2, n. 31882 del 30/06/2016, Rv. 267505; Sez.3, n. 38222 del 25/05/2017, Rv. 270802).

Ed è stato precisato che l'ammissione di una prova testimoniale non tempestivamente indicata dalla parte nell'apposita lista testimoniale non comporta alcuna nullità, nè la prova in questione, dopo essere stata assunta, può essere considerata inutilizzabile, considerato che rientra nei poteri del giudice acquisire prove anche d'ufficio, come previsto dall'art. 507 cod.proc.pen. (Sez.5, n. 8394 del 02/10/2013, dep.21/02/2014, Rv. 259049; Sez. 5, n. 15325 del 10/02/2010, Rv. 246873; Sez. 5, n. 8394 del 02/10/2013, dep. 2014, Rv. 259049; Sez.2, n. 31882 del 30/06/2016, Rv. 267505, cit.).

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Com'è noto, il principio generale della fase della valutazione della prova è quello del libero convincimento del Giudice: il Giudice, con il limite dell'onere di motivazione, è libero di determinare la credibilità delle fonti e l'attendibilità delle rappresentazioni che queste fonti hanno portato nel processo, nel rispetto delle regole che sono stabilite dal codice di procedura penale e senza la presenza di prove legali.

Nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste l'istituto della prova legale, che costituisce ipotesi nella quale la legge si sostituisce al libero convincimento del Giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova.

Ne consegue l'affermazione che il Giudice può trarre la prova dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 2 d. Igs 74/2000 non solo da prove documentali ma anche da prove testimoniali ove, come avvenuto nella specie con riferimento alle dichiarazioni rese dal teste Pitagora (maresciallo della Guardia di Finanza di Pavia), dia adeguatamente conto della attendibilità e credibilità delle fonti e degli elementi di prova posti a fondamento dell'affermazione di responsabilità.

3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Questa Corte ha affermato che il dolo di evasione deve sussistere al momento della consumazione del reato e, dunque, in quello della presentazione (o trasmissione in via telematica) della dichiarazione nella quale sono indicati gli  elementi passivi fittizi, non in quello antecedente della annotazione in contabilità della fattura; la presentazione/trasmissione della dichiarazione si traduce in un atto che esce dalla sfera soggettiva del contribuente, per porsi quale elemento strutturale della fattispecie, la cui realizzazione segna la consumazione del reato (Sez U, n. 2333 del 03/02/1995, Aversa, Rv. 200260; Sez. 3, n. 25808 del 16/03/2016, Pescali, Rv. 267659; Sez.3, n.37848 del 29/03/2017, Rv. 271044).

Inoltre, l'accertamento del dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all'art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è riservato al giudice di merito e, se adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 27112 del 19/02/2015, Rv. 264390).

Nella specie, i Giudici di merito hanno tratto la prova del dolo di evasione dalle stesse modalità della condotta caratterizzata da una sistematica creazione di costi e voci passive inesistenti - portati dalle fatture per operazioni inesistenti indicate scientemente nelle relative dichiarazioni dei redditi - inserita "nel quadro all'interno del quale l'imputato era solito agire, intrattenendo regolarmente rapporti commerciali fittizi con ditte individuali fantoccio".

La motivazione offerta dalla Corte territoriale a fondamento dell'accertamento dell'elemento psicologico ha tenuto conto di tutti gli elementi fattuali rilevanti, e si connota come adeguata e priva di vizi logici e, pertanto, si sottrae al sindacato di legittimità.

4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. La Corte territoriale, nel rideterminare la pena a seguito della intervenuta prescrizione del reato più grave (capo 2) sul quale era stata calcolata la pena base, determinando la nuova pena base in misura identica a quella del reato più grave dichiarato prescritto, ha irrogato una pena finale inferiore a quella applicata dal primo giudice così non incorrendo nella violazione dell'art. 597 cod.proc.pen.

Va ricordato che nel giudizio di appello, il divieto di "reformatio in peius" della sentenza impugnata dal solo imputato non riguarda unicamente l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, quando esclude uno dei reati in continuazione e per l'effetto infligge una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. un., 27 settembre 2005, n. 40910, William Morales, Rv 232066; nonchè Sez. 2, n. 5502 del 22/10/2013, dep. 04/02/2014, Rv. 258263, che ha affermato che nel giudizio di appello instaurato a seguito di impugnazione del solo imputato, viola il divieto della "reformatio in peius" il giudice che, in ipotesi di reato continuato, dichiari la prescrizione per la violazione ritenuta più grave in primo grado e ridetermini la nuova pena base in relazione ad altro reato, in maniera superiore a quella in precedenza stabilita e Sez. 2, n. 48259 del 23/09/2016, Rv.268636, che ha ribadito che nel giudizio di appello, il divieto di "reformatio in peius" della sentenza impugnata dal solo imputato non riguarda unicamente l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, quando esclude uno dei reati in continuazione e per l'effetto infligge una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado.

5. Alla manifesta infondatezza dei motivi proposti consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.