Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 novembre 2017, n. 26600

Rapporto di lavoro subordinato - Contestazione orario di lavoro effettuato - Differenze retributive - Notificazione dell'impugnazione invalida - Effetti della conoscenza legale della sentenza impugnata - Termine per la proposizione della seconda impugnazione è quello breve decorrente dalla notificazione della prima

 

Svolgimento del processo

 

Il giudice del lavoro di Velletri con sentenza n. 1511 depositata il 13 maggio 2010 rigettava la domanda dell'attrice S. P., volta al pagamento di 60.062,48 euro, a titolo di differenze retributive per il rapporto subordinato prestato con mansioni di cuoca dal 23 aprile 1993 al 9 novembre 2004 alle dipendenze della SAS R., società che aveva poi ceduto l'attività alla s.r.l. R. al PORTO di Anzio.

La Corte di Appello di Roma, adita dalla soccombente, in parziale riforma dell’impugnata pronuncia con sentenza n. 3824 del 16 aprile - 18 settembre 2014, condannava le convenute R. al PORTO s.r.l. e R. S.a.s., tra loro in solido, al pagamento, in favore dell'appellante, della somma di euro 40.076,02 di cui € 11.244,82 a titolo di t.f.r.; nonché la sola R. al PORTO al pagamento dell'ulteriore somma di euro 5.153,00 di cui 3.734,16 per t.f.r., oltre accessori ed oltre al rimborso delle spese di lite, liquidate in solido a carico di entrambe le convenute. Premesso che la R., titolare del ristorante, poi ceduto, fino al 27-01-2001, non aveva specificamente contestato l'orario di lavoro indicato nel ricorso introduttivo e che parimenti nessuna specifica contestazione era stata mossa riguardo all'orario da parte della R. al PORTO, laddove le convenute in proposito si erano limitate a contestare genericamente i conteggi, secondo la Corte capitolina i testi indotti dall'attrice, benché a costei legati da vincoli di parentela, risultavano attendibili per le concordi dichiarazioni rese e per il fatto che avevano anch'essi certamente lavorato presso il ristorante come camerieri durante il periodo oggetto di causa, sicché avevano riferito su circostanze di cui avevano una diretta conoscenza. Quindi, risultava provato lo svolgimento di mansioni riconducibili al V livello di cui al CCNL di settore per il fatto che l'appellante cucinava e risultava indicata come cuoca. Anche la retrodatazione del rapporto emergeva dalle anzidette dichiarazioni testimoniali, unitamente peraltro a quanto riferito pure dal teste M., circa l'assistenza prestata nella regolarizzazione con i benefici della c.d. legge Dini. Non risultava invece provato l'asserito mancato godimento di ferie e permessi.

Entrambe le società appellate hanno impugnato, con distinti atti in data 16-17 aprile 2015, mediante ricorsi per cassazione, affidati ciascuno a cinque motivi, la decisione della Corte distrettuale, cui ha resistito S. P. con controricorso di cui alle relate di notifica del 12-13 maggio 2015.

 

Motivi della decisione

 

Entrambe le impugnazioni contengono le medesime seguenti doglianze:

1° motivo di ricorso - omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360 co. I n. 5 c.p.c. (omessa indicazione di avvenuto pagamento della somma di 20.000,oo euro da parte delle società convenute, mediante conversione del pignoramento, già dall'anno 2009, per cui era stata anche proposta la richiesta di restituzione di detta somma);

2° motivo - violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115, 116 e 246 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la Corte d'Appello erroneamente compiuto una diversa valutazione delle prove testimoniali in atti - controllo di legittimità delle argomentazioni svolte dalla Corte di Appello circa prove testimoniali sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale;

3° - violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. e del contratto collettivo nazionale del turismo, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la Corte d'Appello erroneamente accertato l'inquadramento nel V livello, mentre nel caso di specie i fatti accertati dalla sentenza comportavano l'inquadramento nel VI livello retributivo (tra l'altro la stessa appellante aveva ammesso l'appartenenza al VI livello in altro giudizio pendente davanti al giudice dr. A. del Tribunale di Velletri - doc. 2 del fascicolo di parte resistente in primo grado);

4° - omessa motivazione - violazione dell'art. 345, co. 111, c.p.c., in relazione all'art. 360, co. I, n. 3 stesso codice, per aver mancato di accertare la produzione di documenti nuovi in appello (da parte attrice sei nuovi conteggi sindacali, dei quali era stata eccepita l'inammissibilità, con conseguente omessa motivazione);

5° e ultimo motivo di ricorso - ingiusta condanna alle spese di lite, violazione dell'art. 112 c.p.c.

- ultrapetizione in punto di condanna alle spese di primo grado, laddove errano state compensate, mentre sul punto con l'atto d'appello non era stata formulata alcuna richiesta di riforma.

Tanto premesso, va ritenuta l'inammissibilità dei due ricorsi in forza delle seguenti considerazioni.

Non pare, tuttavia, che le impugnazioni de quibus risultino tardive, dovendosi così disattendere al riguardo le preliminari eccezioni di parte controricorrente, nonché la richiesta al riguardo formulata dal Pubblico Ministero in sede di pubblica udienza, laddove peraltro il medesimo Ufficio requirente ha pure concluso per l'inammissibilità delle censure mosse dalle due ricorrenti per altre ragioni (riguardando i motivi la valutazione nel merito dei fatti, risultando peraltro gli stessi carenti di autosufficienza, essendo soltanto parziale la riproduzione delle prove), similmente alle ulteriori difese svolte in proposito dalla controricorrente.

Ed invero, il ricorso introduttivo del giudizio risulta depositato il sette giugno 2005, quindi notificato il 31-10-2005 per l'udienza di discussione fissata al 31 gennaio 2006. La sentenza di primo grado, n. 1511 del 2010, venne poi appellata con ricorso depositato il 28 luglio 2010. Quindi, la decisione di secondo grado, n. 3824 in data 16 aprile 2014, poi pubblicata mediante deposito in cancelleria il 18 settembre 2014 e non notificata, è stata impugnata mediante ricorsi per cassazione, dei quali è stata chiesta la notifica una prima volta in data 18 marzo 2015 ed una seconda volta (a seguito di relate negative) il 16 aprile 2015, con esito positivo per il successivo giorno 17.

Dunque, non operava in primo luogo il termine semestrale, secondo il testo dell'art. 327 c.p.c., modificato dall'art. 46, co. 17, I. 18 giugno 2009, n. 69, che per espressa previsione dell'art. 58, co. 1, I. cit., si applica ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore, avvenuta il 4 luglio 2009, mentre come già detto il ricorso introduttivo de quo risale al giugno 2005 (V. Cass civ. n. 17060 del 05/10/2012, che nella specie, quindi, riteneva la tempestività del ricorso per cassazione, notificato nel precedente termine annuale, trattandosi di giudizio che aveva avuto inizio nel 2003 ed era proseguito in appello nel 2007. In senso conforme Cass. II civ. n. 6007 del 17/04/2012, secondo la quale di conseguenza è irrilevante il momento dell'instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio. Parimenti, Cass. VI civ. - 5 n. 15741 del 21/06/2013, id. sez. VI - 3 n. 19969 del 06/10/2015, nonché Sez. VI - 5 n. 20102 del 6/10/2016). Pertanto, il termine di cui all’art. 327 c.p.c. nella specie applicabile era quello annuale, secondo l'originario testo della norma processuale (non soggetto alla sospensione dei termini durante il periodo feriale, trattandosi di procedimento soggetto al c.d. rito speciale del lavoro).

Per altro verso, nemmeno risulta trascorso il termine breve di cui all'art. 325 c.p.c., ancorché dimezzato, visto che tra la richiesta della prima notifica, in data 18 marzo 2015, e la seconda, avvenuta in data 16/17 aprile 2015, non erano trascorsi più di trenta giorni (29, con riferimento al giorno 16, e 30 gg. in relazione al successivo 17). A tal riguardo va in primo luogo ricordato il principio - v. tra le altre Cass. IlI civ. n. 15809 del 28/07/2005 - secondo cui in tema di notificazioni, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002 e n. 28 del 23 gennaio 2004, costituisce principio ormai recepito nell'ordinamento processuale civile che la notificazione a mezzo del servizio postale si perfeziona, per il notificante, al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, senza che possa ritenersi attribuito al giudice un potere, assolutamente discrezionale, di verificare, di volta in volta, se il piego sia stato consegnato, o meno, all'ufficiale giudiziario, in termini tali da rendere concretamente possibile il perfezionamento dell'iter notificatorio nel termine di legge. Pertanto, la verifica, in concreto, del rispetto di termini perentori, quali quelli per la proposizione di impugnazioni, deve ritenersi rimessa a criteri obiettivi, come, per l'appunto, quello della consegna del plico all'ufficiale giudiziario (cfr. pure Cass. lav. n. 2261 del 02/02/2007: a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 477 del 2002 e 28 del 2004, nell'ordinamento deve ritenersi operante un principio generale in base al quale, qualunque sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale, almeno quando debba compiersi entro un determinato termine, si intende perfezionata in momenti diversi per il richiedente e per il destinatario della notifica, dovendo le garanzie di conoscibilità dell'atto da parte di quest'ultimo contemperarsi con il diverso interesse del primo a non subire le conseguenze negative derivanti dall'intempestivo esito del procedimento notificatorio per la parte di quest'ultimo sottratta alla sua disponibilità. Cfr. in senso analogo Cass. sez. un. civ. n. 10216 del 4/5/2006: a seguito delle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2002, nn. 28 e 97 del 2004 e 154 del 2005 ed in particolare j dell'affermarsi del principio della scissione fra il momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario, deve ritenersi che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, con la conseguenza che, ove tempestiva, quella consegna evita alla parte la decadenza correlata all'inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata).

Inoltre, la notificazione dell'impugnazione, sebbene invalida, equivale, agli effetti della conoscenza legale della sentenza impugnata, alla notificazione di quest'ultima, con la conseguenza che, essendosi consumato il potere di impugnare, decorre da essa il termine breve di cui all'art. 325 cod. proc. civ. (v. Cass. lav. n. 8299 del 23/04/2015. In senso analogo Cass. VI - L n. 2478 - 08/02/2016, secondo cui il termine per la proposizione della seconda impugnazione è quello breve decorrente dalla notificazione della prima, atteso che essa al fine della conoscenza legale deve ritenersi equipollente alla notificazione della sentenza. Cfr. ancora Cass. I civ. n. 18604 del 03/09/2014, secondo cui il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purché esso sia tempestivo, requisito per la cui valutazione occorre tenere conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, che comunque non deve essere già spirato al momento della richiesta della notificazione della seconda impugnazione, ma del termine breve, che decorre dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante. Conformi Cass. III civ. n. 2848 del 13/02/2015, id. n. 9058 del 15/04/2010, nonché Cass. nn. 19047 del 2003 e 15082 del 2006. Parimenti, secondo Cass. III civ. n. 9265 del 19/04/2010, il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante. Conforme Cass. 9569 del 2000.

V. altresì Cass. sez. un. civ. n. 12084 del 13/06/2016: la notifica dell'appello dimostra la conoscenza legale della sentenza da parte dell'appellante, sicché la notifica da parte sua di un nuovo appello anteriore alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo deve risultare tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data del primo appello. Conforme Cass. n. 9265 del 2010).

Né vale richiamare il principio affermato da Cass. sez. un. n. 14594 del 15/07/2016, secondo cui notificante, questi, appreso dell'esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall'art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa. Infatti, come visto, anche calcolando nella specie la metà di giorni sessanta ex cit. art. 325, il termine non risulta superato. D'altro canto, non risultando in atti la notifica della sentenza de qua, in pendenza del termine lungo per impugnare, ai sensi dell'art. 327 c.p.c. (annuale, come già detto), decorrente dal 18 settembre 2014 (con scadenza, quindi, al 18-09- 2015), iniziò a scorrere il termine breve dall'attivazione del procedimento di notificazione in data 18 marzo 2005, sicché non risulta comunque neanche superato il termine di 60 giorni, anche a volerlo considerare dimezzato. Peraltro, la fattispecie esaminata dalla citata pronuncia delle Sezioni unite n. 14594/16 ha riguardato il caso di un intervenuto superamento del termine annuale (sentenza d’appello, oggetto dell'impugnazione, pubblicata il 20 agosto 2013; quasi un anno dopo, il 12 agosto 2014, la parte chiese la notifica del ricorso per cassazione presso gli avvocati costituiti in secondo grado, per cui successivamente il difensore della ricorrente depositò nella cancelleria di questa Corte in data 15 ottobre 2014 "Istanza di concessione termine per notifica", facendo presente che la notifica del ricorso richiesta il 12 agosto 2014 non era andata a buon fine, in quanto l'avvocato domiciliatario risultava trasferito presso una nuova sede. A seguito di provvedimento del 22 ottobre 2014 -che invitò l'istante a procedere a nuova notifica, precisando che sarebbe stato poi il collegio giudicante a valutare l'idoneità delle giustificazioni e l'ammissibilità del ricorso- parte ricorrente il 12 novembre 2014 chiese di nuovo la notifica, poi eseguita mediante spedizione a mezzo del servizio postale il 13 novembre 2014, il cui atto è stato ricevuto dalla controparte il 19 novembre 2014). Quindi, nel caso ivi esaminato, secondo la giurisprudenza richiamata dalle S.U., la ricorrente non aveva l'onere di controllare che l'indirizzo dello studio del procuratore domiciliatario della società intimata fosse mutato rispetto a quello dichiarato nel corso del giudizio e riportato nell'intestazione della sentenza impugnata e non aveva errato nel richiedere la notificazione presso lo studio del procuratore domiciliatario indicato in sentenza. L'esclusione dell'imputabilità di un errore a carico della ricorrente permetteva, di conseguenza, di passare all'esame di un secondo problema, consistente nello stabilire quale comportamento deve tenere la parte dopo aver preso atto del fatto che, a causa del trasferimento dello studio, la notifica richiesta non sia andata a buon fine, a tal proposito affermando l'anzidetto principio di diritto, ad ogni modo sul presupposto che il termine, perentorio, per impugnare risulti superato, ciò che come si è visto non si è verificato nel caso di specie, anche dimezzando il termine previsto dall'art. 325 (cfr. ancora la succitata pronuncia di Cass. S.U. n. 12084/16).

Diversamente opinando, si perverrebbe alla irragionevole conclusione che, pur non risultando ancora spirato il termine, perentorio di rito, né quello lungo, né quello breve, per il solo fatto di aver erroneamente, senza valida giustificazione, eseguito la notifica con esito negativo, sarebbe comunque preclusa l'impugnazione, ciò che risulterebbe evidentemente ingiusto, oltre che palesemente illegittimo.

Tanto premesso, come già anticipato all'inizio, le censure delle ricorrenti appaiono inconferenti e manifestamente infondate.

Infatti, quanto al primo motivo, basti considerare che il pagamento della somma di 20.000,oo risulta avvenuto in forza di provvedimento interinale, provvisoriamente esecutivo, qual era l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 423 comma II c.p.c., poi revocata (v. il 4° e ultimo comma dello stesso articolo) dalla successiva sentenza pronunciata in primo grado con il rigetto della domanda (cfr. Cass. Sez. un. civ. n. 2321 del 12/04/1980: qualora il giudice del lavoro, nell'esercizio delle facoltà conferitegli dall'art 423 primo e secondo comma cod. proc. civ., senza eccedere dai limiti della tutela interdittale, e senza esaurire in tutto od in parte la controversia, disponga il pagamento di un debito per la somma non contestata, ovvero per la somma nei cui limiti ritenga accertato il corrispondente diritto, il relativo provvedimento, a cognizione sommaria e con finalità cautelari, e privo di decisorietà, non preclude il riesame delle questioni con esso affrontate, ed e revocabile, da parte dello stesso giudice, con la sentenza che definisce la causa.

V. altresì Cass. sez. un. civ. n. 9479 del 26/09/1997, secondo cui l'ordinanza di pagamento delle somme non contestate emessa dal giudice del lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 423 cod. proc. civ. -come pure l'ordinanza di pagamento per la somma nei cui limiti ritenga accertato il corrispondente diritto, emessa dallo stesso giudice, a norma del comma successivo- non è suscettibile di appello, trattandosi in entrambi i casi di un provvedimento a cognizione sommaria, privo di decisorietà, non preclusivo del riesame delle questioni in esso affrontate, e revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. In senso conforme id. n. 3466 del 03/04/1998. Cfr. pure Cass. lav. n. 880 del 13/02/1989, secondo cui l'ordinanza con la quale il giudice del lavoro dispone, a titolo provvisorio, ai sensi dell'art. 423, secondo comma, cod. proc. civ. il pagamento di somme in favore del lavoratore costituisce un provvedimento giurisdizionale di carattere sommario - destinato ad essere assorbito, ove non revocato, nella sentenza che definisce il giudizio o a divenire inefficace nell'ipotesi di estinzione del processo - che è privo del contenuto sostanziale della sentenza e, pertanto, non è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 cost., che concerne provvedimenti di carattere decisorio in relazione ai quali l'ordinamento non apporti altri rimedi. Conformi Cass. nn. 9567/87 e 6368/83).

Pertanto, correttamente la sentenza di appello, che in sede di cognizione ha riformato integralmente quella impugnata, non ha tenuto conto del pagamento della somma di 20.000,00 euro, avvenuto all'esito di apposita procedura esecutiva (e non già spontaneamente - cfr. pag. 5 del controricorso) in forza di un titolo, in seguito venuto per effetto della pronuncia di merito, che aveva rigettato la domanda di parte attrice, con conseguente revoca del titolo stesso. Diversamente, invero, la successiva pronuncia di appello sarebbe risultata manchevole ex art. 112 c.p.c. e avrebbe inoltre esposto la parte, sebbene in astratto risultata vittoriosa in secondo grado, alla restituzione di una somma ricevuta "sine titulo", ovvero di un provvedimento provvisorio, divenuto de jure inefficace, perché superato dal successivo rigetto (in primo grado) nel merito dell'azionata pretesa creditoria. Di conseguenza, la questione posta con il primo motivo del ricorso si pone al di fuori del giudizio di cognizione, definito con la pronuncia di appello, ed attiene in effetti alla fase esecutiva di quest'ultima (che qui perciò non interessa), per cui tra l'altro la controricorrente ha dedotto di aver detratto spontaneamente l'importo di 20.000,oo euro dal precetto notificato in data 11-12-2014.

Il secondo motivo, inoltre, è palesemente inammissibile, in quanto chiaramente volto ad ottenere in questa sede di legittimità una diversa valutazione dei fatti, però diversamente da quanto al riguardo apprezzato dalla competente Corte di merito con motivazione sufficiente ed adeguata alle acquisite risultanze istruttorie, perciò immune da rilievi censurabili a norma dell'art. 360 c.p.c. (nella specie, inoltre, con riferimento alla sentenza de qua, pubblicata il 18 settembre 2014, opera il nuovo testo dell'art. 360, co. I. n. 5, per cui secondo le Sezioni unite civili di questa Corte, pronunciatesi al riguardo con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, la riformulazione della norma deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ne deriva che è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione. Peraltro, la novella del 2012 ha introdotto nell'ordinamento processuale un vizio specifico, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Di conseguenza, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie).

Peraltro, contrariamente a quanto opinato dalle ricorrenti, il principio, affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo cui l'art. 6 della CEDU impone di rinnovare l'istruzione dibattimentale ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado (cd. "overturning") ha rilievo solo in ambito penalistico (v. Cass. Ili civ. n. 19430 del 30/09/2016, per la quale tale principio non è quindi applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno - dalla diversa regola probatoria del "più probabile che non", e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante negata, invece, dal giudice di primo grado: quindi, evidente come la fattispecie in esame non si presti affatto ad essere ricondotta nell'alveo del principio anzidetto, desunto dalla giurisprudenza di Strasburgo dall'art. 6 CEDU, giacché non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale già in precedenza esclusa, ma il thema decidendum è quello, ben diverso, della responsabilità civile, estranea al perimetro delle garanzie innanzi ricordate e nel cui ambito opera la differente regola di funzione del "più probabile che non". ...>>).

Le considerazioni che precedono bene valgono anche in relazione al terzo motivo, laddove si lamenta, invero pressoché apoditticamente, la falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., a fronte di quanto accertato e diversamente valutato dai giudici del merito con la sentenza di appello, peraltro non solo omettendosi di precisare in concreto l'errore asseritamente commesso, ma senza nemmeno compiutamente riportare (v. invece in part. l'art. 366 co. I n. 6 c.p.c.) le dichiarazioni con le quali nell'altro separato giudizio parte attrice avrebbe ammesso l'appartenenza al livello contrattuale VI, e neanche la declaratoria relativa al V livello prevista dal relativo c.c.n.I., contratto collettivo del quale per di più neanche è stato dato atto della corrispondente produzione nel testo integrale, perciò pure in contrasto con la prescrizione, invece, imposta dall'art. 369 co. II n. 4 c.p.c.(v. invece le generiche e lacunose affermazioni contenute a pagine 10 e 11 dei due ricorsi, anche in ordine alla documentazione all'uopo depositata - pagina 12).

Inammissibili, inoltre, si appalesano le cesure di cui al quarto motivo. Premesso, infatti, che nella specie si applica l'art. 437 c.p.c. (non già l'art. 345, che disciplina l'appello secondo il rito ordinario) e che le due norme di legge, ancorché simili, non recano disposizioni tra loro identiche, va comunque rilevato che tra i documenti nuovi, la cui produzione non è consentita in secondo grado ("salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa", secondo l'art. 437), non sono certamente inclusi i conteggi, che non hanno evidentemente alcuna funzione probatoria, ma soltanto illustrativa delle tesi di parte, parte che evidentemente nell'ambito dei suoi diritti disponibili in giudizio è libera anche di ridurre le proprie pretese nei limiti di quanto inizialmente domandato, senza perciò violare alcuna norma processuale, tenuto conto soprattutto delle regole fissate in materia dagli artt. 99 e 112 c.p.c., risultando in tal sensi assicurato ugualmente il contraddittorio pure in sede d'impugnazione (v. Cass. lav. n. 3004 del 24/05/1979: si ha introduzione di domanda nuova, preclusa in appello dall'art. 437 c.p.c. solo quando essa, introducendo un nuovo petitum o una nuova causa petendi, comporti la prospettazione di una diversa situazione giuridica, con mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere, così da dilatare il tema d'indagine mediante sostanziale alterazione dell'oggetto dell'azione e dei termini della controversia. Non costituisce, pertanto, domanda nuova la riduzione in appello della domanda originariamente proposta in primo grado, senza sostanziale alterazione dell'oggetto e dei termini della controversia. Cfr. altresì Cass. lav. n. 617 del 22/01/1999, secondo cui, richiesto dal lavoratore con l'atto introduttivo del giudizio il ripristino del rapporto di lavoro con conseguente pagamento delle relative retribuzioni, non costituisce mutamento delle conclusioni vietato nel giudizio di rinvio ai sensi dell'art. 394 cod. proc. civ. la richiesta, per il caso di omessa riassunzione, del pagamento del risarcimento del danno nella misura degli emolumenti futuri, trattandosi, nella specie, non di domanda nuova, ma soltanto di riduzione della domanda originaria).

Per giunta, anche in relazione al quarto motivo le due ricorrenti hanno omesso di fornire opportune e compiute allegazioni ex art. 366 c.p.c., nonché precisazioni dovute ai sensi del citato art. 369 n. 4. Per quanto concerne, poi, il dedotto vizio di omessa motivazione, nel rinviare alla precedente narrativa ed a quanto sopra osservato con riferimento al novellato art. 360 co. I n. 5, va in ogni caso rilevato che, ove voglia diversamente qualificarsi la denunciata violazione come error in procedendo, il vizio andava ritualmente dedotto univocamente in termini di nullità ex art. 360 co. I n. 4 c.p.c., ciò che non appare nel caso di specie alla stregua della formulazione adoperata dalle ricorrenti (cfr. Cass. II civ. n. 24247 del 29/11/2016: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Ne deriva che, ove il ricorrente lamenti l'errore processuale consistito ( nell'aver ritenuto ammissibile una domanda in violazione delle preclusioni processuali, non indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché si riferisca esclusivamente alla insufficienza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.. In senso analogo, v. anche Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24 luglio 2013, con specifico riferimento all'art. 112 c.p.c.).

D'altro canto, quanto ai conteggi sindacali, non meglio indicati da parte ricorrente, va ancora richiamato il principio fissato da Cass. lav. n. 15653 - 01/07/2010, secondo cui nelle cause soggette al rito del lavoro, l’acquisizione del testo dei contratti o accordi collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso l'esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art. 437, secondo comma, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne risulti contestata l'applicabilità al rapporto. V. anche Cass. III civ. n. 11685 del 27/10/1992: <<Nel rito del lavoro, applicabile, ai sensi dell'art. 46 della legge 27 luglio 1978 n. 392, anche alle controversie per la determinazione dei canoni, le preclusioni in ordine alle prove previste dagli artt. 415 n. 5-416 cod. proc. civ., per il giudizio di primo grado, e dagli artt. 434-436- 437 dello stesso codice, per il giudizio di appello, non sono applicabili ai documenti che provengono dalle parti e non hanno funzione probatoria ma meramente difensiva ed esplicativa, i quali sono assimilabili alle difese e possono essere, quindi, anche allegati alle note difensive depositate nel termine all'uopo concesso ai sensi degli artt. 429 secondo comma e 437 cod. proc. civ.>>). Analogamente, infine, risulta inammissibile il quinto e ultimo motivo relativo alla condanna alle spese di lite, asseritamente ingiusta poiché in violazione del principio fissato dall'art. 112 c.p.c. in tema di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e per cui le ricorrenti ne hanno chiesto la "riforma anche sotto tale profilo", poiché a tacer d'altro anche con questa doglianza, che in effetti prospetta un'ipotesi di error in procedendo ex art. 360 n. 4 c.p.c., non è stata ritualmente ed univocamente dedotta, nei sensi già illustrati a proposito del quarto motivo, la nullità della pronuncia. Peraltro, la censura anche nel merito è palesemente infondata, trattandosi di pronuncia che ha radicalmente riformato la gravata sentenza di rigetto, perciò sostituendola integralmente quale unica valida e processualmente rilevante decisione emessa dal giudice superiore di secondo grado, sicché indipendentemente dall'impulso di parte andavano ex novo regolate tutte le spese di lite (v. Cass. IlI civ. n. 12963 del 04/06/2007: il giudice di appello, allorché riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio ad una nuova regolamentazione delle intere spese processuali, quale conseguenza della pronuncia merito adottata, poiché l'onere delle stesse deve essere attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della controversia. Conformi: Cass. n. 5497 del 2002 e Sezioni Unite n. 15559 del 17/10/2003, nonché III civ. n. 23059 del 30/10/2009. Cfr. altresì Cass. lav. n. 26985 del 22/12/2009, secondo cui il giudice d'appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d'ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell'esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all'art. 336 cod. proc. civ., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese. In senso conforme Cass. II civ. n. 28718 del 30/12/2013, nonché VI civ. - 3 n. 1775 del 24/01/2017).

Pertanto, atteso l'esito negativo di entrambe le impugnazioni, le parti rimaste soccombenti vanno condannate al rimborso delle relative spese, in favore della controricorrente, ricorrendo altresì i presupposti di legge in forza di cui le stesse sono tenute al versamento di ulteriori contributi unificati.

 

P.Q.M.

 

Dichiara INAMMISSIBILI i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida a favore di pare controricorrente in complessivi euro 4000,00 (quattromila/00) ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma I quater d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i ricorsi, a norma del comma l-bis dello stesso articolo 13.