Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 marzo 2017, n. 6195

Tributi - IVA - Accertamento - Recupero a tassazione

 

Fatti di causa

 

La Commissione Tributaria Provinciale di Sassari respingeva l'impugnazione proposta dal Fallimento A.L. s.r.l. avverso l'avviso di accertamento n. 896030100263/2007 emesso nei confronti della società per recupero IVA sull'anno d'imposta 2002.

La Commissione Tributaria Regionale della Sardegna accoglieva parzialmente l'appello della curatela fallimentare, escludendo dalla ripresa a tassazione l'importo delle operazioni IVA dall'ufficio finanziario definite inesistenti e riaccreditando alla contribuente il rimborso di € 152.748,00 dall'ufficio stesso indebitamente recuperato.

L'Agenzia delle entrate ricorre per cassazione sulla base di quattro motivi.

Il Fallimento A.L. s.r.l. resiste mediante controricorso, illustrato da memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 30 I. n. 724 del 1994, artt. 38-bis, 54 e 57 d.P.R. n. 633 del 1972, art. 20 d.m. n. 567 del 1993, art. 2697 c.c., per aver il giudice di appello stabilito che l'erogazione del rimborso IVA sul conto fiscale della società richiedente implicava l'accertamento dell'operatività della società stessa e ne precludeva il successivo contrario accertamento.

Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 30 I. n. 724 del 1994, artt. 38-bis, 54 e 57 d.P.R. n. 633 del 1972, art. 20 d.m. n. 567 del 1993, art. 2697 c.c., per aver il giudice di appello disconosciuto l'onere probatorio della società quanto alla sua propria operatività, questa avendo ritenuto insita in un'operazione di mero incremento patrimoniale, cioè nell'acquisizione del capannone destinato all'attività d'impresa.

Il terzo motivo di ricorso denuncia omesso esame di un fatto decisivo, per non aver il giudice di appello considerato che l'operatività della società attiene alla produzione di reddito e non all'incremento del patrimonio.

Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 38-bis e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, art. 2697 c.c., per aver il giudice di appello ritenuto illegittimo il recupero a tassazione di operazioni IVA la cui natura fittizia non fosse accertata da giudicato penale.

2. I motivi sono logicamente connessi e devono essere congiuntamente esaminati.

Essi pongono invero due correlate questioni:

a) se il rimborso IVA sul conto fiscale della società richiedente precluda il successivo accertamento del fatto che la società stessa non fosse operativa e quindi non avesse diritto al rimborso, ostandovi il divieto ex art. 30 I. n. 724 del 1994;

b) come si distribuisca l'onere probatorio circa l'operatività societaria quale requisito del diritto al rimborso IVA e se a tal fine rilevi la prova di un'operazione attinente non alla produzione di reddito, bensì all'incremento del patrimonio.

3. Il ricorso è fondato.

Occorre premettere una breve descrizione della struttura normativa del «conto fiscale», come delineata dalla disposizione istitutiva (art. 78 I. n. 413 del 1991).

Il «conto fiscale» è il rapporto di confluenza di versamenti e rimborsi, obbligatorio per i titolari di partita IVA; quale «gestore» del conto, il concessionario della riscossione è autorizzato ad erogare i rimborsi sulla base di una richiesta del contribuente attestante il diritto o di una comunicazione dell'ufficio attestante l'obbligo; oltre una certa percentuale in rapporto ai versamenti, il rimborso su richiesta del contribuente esige una prestazione di garanzia, a differenza del rimborso su comunicazione dell'ufficio.

La distinzione legislativa tra rimborso ad istanza e rimborso d'ufficio, l'uno soggetto a garanzia e l'altro invece libero, testimonia che il rimborso operato a richiesta del contribuente non è preceduto da controlli sostanziali, che vengono effettuati ex post, fidando appunto nella copertura assicurativa.

Come già osservato, «allo scopo di assicurare celerità nell'erogazione del rimborso, l'amministrazione è obbligata a posporre i controlli - notoriamente lunghi e farraginosi - ad un tempo successivo e ad accontentarsi, per procedere al rimborso stesso, della semplice richiesta del contribuente, purché corredata da alcuni minimi requisiti formali e da quello - invero determinante - della prestazione di una garanzia per il caso di non spettanza del rimborso eventualmente corrisposto»: «ne è riprova il fatto che la garanzia non è dovuta proprio per il caso in cui il rimborso è disposto dall'ufficio finanziario [...], evidentemente all'esito non già dell'autodichiarazione, ma di quella positiva attività di verifica e di accertamento della sussistenza dei requisiti necessari, invece istituzionalmente compressa od omessa nel rimborso a semplice richiesta» (Cass. 10 gennaio 2012, n. 65, in motivazione).

Invero, il conto fiscale è un istituto orientato non soltanto alla trasparenza del rapporto tributario, ma anche alla semplificazione e velocizzazione dell'erogazione dei rimborsi (Cass. 29 luglio 2004, n. 14506, in motivazione).

Qualora l'erogazione del rimborso su istanza del contribuente avesse l'effetto di precludere il successivo accertamento in ordine ai requisiti sostanziali di spettanza, questo accertamento dovrebbe precedere l'erogazione, frustrando la ratio acceleratoria; inoltre, non avrebbe giustificazione causale la polizza fideiussoria, che invece assicura la ripresa di un rimborso già erogato e poi accertato come indebito.

D'altronde, l'art. 20 d.m. n. 567 del 1993, regolamento attuativo in materia di conto fiscale, stabilisce che, «in sede di controllo dei rimborsi erogati dai concessionari, l'ufficio competente provvede a recuperare nei confronti dell'intestatario le somme indebitamente rimborsate [...] qualora il recupero delle relative somme non sia stato preventivamente effettuato sulla garanzia prestata dal contribuente che ne abbia l'obbligo».

Pertanto, il rimborso in conto fiscale erogato su istanza della società intestataria (nella specie, modello VR 6 marzo 2003, n. 142) non preclude il successivo accertamento circa la natura «non operativa» della società medesima, quale causa ostativa alla spettanza del rimborso per effetto dell'art. 30 I. n. 724 del 1994.

Tale disposto qualifica la società di comodo - non ammessa perciò al rimborso IVA - in rapporto alla sottoproduzione di ricavi, onerando l'ente che non abbia raggiunto lo standard normativo a provare le situazioni giustificative.

Il fallimento del c.d. test di operatività istituisce cioè una presunzione iuris tantum di inoperatività, che è onere della società vincere mediante prova contraria esplicativa dell'anomalia reddituale.

Per l'art. 30 I. n. 724 del 1994, modificato dall'art. 3 I. n. 662 del 1996, applicabile ratione temporis, «la prova contraria deve essere sostenuta da riferimenti a oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi nella misura richiesta».

Anche il testo dell'art. 30 I. n. 724 del 1994 successivamente modificato dall'art. 35 d.l. n. 223 del 2006, conv. in I. n. 248 del 2006, richiama «oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo».

La presunzione relativa di inoperatività si fonda sull'id quod plerumque accidit, in quanto - tranne ipotesi eccezionali - non vi è effettività d'impresa senza una continuità minima nei ricavi.

I parametri fissati dall'art. 30 I. n. 724 del 1994 ineriscono alla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali e un livello minimo di ricavi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, essendo onere della società medesima fornire la prova contraria circa l'esistenza di situazioni oggettive e straordinarie che abbiano impedito il raggiungimento del livello minimo di reddito (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21358, Rv. 636908; Cass. 5 luglio 2016, n. 13699, Rv. 640340).

A tal fine, un'operazione di mero incremento del patrimonio (nella specie, l'acquisizione del capannone) è di per sé irrilevante, in quanto il test di operatività e la presunzione di inoperatività agiscono sul diverso piano del reddito, nei termini della comparazione tra i ricavi effettivi a conto economico e i ricavi figurativi proiettati dagli asset.

Un'operazione isolatamente patrimoniale non esprime redditività societaria e quindi non smentisce la natura fittizia dell'ente, potendo anzi darne la più chiara dimostrazione.

Per l'appunto, la tesi erariale è che l'A.L. s.r.l. fosse una società-buffer, costituita unicamente per lucrare i finanziamenti pubblici dell'opera, distratti i quali è seguito l'abbandono al fallimento.

4. La sentenza deve essere cassata, non avendo osservato questi principi di diritto:

a) «il rimborso IVA eseguito dal concessionario della riscossione nella qualità di gestore del conto fiscale e su istanza della società titolare non preclude all'ufficio finanziario il successivo accertamento circa la natura non operativa della società stessa quale causa ostativa al rimborso ex art. 30 I. n. 724 del 1994»;

b) «ai fini del rimborso IVA, la società che non abbia raggiunto il minimo di ricavi fissato dall'art. 30 I. n. 724 del 1994 ha l'onere di provare i fatti giustificativi idonei a vincere la presunzione di inoperatività, essendo inidonea allo scopo la prova di un'operazione non produttiva di reddito, bensì di mero incremento patrimoniale».

5. Il giudice di rinvio si atterrà ai principi ora enunciati e regolerà le spese processuali, anche di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Sardegna in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.