Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 16 ottobre 2017, n. 24366

Contratto di reinserimento a termine - Sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato - Mancata produzione del contratto di reinserimento - Non rileva - Rapporto di lavoro iniziato prima dalla formale stipula del contratto a termine

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Messina, pronunziando sull'impugnazione della S. srl, ha confermato la decisione di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda di A.S.G., ritenuta la illegittimità del contratto di reinserimento con previsione di un termine stipulato tra le parti e, per l'effetto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, aveva dichiarato la illegittimità del recesso datoriale condannando la società convenuta alla reintegrazione del G. ed al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento.

1.1. Il giudice di appello, escluso il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado (dedotto dalla società sul rilievo che la statuizione di illegittimità del termine era stata fondata su vizio del contratto non prospettato dal ricorrente), rilevato che la prova orale aveva confermato l'inizio della prestazione lavorativa del G. nell'aprile 2005 e quindi ben prima della formale stipula del contratto di reinserimento, avvenuta nell'agosto successivo, ha ritenuto che tale circostanza non consentiva, ai sensi dell'art. 20 L. n. 223 del 1991 e degli artt. 54 e sgg. del d. Igs n. 276 del 2003, di configurare la esistenza di un valido contratto di reinserimento a tempo determinato; né costituiva valida giustificazione per la parte datoriale, alla quale fa capo la responsabilità per l'avviamento, il fatto che solo nell'agosto 2005 il lavoratore aveva consegnato il certificato di disoccupazione, indispensabile per la formale stipula del contratto; in conseguenza dell'accertata nullità, doveva ritenersi sussistente, tra le parti, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato il quale poteva essere risolto solo sulla base di un valido atto di recesso; il recesso datoriale, motivato con la prospettata fine lavori nel cantiere di Palermo, era illegittimo stante la assoluta carenza di prova della circostanza; alla illegittimità del recesso datoriale conseguiva, in applicazione della tutela reale, la reintegrazione del lavoratore e la condanna alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento, non avendo il datore di lavoro, il quale si era limitato ad eccepire la esistenza di un termine finale e la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, formulato alcuna istanza di prova in ordine al requisito dimensionale.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso S.C. srl sulla base di quattro motivi.

3. A.S.G. ha resistito con tempestivo controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Si premette che il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata, ai sensi del decreto del primo Presidente in data 14/9/2016.

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Vizio di motivazione per violazione della norma di cui all'art. 112 cod. proc. civ. - errata illegittima e ingiustificata pronunzia.

Si sostiene l’errore del giudice di prime cure per avere affermato che, non essendo stato versato in atti alcun contratto relativo al rapporto dedotto, lo stesso andava considerato a tempo indeterminato fin dall'origine. L'esistenza di tale contratto risultava, infatti, dalla documentazione in atti ed era stata pacificamente ammessa dalle parti; il ricorrente G. non aveva mai chiesto che venisse dichiarata la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per la mancanza del contratto di reinserimento.

2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione in conseguenza di erronea valutazione delle prove, violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in ordine alla decorrenza del rapporto di lavoro.

Si censura la decisione in punto di accertata decorrenza del rapporto, reiterandosi il rilievo che la mancata regolarizzazione dello stesso era dipesa dalla condotta del lavoratore che aveva consegnato con colpevole ritardo la certificazione dell'iscrizione alle liste di collocamento.

3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce errata, illegittima ed ingiustificata pronunzia - vizio di motivazione in conseguenza di erronea valutazione delle prove, violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in ordine alla illegittimità del licenziamento. Premesso che la società S. svolgeva la propria attività di impresa esclusivamente nell'ambito degli appalti pubblici per cui le maestranze spesso erano assunte in relazione ai singoli cantieri, si sostiene che al momento dell'assunzione del G. il cantiere di Palermo era a metà dell'opera prevista e che il G. aveva un compito ed un' attività prestabiliti, in coincidenza con il completamento delle quali, il rapporto era destinato a cessare. La circostanza dell'anticipazione della fine lavoro risulta comprovata. Si lamenta la mancata valutazione della prova orale a riguardo. Si argomenta in ordine alla impossibilità di repechage.

4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce errata, illegittima ed ingiustificata pronunzia - Vizio di motivazione in conseguenza di erronea applicazione dell'art. 18 St. lav.. Si censura la decisione per avere omesso di considerare che dalla Comunicazione di assunzione effettuata alla Sezione circoscrizionale del lavoro e del M.O. del 28.9.2015 risultava chiaramente che la impresa occupava solo sei lavoratori e che ove tale documentazione fosse stata reputata insufficiente il giudice avrebbe dovuto disporre integrazione documentale. Si osserva che, in ogni caso, la possibilità di reintegra è preclusa in presenza di rapporto di lavoro a tempo determinato e che la condanna risarcitoria doveva ritenersi esclusa dal contratto di reinserimento. Si evidenzia, che il G. non aveva mai messo a disposizione della società datrice le proprie energie lavorative.

5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per una pluralità di profili. In primo luogo, in relazione alla deduzione di violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. parte ricorrente, non ha osservato l'onere su di essa gravante al fine della valida articolazione della censura, di riportare, nei loro esatti termini i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli delle doglianze a riguardo svolte con l'atto di appello alla sentenza di primo grado (cfr., tra le altre Cass. 08/06/2016 n. 11738; Cass. 04/07/2014 n. 15367). In secondo luogo, la doglianza non risulta pertinente alle effettive ragioni della decisione qui impugnata, sembrando piuttosto investire argomentazioni svolte dalla sentenza di primo grado con la quale in più punti mostra di confrontarsi. Invero, l'accertamento della natura a tempo indeterminato del rapporto tra le parti non è stata collegata, nella decisione di appello, alla mancata produzione del contratto di reinserimento bensì alla circostanza che, per come pacifico, il rapporto di lavoro era iniziato diversi mesi prima dalla formale stipula del contratto di reinserimento, per cui in coerenza con i principi generali, in assenza di atto scritto, il rapporto doveva ritenersi a tempo indeterminato fin dall'origine.

6. Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso, sia perché articolato in violazione dell'art. 366 n. 6 cod. proc. civ. in quanto non viene in alcun modo specificato quali sono gli atti ed i documenti dai quali emergerebbero le circostanze di fatto alla base della censura e, tantomeno, viene riprodotto il relativo contenuto, come, invece, prescritto (v. tra le altre, Cass. 19/08/2015 n. 16900, Cass. 15/07/2015 n. 14784), sia perché parte ricorrente nulla argomenta in diritto per contrastare l'affermazione del giudice di appello in ordine alla ininfluenza, in relazione alla ritenuta costituzione del rapporto di lavoro già a partire dall'aprile 2005, della eventuale condotta negligente del lavoratore nel consegnare i documenti richiesti.

7. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile in quanto parte ricorrente, nel censurare l'accertamento del giudice di appello deducendo il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta carenza di prova del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, svolge le proprie deduzioni in violazione delle prescrizioni di cui all'art. 366 n. 6 cod. proc. civ.; in particolare, non specifica in relazione alle circostanze di fatto richiamate da quale "dato", testuale o extratestuale, le stesse risultino; tantomeno individua l'atto ed il documento, specificandone anche la relativa sede processuale, dai quali emergono le circostanze in oggetto, provvedendo a trascriverne il contenuto (Cass. 09/10/2012 n. 17168).

8. Il quarto motivo di ricorso è anch'esso inammissibile per una pluralità di profili. In primo luogo, in violazione del principio di cui all'art. 366 cod. proc. civ., parte ricorrente non specifica la sede processuale nella quale risulta depositato il documento che assume rilevante al fine della prova della insussistenza del requisito dimensionale né ne riproduce il relativo contenuto. In secondo luogo le censure non sono articolate con modalità idonee a contrastare l'assunto del giudice di secondo grado in ordine alla carenza di deduzioni della società in merito alla insussistenza del requisito dimensionale utile per l'applicazione della tutela reale; parte ricorrente, infatti, omette del tutto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di riprodurre le allegazioni sul punto del ricorso di primo grado e le difese spiegate a riguardo da essa S., sia in prime che in seconde cure, onde consentire ex actis a questa Corte la verifica della fondatezza del vizio denunziato.

9. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna alle spese della società ricorrente.

10. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge. Con distrazione in favore dell'Avv. E.B..

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.