Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 febbraio 2017, n. 2975

Licenziamento - Superamento del periodo di comporto - Fallimento - Affitto ramo di azienda

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza pubblicata il 4.6.14 la Corte d'appello di Brescia, in riforma della sentenza di rigetto emessa dal Tribunale della stessa sede, accertava l'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato il 27.12.10 da G.E. S.p.A. in liquidazione a C.B., senza però disporne la reintegra nel posto di lavoro od emettere altra pronuncia sulle conseguenze economiche dell'invalidazione del recesso perché, nelle more, era intervenuto il fallimento di detta società ed era cessata l'attività produttiva.

Per la cassazione della sentenza ricorre C.B. affidandosi a due motivi.

Il Fallimento del G.E. S.p.A. in liquidazione resiste con controricorso.

Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 legge n. 300/70 e omesso esame d'un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui la sentenza impugnata si è limitata ad accertare l'illegittimità del licenziamento senza disporre le conseguenze non meramente patrimoniali di tale statuizione, come la reintegra nel posto di lavoro che, ricostituendo il rapporto, avrebbe consentito al ricorrente di essere considerato alle dipendenze del G.E. S.p.A. al momento del licenziamento, così permettendogli di passare ex art. 2112 c.c., insieme con gli altri ex dipendenti della società, alle dipendenze della ditta che, preso in affitto un ramo dell'azienda, stava proseguendo l'attività produttiva.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 co. 1°, la parte, e 92 co. 2° c.p.c., là dove la sentenza impugnata ha compensato per intero le spese del doppio grado trattandosi di sentenza di mero accertamento ed avendo il ricorrente rifiutato la proposta transattiva formulata: si obietta in ricorso che la prima è una circostanza del tutto ininfluente a fini di governo delle spese e che della proposta transattiva la sentenza non chiarisce né l'esistenza né il contenuto.

2- Preliminarmente si rigetta l'eccezione di inammissibilità del ricorso per preteso difetto di autosufficienza (non dovuta quando il ricorrente si limiti, come nel caso di specie, a confutare giuridicamente quanto asserito in sentenza, senza bisogno di rinviare ad alcun atto o documento del processo) o perché relativo a censure in fatto (al contrario: quelle spese in ricorso sono solo in diritto) o per pretesa violazione dell'art. 366 co. 1° n. 4 c.p.c. (il ricorso contiene specifica indicazione dei motivi di censura e delle norme che si assumono violate).

Del pari si respinge l'eccezione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione per intervenuta acquiescenza ex art. 329 c.p.c. o per carenza di interesse, per aver il ricorrente proposto, dopo il deposito della sentenza qui impugnata, domanda di insinuazione tardiva ex art. 101 L.F. e per aver ottenuto l'ammissione al passivo per euro 51.831,42 in base a quanto disposto dalla stessa sentenza della Corte territoriale: si tratta di condotta che non esclude né l'interesse né la volontà di ottenere l'invocata pronuncia di reintegra e, con essa, la ricostituzione a tutti gli effetti del rapporto lavorativo fin dalla data del licenziamento, con possibilità di fruire d'un passaggio ex art. 2112 c.c. alle dipendenze di ditta cessionaria del ramo d'azienda cui C.B. era addetto.

3- Il primo motivo è fondato.

Per consolidata giurisprudenza di questa S.C., ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all'interno dell'impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa (conseguente all'esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell'azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum (cfr., ex aliis, Cass. n. 7129/11; Cass. n. 16867/11; Cass. n. 4051/04).

Dunque, come la competenza funzionale permane, in tali evenienze, in capo al giudice del lavoro, così egli può emettere - sempre che in concreto ne sussistano gli estremi - i provvedimenti richiesti (reintegra nel posto di lavoro e altre statuizioni a tutela di diritti non patrimoniali, così come invocato dall'odierno ricorrente).

Né all'invocata pronuncia di reintegra osta la cessazione dell'attività della società fallita, erroneamente riferita in sentenza come dirimente al fini del diniego del provvedimento richiesto dal lavoratore.

Al contrario, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 6612/03; Cass. n. 11010/98), con indirizzo cui va data continuità, in caso di fallimento dell'impresa datrice di lavoro dopo il licenziamento d'un suo dipendente, questi ha interesse ad una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell'illegittimità del licenziamento, pronuncia che non ha ad oggetto solo il concreto ripristino della prestazione lavorativa (che presuppone la ripresa dell'attività aziendale previa autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa), ma anche le possibili utilità connesse al ripristino del rapporto. Quest'ultimo si trova in uno stato di quiescenza dalla quale possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro (in relazione all'eventualità di un esercizio provvisorio, d'una cessione dell'azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare o di ritorno in bonis) o l'eventuale ammissione ad una serie di benefici (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità).

4- L'accoglimento del primo motivo e la conseguente cassazione della sentenza in relazione ad esso ha effetto, ex art. 336 co. 1° c.p.c., anche sul capo della sentenza impugnata relativo alle spese, il che importa assorbimento dell'esame del secondo motivo di ricorso.

5- In conclusione, deve accogliersi il primo motivo, con assorbimento del secondo e cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d'appello di Milano, che dovrà pronunciare in ordine alla domanda di reintegra nel posto di lavoro di C.B. e provvedere al governo delle spese, anche del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano.