Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 giugno 2016, n. 12552

Tributi - Cessione del credito di imposta - Divieto per il cessionario di ulteriore cessione del credito - Esecuzione nell’ambito di cessione d’azienda - Legittimità

 

Svolgimento del processo

 

La società C. afferma di vantare un credito Irpeg che originariamente era nella titolarità della T. spa.

Quest'ultima aveva effettuato cessione del credito alla C.L., che, a sua volta aveva ceduto il ramo d'azienda, comprensivo del credito, alla C.

L'Agenzia non ha riconosciuto questa ultima cessione ritenendola contraria al disposto dell'art. 43 bis della legge 602 del 1972 (ndr art. 43 bis del DPR n. 602 del 1973), che vieta al cessionario di un credito fiscale di effettuare una nuova cessione.

La C. ha impugnato il provvedimento ottenendo ragione nei due gradi di merito, dove si è fatto valere l'argomento che la seconda vicenda non era stata una cessione del credito, bensì di azienda, che comporta quale effetto naturale anche il trasferimento dei crediti.

L'Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione con un unico motivo volto a sostenere l'applicazione dell'art. 43 bis anche al caso in cui il credito sia ceduto quale effetto della cessione di azienda.

Resiste con controricorso la società, che deposita memorie ulteriori.

 

Motivi della decisione

 

La sentenza impugnata ha ritenuto non applicabile il divieto di doppia alienazione del credito tributario al caso in cui la successiva cessione costituisca il mero effetto della cessione di azienda, limitando l'applicazione della norma (art. 43 bis) alla fattispecie di negozio di cessione del credito tributario, o meglio di negozio il cui oggetto (o il cui effetto) tipico sia proprio il trasferimento del credito.

1. - Con l'unico motivo di ricorso l'Agenzia denuncia violazione dell'art. 43 bis DPR n. 602 del 1973.

La norma, come è noto, recita che "il cessionario non può cedere il credito oggetto della cessione".

La sentenza impugnata ha escluso che la norma si possa applicare al caso in cui il cessionario cede l'azienda, e non già il credito, e con essa, per effetto proprio della cessione, venga trasferito anche il credito.

Ritiene l'Agenzia che si tratta di un erronea interpretazione della norma, che invece coinvolge qualsiasi cessione in ragione anche della ratio che la ispira, e che è quella di salvaguardare l'Amministrazione da una circolazione eccessiva dei crediti.

1.1 - Il motivo è infondato.

La norma vieta al cessionario di cedere il credito oggetto della cessione, e, come tale, costituisce eccezione al principio della libera cedibilità dei crediti. Lo scopo del divieto è di evitare una eccessiva circolazione dei crediti tributari, che indurrebbe incertezza sul creditore del Fisco.

Dunque, da un punto di vista letterale, la norma vieta di cedere il credito, non già di compiere atti che hanno tra i loro effetti anche il trasferimento di uno o più crediti inerenti l'azienda ceduta.

Il trasferimento del credito può costituire l'effetto "tipico" di un atto, il negozio di cessione del credito, che ha come scopo quel trasferimento; ma può anche essere l'effetto di atti diversi dal negozio tipico di cessione del credito, come, ad esempio, la cessione di azienda, perfezionatasi la quale, l'art. 2559 c.c. prevede il trasferimento dei crediti inerenti.

Ossia, altro è la cessione del credito quale atto, altro il trasferimento del credito quale mero effetto.

Mentre funzione tipica del negozio di cessione del credito è il trasferimento della situazione attiva, negli altri casi il trasferimento non fa parte della funzione tipica dell'atto (la cessione dell'azienda,per esempio), ma ne è, piuttosto, un effetto ulteriore o connesso.

Vista la vicenda da un diverso punto di vista, si può dire che nell’atto di cessione il trasferimento del credito è lo scopo principale delle parti, mentre negli altri casi, e segnatamente ad esempio, nella cessione di azienda, lo scopo principale è un altro, ed il trasferimento del credito si pone solo come effetto ulteriore o conseguente.

Inoltre, nel caso di negozio tipico di cessione del credito il trasferimento ha fonte nella volontà delle parti, mentre quando il trasferimento del credito avviene per effetto della cessione di un'azienda, la fonte di quell'effetto è nella legge, restando alle parti eventualmente il potere di escluderla.

Cosi che se il divieto di cui all'art. 43 bis fosse esteso anche ai casi in cui il trasferimento del credito è l'effetto di negozi che hanno funzioni tipiche diverse (la cessione di azienda) si porrebbe non già come limite alla autonomia privata, ma proprio come limite alla legge stessa, posto che il trasferimento, come detto, in quei casi ha fonte in quest'ultima.

Si comprende allora la diversità, anche sul piano degli interessi in gioco tra le due ipotesi.

Cosi che una cosa è impedire l'atto (il negozio di cessione) altro è impedire che si verifichi comunque e sempre l'effetto (il trasferimento del credito per effetto di un altro e diverso negozio), anche quando questo è uno dei risultati di un negozio che ha altri scopi.

L'art. 43 bis si riferisce all'atto, poiché vieta al cessionario di cedere a sua volta il credito, ma non può ovviamente impedire l'effetto di trasferimento del credito che sia connesso a negozi aventi scopi diversi dalla cessione. In caso contrario la norma dovrebbe comportare il divieto di ogni atto, pur non rivolto tipicamente a trasferire il credito, ma che abbia anche l'effetto di farlo. Dire che la norma vieta l'effetto significa dire che impedisce di compiere qualsiasi atto che quell'effetto comporta.

L'esito appare eccessivo, avuto riguardo al fatto che la norma contiene pur sempre una regola di eccezione al principio di libera cedibilità dei crediti, ed in quanto eccezione non può spingersi a vietare ogni atto, diverso dalla tipica cessione del crediti, che realizzi comunque l'effetto della circolazione della situazione attiva.

Né può dirsi che, nel caso di cessione che sia solo l'effetto "secondario" di un atto rivolto ad altri scopi (es. trasferimento d'azienda) l'art. 43 bis è da intendersi nel senso che non vieta l'atto (la cessione d'azienda) ma solo l'effetto "secondario (trasferimento del credito), con la conseguenza che l'esito della violazione della norma non sarebbe l'inefficacia dell'intero atto, ma solo della cessione del credito.

Una tale conclusione però non è autorizzata dalla lettera della norma. Cosi che nel caso di cessione di azienda, che contenga anche alcuni crediti fiscali, si dovrebbe dire che è inefficace l'intera cessione, almeno nei confronti del Fisco, il che è esito sovrabbondante rispetto agli scopi stessi della norma.

Infatti, la diversità tra le due ipotesi (trasferimento del credito quale effetto tipico del negozio di cessione, e trasferimento del credito quale effetto ulteriore di atti aventi diversi scopi) è evidente anche sotto il profilo fiscale. Nel caso in cui il credito è trasferito per via della cessione non v'è alcuna continuità fiscale tra cedente e cessionario, che rimangono due soggetti fiscalmente diversi, mentre non può trarsi analoga conclusione nel caso di cessione di azienda, nel quale invece v'è continuità fiscale tra cedente e cessionario, per effetto proprio della contemporanea cessione dei crediti insieme all’azienda, come affermato da questa Corte in diverse occasioni ( "In caso di cessione d'azienda, il credito d’imposta di cui all'art. 4 della legge n. 449 del 1997, concesso per l’incremento della base occupazionale alle piccole e medie imprese, per la parte già maturata, ma non ancora utilizzata dal cedente l'azienda, è trasferibile alla società - qualora quest'ultima prosegua la stessa attività - succeduta nella titolarità della stessa azienda, verificandosi una continuità anche fiscale tra le due aziende, come previsto dagli artt. 2559 cod. civ. e 58 del d.P.R. n. 917 del 1986." - Cass. N. 3342 del 2013, ma anche n. 9124/ 2014).

La diversità delle ipotesi è dunque tale che l'applicazione della norma, pensata evidentemente per la prima delle due, anche alla seconda realizza una applicazione analogica, come paventato dal giudice di merito; applicazione che, stante la natura eccezionale della disposizione, che deroga al principio della libera credibilità dei crediti, non può ritenersi consentita.

Il ricorso va pertanto rigettato, ma la novità della questione impone la compensazione delle spese.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa le spese.