Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 settembre 2017, n. 21740

Tributi indiretti - IVA - Cessioni all'esportazione con clausola ex-works - Modelli DAU

 

Fatti di causa

 

La società ha impugnato l'avviso di accertamento, con il quale il Fisco, per l'anno 2005, ha recuperato l'iva relativa alla vendita di orologi a cessionari esteri non residente nel territorio della Comunità. In particolare si trattava di cessioni all'esportazione con trasporto a cura del cessionario non residente (cessioni all'esportazione con clausola ex-works).

Gli adempimenti relativi all'esportazione furono curati da un soggetto che aveva agito quale incaricato dei cessionari esteri, il quale aveva ritirato la merce presso il venditore italiano in Trieste (attuale ricorrente); ne aveva poi curato il trasporto presso la dogana di Treviso, da dove l'aveva infine ritirata dopo il compimento delle formalità doganali.

Sulla base di indagini eseguite presso lo spedizioniere (che aveva predisposto i modelli DAU con "visto uscire"), l'Amministrazione Finanziaria aveva appurato che costui (lo spedizioniere) non sapeva nulla delle modalità di trasporto delle merci dopo la loro uscita dalla dogana.

Fu poi appurato che l'intermediario, soggetto residente in Italia e titolare di partita Iva, non aveva ricevuto compensi dai cessionari esteri.

Ciò posto l'Ufficio suppose l'inesistenza dei cessionari esteri, con conseguente riqualificazione delle operazioni quali cessioni interne imponibili.

La contribuente ha ottenuto ragione sia dinanzi alla Commissione tributaria provinciale e sia dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia (Ctr), che rilevò che non c'era la prova del coinvolgimento del cedente in operazioni intese a frodare il Fisco. Quindi, posta la premessa che l'onere di provare tanto l'inesistenza delle cessionarie, quanto l'illecito dell'intermediario fosse a carico dell'Ufficio, rilevò che il cedente, tenuto conto della regolarità documentale della operazione, non aveva ragioni di sospettare che dietro gli acquisti si celasse una operazione fraudolenta.

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate sulla base di due motivi, cui la contribuente ha reagito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Il primo motivo di ricorso deduce, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione dell'art. 2967 c.c., imputando alla Ctr di non aveva fatto buon governo delle regole sulla distribuzione dell'onere della prova. Infatti, nel complesso degli elementi fatti valere con l'avviso di accertamento, non era il Fisco a dovere fornire la prova della mala fede del cedente, essendo piuttosto onere di lui provare la propria buona fede. E' bene chiarire che il rimprovero che la ricorrente muove alla Commissione tributaria regionale non è di avere sollevato il cedente dall'onere di fornire la prova documentale dell'esportazione secondo quanto prevede l'art. 8, lett. b) del d.P.R. n. 633 del 1972, applicabile nel caso in esame trattandosi di esportazione con c.d. clausola ex-works (i beni vengono consegnati al cliente non residente nel territorio italiano, ed è il cliente non residente che, direttamente o tramite terzi, provvede a trasportare o far trasportare i beni fuori del territorio dell’Unione). La censura riflette piuttosto la diversa impostazione seguita dal Fisco nella vicenda, che ha ipotizzato che, dietro la realtà documentale (che non ha costituito oggetto di contestazione), si celasse nella sostanza una comune cessione interna imponibile fra la società e il preteso l'intermediario, il quale aveva in effetti acquistato per sé e non per gli inesistenti clienti esteri. Secondo la ricorrente, gli elementi di anomalia riscontrabili nelle operazioni erano tali da imporre, a carico del cedente, l'onere di dare la prova della propria buona fede incolpevole in ordine alla realtà che si nascondeva dietro la situazione apparente; di contro la Ctr aveva erroneamente ritenuto che fosse invece onere dell'ufficio provare la mala fede.

Il motivo è infondato. Nel caso di specie, la Ctr, senza prendere una posizione univoca sulla portata oggettiva dei fatti (e cioè la esistenza dei cessionari esteri), ha immediatamente considerato i fatti dal punto di vista della percezione che ne aveva avuto il cedente. Ne ha tratto la conseguenza che egli, nella situazione considerata, non aveva alcuna ragione di sospettare che le cessioni fossero qualcosa di diverso rispetto a quanto appariva dai documenti.

Insomma la sentenza non ha deciso in quel modo sanzionando il mancato assolvimento dell'onere, da parte dell'ufficio, di provare la mala fede del contribuente, ma ha ritenuto che le risultanze istruttorie non autorizzavano l'illazione che il contribuente sapesse o che avrebbe dovuto sapere di partecipare, tramite le operazione invocate, a un'evasione dell'imposta: quindi ha ritenuto che egli versasse in una situazione soggettiva di buona fede che precludeva il recupero dell'imposta sul valore aggiunta sui beni ceduti per l'esportazione, ma di fatto non esportati.

In tale ricostruzione, in linea con la giurisprudenza della UE (conf. in gen. Corte giust., 18 dicembre 2014, Italmoda) e con quella di questa Suprema corte in tema di operazioni soggettivamente inesistenti (Cass. n. 25778/2014), non c'è alcuna violazione della norma sul riparto dell'onere probatorio, ma la relativa valutazione andava semmai impugnata per vizio di motivazione (Cass. 5 aprile 2016, n. 6563).

Il vizio di motivazione è stato in effetti dedotto con il secondo motivo, con il quale la sentenza è censurata per avere ritenuto plausibile che l'intermediario fosse realmente tale e per avere quindi attribuito rilievo a una mera eventualità, in assenza di qualsiasi concreta fonte di prova al riguardo. Ma anche tale motivo è infondato. Si è ripetutamente sottolineato che la Ctr, nella valutazione della vicenda, si è posta immediatamente dal punto di vista del cedente, ritenendo che non vi fosse prova che egli fosse coinvolto in operazioni intese a frodare il Fisco, né che avesse ragione di sospettarlo. Insomma la Ctr ha considerato gli elementi fattuali dedotti dall'ufficio e li ha complessivamente valutati inidonei a sostenere che il contribuente avrebbe potuto e dovuto rendersi conto della inesistenza dell'esportazione.

La valutazione espressa al riguardo non è né illogica né contraddittoria, e il suo contenuto, naturalmente, non è sindacabile in questa sede, in forza del principio che la deduzione del vizio di motivazione non potrà mai preludere a una considerazione degli elementi di prova diversa da quella fatta propria dal giudice di merito.

Il ricorso, pertanto, va interamente rigettato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.