Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 novembre 2016, n. 24257

Rapporto di lavoro - Rimodulazione della linea gerarchica - Isolamento nell'ambiente di lavoro - Dequalificazione - Prova

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 6487/2009, depositata il 4 febbraio 2010, la Corte di appello di Roma, pronunciando sull'appello principale di A.I. S.r.l. e sull'appello incidentale di B.P., respingeva tutte le domande proposte dal lavoratore con il ricorso di primo grado, riformando la sentenza del Tribunale, che invece aveva accolto la domanda di risarcimento del danno professionale e condannato la società al pagamento, a tale titolo, della somma di euro 40.000,00 oltre interessi legali.

La Corte osservava, a sostegno della propria decisione, con riferimento al gravame della società, come non fosse stato acquisito alcun elemento che consentisse di ritenere che la scelta organizzativa dalla medesima compiuta, compendiatasi in una rimodulazione della linea gerarchica che aveva visto l'affiancamento di un collega capo-area al direttore vendite e, pertanto, la costituzione di una posizione intermedia tra quest'ultimo e il P., avesse ridotto il livello di autonomia delle mansioni proprie del livello nel quale il ricorrente era da ultimo inquadrato; né avevano trovato riscontro le deduzioni relative al progressivo svuotamento dei compiti e all'isolamento nell'ambiente di lavoro, che si sarebbe concretizzato nel sistematico ritardo nell'invio di comunicazioni operative ovvero nel mancato invio di informazioni; osservava inoltre, la Corte di appello, che la compilazione dei cosiddetti ruolini giornalieri di marcia, imposta dal direttore vendite, non era stata idonea a scalfire la posizione di autonomia che connotava la qualifica ed il profilo professionale del lavoratore, perché questi era rimasto libero di organizzare la propria attività, essendo solo tenuto ad informare ex post il proprio superiore gerarchico circa l'attività svolta, e che i toni usati dallo stesso nella corrispondenza intercorsa, pur innegabilmente poco attenti ad esigenze di diplomazia e di fair play, non costituivano di per sé soli dimostrazione della volontà della datrice di lavoro di limitare l'autonomia garantita dalla qualifica professionale attribuita al ricorrente.

Quanto, poi, all'appello incidentale del P., la Corte rilevava, in primo luogo, che le considerazioni già svolte a proposito della mancata prova della dequalificazione portavano ad escludere anche la fondatezza della domanda, già respinta dal giudice di primo grado, di risarcimento del danno correlato alle dedotte vessazioni poste in essere dalla società; mentre, preliminarmente disatteso il rilievo di tardività della contestazione, osservava la Corte che l'aver imputato ai vertici aziendali, con lettera del 10/10/2003, una condotta preordinata alla creazione, in collusione con il direttore vendite, di inesistenti fatti di rilievo disciplinare, come l'attribuzione allo stesso direttore vendite di comportamenti - rivelatisi poi non veri - di carattere offensivo, inutilmente autoritari, vessatori e di rilievo disciplinare per il presunto autore erano fatti tali da fondare, pur in un contesto di tensione, la valutazione di sussistenza della giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ai fatti addebitati. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il P. con tre motivi, illustrati da memoria; la società ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha depositato in udienza note scritte sulle conclusioni del pubblico ministero.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., dell'art. 3 I. n. 604/1966 e dell'art. 18 I. n. 300/1970 e la grave lesione di fondamentali principi in materia di licenziamento e di tutela della dignità e della libertà del lavoratore, con particolare riferimento al diritto di difesa e di critica (art. 360 n. 3 c.p.c.) nonché motivazione insufficiente e illogica (art. 360 n. 5 c.p.c.), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello trascurato di considerare, quanto alla prima delle condotte addebitate (consistita nell'attribuzione al superiore gerarchico B.C. di comportamenti offensivi e vessatori nell'ambito di una riunione tenutasi il 3/9/2003), che in relazione ad essa egli era stato assolto in sede penale dal reato di diffamazione con la formula della insussistenza del fatto e comunque per avere reso sul punto una motivazione del tutto generica; con il medesimo motivo il ricorrente censura altresì la sentenza di secondo grado per avere la Corte, quanto alla seconda (e peraltro residuale) condotta addebitata (consistita nell'imputazione ai vertici dell'azienda, con e-mail del 9/10/2003 e lettera del 10/10/2003, di un piano volto all'artificiosa costruzione di fatti di rilievo disciplinare), omesso di valutare che egli si era limitato ad esercitare il proprio diritto di critica e di difesa e in ogni caso, soffermandosi su di una singola frase, omesso di procedere ad una verifica di tutte le circostanze del caso concreto, pur in presenza di una vicenda complessa e articolata nel tempo e tale da generale, per il declassamento e le vessazioni subite, uno stato di forte tensione.

Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 300/1970 e 2119 c.c., in relazione al principio di immediatezza della contestazione disciplinare e del licenziamento per giusta causa (art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché omessa motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), lamenta che la Corte territoriale non si sia avveduta che una completa e puntuale denuncia dei comportamenti offensivi e vessatori posti in essere dal C. era già stata trasmessa all'amministratore delegato il 25/7/2003, come pure esplicitamente allegato nel ricorso in appello, così che era in relazione a tale data che doveva essere vagliata l'osservanza o meno del principio di immediatezza.

Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché omessa motivazione su circostanze decisive (art. 360 n. 5 c.p.c.), il ricorrente lamenta che, nel riformare la sentenza di primo grado nel capo relativo al danno alla professionalità, la Corte non abbia operato, come necessario, un confronto tra le mansioni svolte dal lavoratore prima e dopo la modifica organizzativa del giugno 2003 ma tra queste ultime ed il livello di inquadramento posseduto; ed inoltre che abbia omesso di prendere in esame fatti e circostanze la cui considerazione avrebbe invece condotto a ritenere accertato il declassamento subito, come omesso di procedere ad ogni indagine sui molteplici comportamenti integranti violazione dell’art. 2087 c.c.. Deve preliminarmente essere disatteso il rilievo di passaggio in giudicato della sentenza impugnata, atteso che il ricorso per cassazione risulta tempestivamente depositato entro il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa (art. 327 c.p.c.).

Al riguardo si osserva, diversamente da quanto sostenuto dalla società controricorrente, che "in tema di impugnazioni, la modifica dell'art. 327 c.p.c., introdotta dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, che ha sostituito il termine di decadenza di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza all'originario termine annuale, è applicabile, ai sensi dell'art. 58, comma 1, della predetta legge, ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4 luglio 2009, restando irrilevante il momento dell'instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio" (Cass. n. 6007/2012).

Il principio è consolidato: cfr. Cass. n. 17060/2012; n. 15741/2013; n. 19969/2015. Ciò premesso, si rileva che il primo motivo è infondato.

La Corte di appello ha, infatti, ritenuto "altrettanto grave" della prima condotta, e in via autonoma "idonea ad incrinare il rapporto fiduciario la imputazione alla società e per essa ai vertici aziendali di una condotta preordinata alla creazione, in collusione con il C., di inesistenti fatti di rilievo disciplinare".

Tale valutazione di gravità, che, implicando un apprezzamento di fatto, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, appare nella specie sostenuta da un adeguato corredo argomentativo, sia perché la Corte, individuata nella lettera indirizzata dal P. all'amministratore delegato la frase che ha dato origine e fondamento alla contestazione disciplinare, ne ha escluso qualsiasi possibile valenza di legittima critica e di esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, sottolineando al contrario, sulla base della formulazione letterale e della concatenazione sintattica delle parole adoperate, come essa si sostanzi in "accuse di scorrettezza denigratorie dell'intera linea gerarchica"; sia perché il giudice di appello ha proceduto, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, alla valutazione del contesto in cui la lettera all'amministratore delegato era maturata, espressamente soffermandosi sul clima di "tensione" nei rapporti tra il lavoratore e la società, alla luce di quanto posto in evidenza al riguardo dal primo giudice e comunque emergente dai fatti e dagli episodi già oggetto di esame nella trattazione del gravame principale e (per la parte di interesse) di quello incidentale.

Né si può dubitare della idoneità ad inscriversi nell'ambito della giusta causa di recesso di un comportamento che, attribuendo alla controparte datoriale la volontà preordinata di recare pregiudizio al dipendente, attraverso la falsa costruzione dei presupposti per un'azione disciplinare dalle potenzialità espulsive ed una macchinazione coinvolgente una pluralità di soggetti, si colloca ben al di fuori di quella fiducia reciproca che è tratto essenziale del rapporto di lavoro subordinato e che, pur nella diversità (e talora netta contrapposizione) di interessi in conflitto, non è separabile dalla confidente attesa di una tutela misurata e corretta della posizione antagonista.

Il secondo motivo è infondato.

Si deve, infatti, osservare come non sia pertinente il richiamo alla denuncia (già inoltrata con lettera in data 25/7/2003) di comportamenti mobbizzanti del C., in presenza di un'autonoma valenza disciplinare riconosciuta in sentenza al concorrente addebito costituito dalle frasi contenute nella e-mail del 9/10/2003 e nella lettera del 10/10/2003, rispetto alle quali - come esattamente rilevato dalla Corte territoriale, in aderenza a consolidati principi in materia - la successiva lettera del 16-17/10/2003 non è idonea a integrare alcuna violazione del principio di tempestività, essendo questo funzionale ad impedire che un eccessivo distacco temporale tra fatto e contestazione sia di pregiudizio alla effettiva difesa del lavoratore incolpato.

Risulta infondato altresì il terzo motivo di ricorso.

Al riguardo è da rilevare anzitutto che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, che a conforto del proprio assunto estrapola da un più ampio contesto motivazionale il rilievo di cui al penultimo capoverso della pag. 3 della sentenza impugnata, la Corte di appello non si è limitata nella propria indagine a porre in relazione le mansioni svolte dal P. successivamente alla modifica organizzativa del giugno 2003 con il livello di autonomia proprio dell'inquadramento attribuitogli, ma ha correttamente operato un confronto sostanziale (e non puramente formale, nei termini denunciati) tra l'attività esercitata prima e dopo tale momento fondamentale: come risulta con chiarezza dalla diffusa considerazione dei diversi fatti e comportamenti che hanno segnato la vicenda di dequalificazione dedotta in giudizio e come emerge dal giudizio di sintesi con cui il giudice del merito ha riassunto il senso delle proprie conclusioni, laddove ha rilevato la mancanza agli atti di "alcun elemento che consenta di ritenere che la scelta organizzativa della società, compendiatasi in una rimodulazione dell'assetto della linea gerarchica e organizzativa, abbia determinato la riduzione dei poteri discrezionali e degli spazi di intervento propri dell'azione del P." (pag. 4).

D'altra parte, non è configurabile una diminuzione del patrimonio di capacità e di esperienza professionale concretamente acquisito, allorquando eventuali azioni di segno contrario (nella specie, comunque ritenute motivatamente insussistenti) si esauriscano in un lasso temporale di tale brevità da risultare prive di apprezzabile idoneità lesiva.

In realtà il motivo in oggetto, ripercorrendo le allegazioni in fatto del ricorso introduttivo, anche anteriori al giugno 2003 (e, quindi, al periodo in cui si sarebbe verificata la violazione dell'art. 2103 c.c.), tende a sollecitare a questa Corte di legittimità un nuovo esame, che le è del tutto precluso, del merito della causa, in particolare contrapponendo su singoli fatti e circostanze, fra cui l'inurbanità aggressiva del C. e i "ruolini di marcia" giornalieri dallo stesso imposti, una difforme ricostruzione o assegnazione di significato e "peso" probatorio rispetto a quella fatta propria dal giudice di secondo grado.

Deve in proposito ribadirsi il costante orientamento in tema di omessa o insufficiente motivazione deducibile ex art. 360 n. 5 c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella legislativa del 2012, secondo il quale al giudice di legittimità spetta non già il riesame nel merito dell'intera vicenda processuale ma la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (cfr. ex multis Cass. n. 27197/2011).

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.