Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 22 giugno 2017, n. 15590

Licenziamento - Grave insubordinazione ai superiori - Espressioni gravemente ingiuriose - Gravità del comportamento del lavoratore

Rilevato

che, con sentenza del 3.12.2015, la Corte di appello di Napoli respingeva il gravame proposto da C.L. avverso la decisione con la quale era stata respinta l'opposizione avverso l'ordinanza resa dallo stesso Tribunale ai sensi dell'art. 1 legge 92/12 che aveva rigettato il ricorso di impugnativa del licenziamento intimato al predetto il 21.10.2013 per grave insubordinazione ai superiori;

che la Corte osservava che non vi era stata alcuna condotta del rappresentante della società idonea a provocare una reazione del dipendente, il quale aveva posto in essere un comportamento idoneo a giustificare la sanzione espulsiva (espressioni gravemente ingiuriose pronunziate, con tono arrogante e minaccioso, all'indirizzo del responsabile del personale della società);

che di tale sentenza il C. chiede la cassazione sulla base di unico motivo, al quale ha opposto difese la società, con controricorso;

che la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale è stata depositata comparsa di costituzione di nuovo difensore della controricorrente, a seguito di rinuncia al mandato di quello costituito;

 

Considerato

 

1. che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata;

2. che il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2118 c. c. e dell'art. 48 del contratto collettivo nazionale di lavoro, rilevando che il giudizio di proporzionalità non è precluso dalla previsione della norma collettiva e sostenendo che ha errato il giudice del gravame nell'affermare che il giudizio di proporzionalità sia precluso dall'art. 48 ccnl, che annovera tra le ipotesi di licenziamento per giusta causa la fattispecie della grave insubordinazione ai superiori;

osserva che anche nel sistema normativo introdotto dalla legge 92/12 sussiste la possibilità per il giudice di valutare circostanze esimenti che attenuano la responsabilità disciplinare ove la sanzione si riveli sproporzionata rispetto alla vicenda complessivamente considerata;

che il C. evidenzia come nella specie gli elementi caratterizzanti la condotta posta in essere inducevano ad escludere la legittimità del licenziamento per sproporzione della sanzione irrogata;

3.1. che va premesso che, in relazione a quanto previsto dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, l'area del fatto contestato non può estendersi sino a ricomprendervi la gravità del comportamento di rilievo disciplinare, ostandovi il tenore testuale del comma 4 dell'art. 18, che fa rientrare il difetto di proporzionalità tra "le altre ipotesi" di insussistenza della giusta causa (o del giustificato motivo soggettivo) per le quali è prevista dall'art. 18, comma 5, la tutela indennitaria (cfr. Cass. 12/5/2016 n. 10019 nonché 20/09/2016 n. 18418 e Cass. 6/11/2014 n. 23669);

3.2. che il Collegio ritiene inammissibile il ricorso, perché la sentenza impugnata rileva, confermandone il percorso argomentativo, come il Tribunale abbia ritenuto non solo che il comportamento addebitato al C. integrasse la previsione di cui alla norma collettiva richiamata, ma altresì la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c. c. in relazione ad un'analitica disamina delle risultanze processuali e di ogni altro aspetto del caso concreto, sia sotto l'aspetto soggettivo che oggettivo;

3.3. che va ribadito come, in tema di licenziamento, in ogni caso, la nozione di giusta causa sia nozione legale, sicchè il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi (la cui natura esemplificativa ultimamente confermata anche da: Cass. 12 febbraio 2016, n. 2830); ciò non esclude, tuttavia, che egli ben possa far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità, con accertamento da operare caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi (Cass. 23 marzo 2016, n. 5777; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27464; Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906);

3.4. che è poi principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello alla cui stregua il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003);

che nella specie la decisione è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, sicchè la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare l'omesso esame di un fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità, avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (Cass. n. 20817 del 2016);

che, invece, il C. si limita a valorizzare taluni elementi che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali in luogo di altri, ma alcuno di detti fatti può ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicché le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del merito, evidentemente non consentita in questa sede, perché questa Corte può sindacare ma non sostituire il giudizio di fatto correttamente espresso dai giudici al cui dominio è istituzionalmente riservato (cfr., in tali termini, Cass. 9.12.2016 n. 25263);

4. che sulla base delle svolte argomentazioni deve essere condivisa la proposta del relatore, risultando coerente con le prime la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

5. che le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo;

6. che sussistono le condizioni di cui all'art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002;

 

P.Q.M.

 

Dichiara l'inammissibilità del ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art.13, comma Ibis, del citato D.P.R.