Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 ottobre 2017, n. 23509

Rivalutazione contributiva ex art. 13, co. 8, L. n. 257/1992 - Periodi di esposizione all'amianto - Prove rivenienti da altro procedimento - Rituale acquisizione al contraddittorio delle parti costituite - Non rileva - Assenza di divieti di legge - Giudice può formare il proprio convincimento in base a prove raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 5.10.2011, la Corte d'appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di rivalutazione contributiva ex art. 13, comma 8, I. n. 257/1992 e succ. mod. e integraz. proposta da vari assicurati per i periodi di esposizione all'amianto presso il Feltrificio Veneto di Marghera.

La Corte, riprendendo gli accertamenti in fatto contenuti in altra propria precedente sentenza (pronunciata in riferimento ad analoghe domande svolte da altri dipendenti della medesima azienda) e valutandoli unitamente alle emergenze della CTU disposta nel corso del nuovo giudizio, riteneva raggiunta la prova che la produzione di filtri di amianto fosse cessata nel 1973, così come dedotto dall'INPS, non potendo assumere in contrario rilievo decisivo l'avvenuta lavorazione nel 1975 di un feltro di rientro composto in amianto, in quanto le testimonianze, sul punto, erano state generiche e in ogni caso non sussistevano sicuri riscontri circa l'esatta composizione del materiale oggetto della lavorazione, che peraltro sembrava essere stata l'unica effettuata oltre detta data e come tale inidonea a far presumere il superamento della soglia di legge per il periodo successivo al 1973.

Contro tali statuizioni ricorrono gli assicurati P. D. C. e altri sei consorti, con due motivi. L'INPS ha resistito con controricorso, mentre N. B. e altri tre assicurati hanno proposto ricorso incidentale, parimenti fondato su due motivi, cui l'INPS ha resistito con altro controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo del ricorso principale, si deduce violazione di legge e illegittima acquisizione di prove rivenienti da altro procedimento senza previa instaurazione del contraddittorio al riguardo, per avere la Corte territoriale posto a base del proprio accertamento le risultanze di fatto di cui alla propria precedente sentenza n. 677/2010.

Il motivo è infondato. E' sufficiente, sul punto, rilevare che - come ammettono gli stessi ricorrenti - la sentenza ult. cit., essendo stata richiamata dall'INPS nell'atto di costituzione in appello e depositata congiuntamente ad esso, era stata ritualmente acquisita al contraddittorio delle parti costituite, né risulta che i ricorrenti abbiano richiesto l'acquisizione al presente giudizio dei verbali di causa e degli accertamenti peritali compiuti nell'altro giudizio. E poiché, in assenza di divieti di legge, il giudice può formare il proprio convincimento anche in base a prove raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisca documentazione (cfr. in tal senso Cass. n. 840 del 2015), senza che all'uopo necessiti la previa acquisizione degli atti, nessuna censura merita al riguardo la sentenza impugnata.

Con il secondo motivo del ricorso principale, si lamenta erronea motivazione circa un punto (rectius: fatto) decisivo della controversia per non avere la Corte di merito considerato che la perizia disposta nel corso del procedimento attestava la fondata possibilità che l'esposizione a fibre aerodisperse si fosse protratta fino al 1975 per la lavorazione dei c. d. feltri di ritorno.

Trattandosi di una critica all'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, il motivo può essere trattato congiuntamente ai motivi del ricorso incidentale, con cui si lamenta, da un lato, la mancata applicazione dell'art. 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale escluso la rilevanza delle prove testimoniali assunte nel corso del processo e non aver considerato le contraddizioni della CTU e, dall'altro lato, l'omessa e insufficiente motivazione su fatti asseritamente decisivi, costituiti dalle prove testimoniali attestanti la contiguità spaziale tra le lavorazioni, l'esposizione a fattori di rischio ambientale per tutti i lavoratori e la continuazione delle lavorazioni a rischio amianto fino al 1986 o addirittura fino al 1990.

Trattasi, a parere del Collegio, di motivi inammissibili.

Premesso che la censura che investe la valutazione della prova, ossia l'attività regolata dagli artt. 115 e 116 c.p.c., può essere fatta valere solo ai sensi e nei limiti dell'art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. n. 15107 del 2013), questa Corte ha costantemente insegnato che in tanto si può censurare una sentenza di merito di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nel testo risultante dalla modifica apportata dall'art. 2, d. lgs. n. 40/2006, e anteriore alla novella di cui all'art. 54, d.l. n. 83/2012, conv. con I. n. 134/2012) in quanto il fatto principale o secondario su cui la motivazione è stata omessa o è stata resa in modo insufficiente o contraddittorio sia autonomamente decisivo, ossia potenzialmente tale da portare la controversia ad una soluzione diversa, l'indagine di questa Corte dovendo spingersi fino a stabilire se in concreto sussista codesta sua efficacia potenziale (cfr. da ult. Cass. n. 7916 del 2017).

Nella specie, tuttavia, né il ricorso principale né il ricorso incidentale hanno addotto fatti la cui considerazione da parte del giudice avrebbe di per sé condotto ad un diverso (e ai ricorrenti favorevole) giudizio: nei motivi di censura, invero, si sono piuttosto evidenziate talune circostanze (e precisamente che tanto la perizia quanto le prove testimoniali davano conto della possibilità che l'esposizione a fibre aerodisperse si fosse protratta fino a tutto il 1975 ed eventualmente anche oltre, a causa della lavorazione dei c.d. feltri di rientro) la cui valutazione dovrebbe necessariamente essere condotta comparativamente con le altre che la Corte territoriale ha valorizzato ai fini del decidere (ciò che peraltro la Corte medesima ha puntualmente fatto a pag. 12 della sentenza impugnata, ancorché pervenendo a conclusioni non condivise dalle parti ricorrenti). E poiché non potrebbe ammettersi che l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione possa viziare la sentenza anche quando concerna un fatto secondario che non sia autonomamente decisivo senza contravvenire al principio, costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui spetta in via esclusiva al giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e, in ultima analisi, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (cfr. tra le più recenti Cass. n. 13485 del 2014), dal momento che non si potrebbe rimproverare a quel giudice di non aver tenuto conto di un fatto non autonomamente decisivo senza con ciò stesso sostituirsi a lui nella scelta delle fonti del proprio convincimento, deve ritenersi che i motivi di censura sottendano in realtà la richiesta di un riesame del merito della causa, che è cosa non possibile in sede di legittimità.

I ricorsi, pertanto, vanno conclusivamente rigettati e i ricorrenti, soccombenti, vanno condannati alle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 4.200,00, di cui € 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.