Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 aprile 2018, n. 8893

Tributi - Reddito d’impresa - Imputazione temporale dei costi - Provvigioni - Esercizio in cui gli ordini sono accettati - Previsione contrattuale - Legittimità

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 74 del 21 maggio 2009 la Commissione Tributaria Regionale della Toscana accoglieva parzialmente l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la statuizione di primo grado che aveva accolto, previa riunione, i ricorsi proposti dalle società contribuenti, N.P.H. S.p.a. e N.P. S.p.a., avverso gli avvisi di accertamento emessi dall'amministrazione finanziaria ai fini IVA, IRPEG ed IRAP, relativamente agli anni di imposta 1998 e 1999, sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F. in data 28/09/2000.

1.1. I giudici di appello, per quanto ancora qui di interesse, ritenevano, contrariamente a quanto statuito dai giudici di prime cure, che nel caso di specie i termini di accertamento di cui agli artt. 43 d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 d.P.R. n. 633 del 1972 dovevano ritenersi prorogati ai sensi dell'art. 10 della legge n. 289 del 2002, in quanto le società contribuenti non si erano avvalse della definizione del processo verbale di constatazione con esito positivo, loro notificato precedentemente all'entrata in vigore della citata legge, essendo all'uopo irrilevante la successiva presentazione della dichiarazione integrativa ex art. 8, perché preclusa ai sensi del comma 10 della medesima disposizione; ritenevano, inoltre, che le società contribuenti avevano correttamente dedotto le spese per provvigioni contrattualmente dovute ad una società controllata (nella misura dell'1 per cento del prezzo base netto dell'ammontare complessivo degli ordini) nell'esercizio in cui era certa l'esistenza dei predetti componenti negativi di reddito, nella specie da identificarsi in quello in cui vi era stata l'accettazione degli ordini da parte del committente, come previsto dal contratto di agenzia, e non in quello in cui si erano realizzati i relativi ricavi, come invece sosteneva l'amministrazione finanziaria; ritenevano, quindi, che il recupero a tassazione, effettuato dall'amministrazione finanziaria per difetto del requisito dell'inerenza, delle royalties per l'uso dei marchi e dei bervetti versate dalla controllata N.P. s.p.a. alla controllante N.P.H. s.p.a. con riferimento ai contratti in cui quella era subentrata, era illegittimo giacché, essendo «nell'esercizio della loro autonomia negoziale, i contraenti [...] liberi di determinare il corrispettivo delle reciproche prestazioni», nella specie le parti avevano espressamente previsto di non ricomprendere il corrispettivo per l'utilizzo dei marchi e brevetti nei rapporti in corso nei quali la conferitaria era subentrata; con riferimento alla ripresa a tassazione operata in relazione alla complessa operazione di riorganizzazione del gruppo aziendale, concretizzatasi nella fusione per incorporazione della T. s.p.a. nella N.P. s.p.a. (ora N.P.H. s.p.a.) e la successiva cessione di due rami di azienda della predetta holding, comprendente anche il complesso aziendale proveniente dalla società incorporata, i giudici di appello ritenevano insussistente l'elusione fiscale ipotizzata dall'amministrazione finanziaria in quanto doveva ritenersi legittima sia la finalità perseguita (di separare l'attività finanziaria e di holding da quella industriale e produttiva), sostenuta da valide ragioni economiche, sia le modalità con cui era stata attuata, ed inoltre perché la soluzione adottata non aveva fatto ottenere alla società una riduzione di imposta altrimenti indebita.

2. Avverso tale statuizione l'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui replica l'intimata con controricorso e ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo, illustrato con memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso, corredato da idoneo quesito di diritto (ricadendo il ricorso nell'ambito applicativo dell'art. 366 bis cod. proc. civ., in quanto la sentenza è stata pubblicata in data 21/05/2009, prima della abrogazione della predetta disposizione da parte dell'art. 47 della legge n. 69 del 2009, applicabile ai ricorsi avverso sentenze pubblicate successivamente al 4/07/2009 - cfr. Cass. n. 7119 del 2010), la ricorrente deduce, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell'art. 75, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo previgente alla modifica apportata dalla riforma del 2004 (d.lgs. n. 344 del 2003).

1.1. Sulla premessa che le società contribuenti avevano stipulato con una controllata francese un contratto di agenzia per la vendita di prodotti e servizi per il mercato mondiale ad esclusione dell'Italia, che prevedeva, tra le varie clausole, anche il pagamento di una provvigione nella misura dell'1 per cento del prezzo base netto dell'ammontare complessivo degli ordini aggiudicati ed accettati, la ricorrente sostiene che i giudici di appello avevano violato la predetta disposizione laddove avevano ritenuto che le società contribuenti avevano correttamente portato in deduzione i componenti negativi di reddito rappresentati dalle predette provvigioni nell'esercizio in cui vi era stata l'accettazione degli ordini da parte del committente e non, invece, in quello in cui aveva realizzato i relativi ricavi.

2. Il motivo è inammissibile.

3. Invero, la censura, come sopra sunteggiata, inerisce alla questione relativa all'imputazione temporale dei costi relativi al pagamento, in favore di una società estera controllata, della provvigione pari all'uno per cento «del prezzo base netto dell'ammontare complessivo degli ordini aggiudicati ed accettati» dalla società proponente, che la CTR ha ritenuto essere stata legittimamente effettuata dalle società contribuenti nell'esercizio in cui quegli ordini erano stati accettati, attribuendo quindi rilievo alla clausola del contratto di agenzia che stabiliva tale modalità di corresponsione di una parte dell'intera provvigione dovuta (essendo, infatti, prevista la corresponsione alla società estera di un ulteriore provvigione del 4 per cento del prezzo base netto calcolato sull'ammontare totale delle fatture emesse). Sostiene sul punto la ricorrente che tali costi erano invece deducibili, quali componenti negativi di reddito, «nel medesimo esercizio in cui rilevano i ricavi in relazione ai quali le medesime provvigioni si rendono dovute» (ricorso, pag. 6), e che, pertanto, aveva errato la CTR per non aver privilegiato il requisito della necessaria correlazione tra costi e ricavi richiesto, ai fini della deducibilità dei primi, dall'art. 75, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986, norma non derogabile dai diversi accordi delle parti, rilevanti solo ai fini civilistici.

3.1. Va premesso, in diritto, che la norma del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (recante "Norme generali sui componenti del reddito di impresa"), al comma 1 declina il principio dell'esercizio di competenza stabilendo che «i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza», precisando che «tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni». Più specificamente e per quanto qui di interesse, il comma 2, lett. b), della stessa disposizione, prevede, nella prima parte, che: "Ai fini della determinazione dell'esercizio di competenza [...] le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate [...]" e, nell'ultima parte che le spese "dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici" si considerano sostenute "alla data di maturazione dei corrispettivi".

3.2. Orbene, con riferimento al contratto di agenzia, com'è quello stipulato tra le società contribuenti e la controllata francese, questa Corte ha affermato (Cass. n. 11213 del 2002) che «quello di agenzia è - di regola - un contratto a tempo indeterminato, da cui derivano corrispettivi periodici che maturano al termine dei singoli periodi (mensili, trimestrali, ecc.) di riferimento delle prestazioni dell'agente» e, conseguentemente, «l'onere delle provvigioni da corrispondere all'agente deve ritenersi maturato nella data in cui gli agenti hanno ultimato quella tranche di prestazione lavorativa, separatamente fatturata, cui si riferisce quel determinato pagamento, ed imputato temporalmente all'esercizio in corso in quella stessa data».

3.3. L'individuazione del momento in cui l'agente matura i corrispettivi va necessariamente compiuta ricorrendo alla normativa civilistica disciplinante il rapporto d'agenzia, ed in particolare all'art. 1748 cod. civ., che al primo comma fissa lei regola generale secondo cui il diritto alla provvigione sorge in capo all'agente "quando l'operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento", stabilendo, al quarto comma, il momento in cui tale diritto matura e, quindi, diventa esigibile, prevedendo che "salvo che sia diversamente pattuito, la provvigione spetta all'agente dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione in base al contratto concluso con il terzo" e, comunque, "al più tardi, inderogabilmente dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico".

3.4. Pertanto, poiché, riguardato dalla parte del preponente, l'individuazione dell'esercizio di competenza per l'imputazione delle provvigioni dovute all'agente va effettuata in forza del combinato disposto dagli artt. 75, comma 2, lett. b), ultima parte, del TUIR e 1748, quarto comma, cod. civ., e poiché quest'ultima disposizione fa salvi eventuali diversi accordi intercorsi tra le parti, era onere della ricorrente investire con la censura in esame la ratio decidendi relativa all'applicabilità al caso di specie di quella specifica clausola contrattuale e, quindi, la questione della deroga prevista dall'art. 1748 cod. civ. Non avendo a ciò adempiuto, il motivo in esame incorre nel già rilevato vizio di inammissibilità.

4.  Con il secondo motivo di ricorso, corredato da idoneo quesito di V diritto, la ricorrente deduce, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell'art. 75, comma 5, d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo previgente alla modifica apportata dalla riforma del 2004 (d.lgs. n. 344 del 2003) con riferimento alla ripresa a tassazione delle royalties pagate per l'utilizzo dei marchi e brevetti in relazione ai rapporti contrattuali nella cui esecuzione la società conferitaria era subentrata.

4.1. Sostiene la ricorrente che il conferimento del ramo di azienda della società conferente con il conseguente subentro della società conferitaria nell'esecuzione dei contratti in corso comportava il necessario trasferimento dei diritti industriali necessari per quell'esecuzione con la conseguenza che il pagamento delle royalties per l'uso di tali diritti, ancorché prevista dai contraenti, difettava del requisito dell'inerenza.

5. Il motivo, per come prospettato, è inammissibile prima ancora che infondato.

6. Deve innanzitutto escludersi che il principio dell'inerenza, quale vincolo alla deducibilità dei costi, discenda dall'art. 75, comma 5, TUIR, che si riferisce al diverso principio dell'indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma, ovviamente, l'inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili, mentre, come si afferma anche in dottrina, da un lato, il principio di inerenza è principio generale inespresso, immanente alla nozione di reddito d'impresa, e, dall'altro, la valutazione dell'inerenza di un costo all'attività d'impresa impone un giudizio di tipo qualitativo, che non necessariamente implica anche un giudizio quantitativo, e cioè di apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità (o superfluità, come sostiene la ricorrente con riferimento a quelli in esame), che, come si ritiene anche in dottrina, sono meri indici di non inerenza di un costo, ossia dell'esclusione dello stesso dall'ambito dell'attività d'impresa, e dunque indicatori della sua natura erogatola e non produttiva, ma non espressione dell'inerenza.

6.1. In ogni caso, la statuizione di merito censurata non viola la norma indicata posto che la CTR ha ritenuto la deducibilità del costo valutando ed esaminando il contenuto del contratto stipulato tra le parti, e la ricorrente prospetta una valutazione del medesimo - di cui neanche viene trascritto il contenuto, in spregio al principio di autosufficienza - diversa da quella effettuata dai giudici di merito, non solo in maniera inammissibile in questa sede, ma anche infondatamente, laddove sostiene che «contrariamente a quanto avvenuto per i nuovi contratti», per quelli già in corso non era ravvisabile «l'utilizzo dei brevetti e dei marchi a fini commerciali», il cui sfruttamento era pacificamente rimasto in capo alla società conferitaria, la quale legittimamente aveva preteso adeguata ricompensa per il loro sfruttamento, necessario per portare a compimento l'esecuzione dei contratti già in corso.

7. Con il terzo motivo di ricorso, accompagnato dal corrispondente momento di sintesi, la ricorrente deduce, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione resa dai giudici di appello con riferimento all'elusione fiscale ravvisata dall'amministrazione finanziaria nell'operazione di riorganizzazione del Gruppo N.P., concretizzatasi nella fusione per incorporazione della T. s.p.a. nella N.P. s.p.a. (ora N.P.H. s.p.a.) e la successiva cessione di due rami di azienda della predetta holding, comprendente anche il complesso aziendale della società incorporata.

7.1. Sostiene la ricorrente che i giudici di appello avevano escluso la sussistenza dell'elusione fiscale ipotizzata dall'amministrazione finanziaria senza aver tenuto conto dei «numerosi elementi presuntivi evidenziati sia nell'avviso di accertamento che nell'atto di appello» e senza aver adeguatamente spiegato le ragioni del loro convincimento, in particolare della ragione per la quale «il fine perseguito dalla società [...] era pienamente legittimo.» e perché «il valore del conferimento sarebbe stato sicuramente inferiore in quanto limitato ad una sola azienda», benché l'ufficio finanziario avesse evidenziato che, nell'ipotesi di cessione diretta della T. s.p.a. alla N.P. s.p.a., l'aliquota applicabile sarebbe stata quella del 37 per cento e non quella del 27 per cento applicata a titolo di imposta sostitutiva con riferimento all'operazione in concreto effettuata. Secondo la prospettazione di parte ricorrente, tale ultima affermazione si pone anche in contraddizione con quella, pure rinvenibile nell'impugnata sentenza, secondo cui, se il contribuente avesse adottato la soluzione ipotizzata dall'Ufficio, il valore del conferimento sarebbe stato sicuramente inferiore, in quanto limitato ad una sola azienda,«con effetto sul plusvalore tassabile che ne sarebbe emerso e quindi sull'entità dell'imposta sostitutiva», mentre non era irrilevante che un eventuale vantaggio fiscale avrebbe potuto conseguirlo la società conferitaria («che, in tale ipotesi, avrebbe dedotto minori ammortamenti») e non la conferente, cui era stato contestata l'elusione, posto che «l'ufficio poteva tenere conto di tutti i vantaggi derivanti dall'operazione» (ricorso, pag. 24).

8. Il motivo è inammissibile per incongruità del momento di sintesi che lo conclude.

Invero, è insegnamento giurisprudenziale assolutamente consolidato quello secondo cui, quando viene in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata) «la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità» (Cass., Sez. U., n. 20603 del 2007, n. 12339 del 2010) e che consiste in una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso - in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria - ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (cfr., ex multis, Cass. n. 4556 del 2009, n. 13368 del 2014 e numerose altre successive conformi), in modo da porre la Corte di cassazione in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (Cass. n. 24255 del 2011).

Orbene, nel caso in esame la ricorrente non si è attenuta a detti principi, in quanto la ricorrente, dopo aver individuato «i punti decisivi della vertenza costituiti: a) dall'esistenza o meno di valide ragioni economiche a supporto delle operazioni; b) dall'esistenza o meno di un risparmio d'imposta rispetto ad altra più lineare soluzione; c) dalla natura indebita o meno di tale risparmio», non indica le ragioni di insufficienza della motivazione in relazione al punto della decisione censurata, ma afferma anapoditticamente che «su tali punti la Commissione ha motivato in modo del tutto insufficiente, nonché sul punto b), anche contraddittorio, alla luce dei numerosi elementi evidenziati sia nell'avviso di accertamento che nell'atto di appello» e sostenendo che «se la Commissione avesse operato la necessaria approfondita valutazione, non avrebbe potuto che ritenere fondato il rilievo».

Il quesito di fatto che conclude il mezzo di cassazione in esame risulta, quindi, formulato in maniera circolare (cfr. Cass., Sez. n. 28536 del 2008), giacché è evidente che quella prospettata è affermazione di principio in relazione alla quale la conclusione è scontata, ma anche irrilevante ai fini della decisione in quanto la risposta che è senz'altro positiva, lo è solo in astratto, non consentendo in concreto l'accertamento della sussistenza della dedotta carenza motivazionale. Ed è anche generico perché, esclusa l'individuazione dei «punti decisivi della vertenza», è privo di contestualizzazione rispetto alla fattispecie concreta.

Il motivo di ricorso in esame, così come prospettato, non si sottrae ad un ulteriore rilievo di inammissibilità, risolvendosi in una non consentita istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di Cassazione. Peraltro, la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (ex multis, Cass. n. 322 del 2003, n. 23286 del 2005, n. 9233 del 2006, n. 1414 del 2015 e numerose successive conformi). Il giudice di merito è infatti libero di attingere il proprio convincimento dagli elementi probatori che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell'accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non considerati: come, nella specie, è di certo accaduto per la sentenza gravata. Le doglianze che la ricorrente solleva alla decisione impugnata si sostanziano, quindi, nella inammissibile richiesta al giudice di legittimità di sottoporre le risultanze processuali emerse nel corso del giudizio di merito ad una nuova valutazione, in modo da sostituire alla valutazione sfavorevole già effettuata dai primi giudici una più consona alle proprie concrete aspirazioni (cfr., ex multis, Cass. n. 25332 del 2014).

L'inammissibilità dei motivi di ricorso principale rende superfluo l'esame del motivo di ricorso incidentale condizionato - che resta assorbito - con cui le società controricorrenti hanno dedotto, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 10 della legge n. 289 del 2002, censurando la statuizione d'appello là dove aveva riconosciuto operante la proroga biennale prevista dal citato art. 10 nonostante «il contribuente abbia validamente presentato una dichiarazione integrativa ai sensi dell'art. 8 della medesima Legge, indipendentemente dal fatto che sia stato notificato un processo verbale di constatazione relativo al medesimo periodo d'imposta suscettibile di definizione ai sensi dell'art. 15 della medesima Legge» (così nel quesito formulato a pag. 55 del controricorso).

Le spese processuali seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i motivi di ricorso principale, assorbito quello incidentale, e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge.