Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 novembre 2016, n. 22942

Contratto di lavoro - Termine finale di durata - Incremento dell'attività aziendale

Fatto

 

Con sentenza depositata il 27.5.2013, la Corte d'appello di Roma confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda di L.G.L.G. volta alla declaratoria di nullità del termine finale di durata apposta al contratto di lavoro stipulato con P. s.r.l.

La Corte in particolare riteneva che le ragioni dell'assunzione a termine, esplicitate nel contratto mediante riferimento ad "incremento di attività", valessero a integrare il requisito della sufficiente specificità richiesto dall'art. 1, d.lgs. n. 368/2001, tenuto conto della natura delle mansioni, della durata del contratto e dell'oggetto dell'attività aziendale.

Contro questa pronuncia ricorre il lavoratore con un motivo.

Resiste P. s.r.l. con controricorso.

 

Diritto

 

Con l'unico motivo di censura, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368/2001, per avere la Corte territoriale ritenuto che le ragioni dell'assunzione, per come esplicitate dal contratto stipulato inter partes, valessero ad integrare il requisito della specificità della causale necessario ai fini della validità della stipulazione a termine.

Il motivo è inammissibile. Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un'erronea interpretazione della medesima ovvero nell'erronea sussunzione del fatto cosi come accertato entro di essa, e non va confuso con l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura in sede di legittimità, che era prima possibile sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 15499 del 2004, 18782 del 2005, 5076 e 22348 del 2007, 7394 del 2010, 8315 del 2013), deve adesso considerarsi ammissibile nei più ristretti limiti della nuova formulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., quale risultante dalla modifica apportata dall'art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv. con I. n. 134/2012).

Ciò posto, è agevole rilevare che la censura proposta da parte ricorrente incorre precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulata con riferimento a una presunta violazione o falsa applicazione dell'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368/2001, concerne in realtà la motivazione addotta dalla Corte di merito a sostegno del giudizio relativo alla ricorrenza in concreto degli elementi tipici della clausola generale contenuta nella disposizione cit., che si pone invece sul diverso piano del giudizio di fatto demandato al giudice di merito (cfr. in tal senso, tra le più recenti, Cass. n. 6498 del 2012). E poiché l'art. 54, d.l. n. 83/2012, cit., ha reso denunciabile per cassazione solo l'anomalia motivazionale attinente all'esistenza della motivazione in sé, a prescindere cioè dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014), il ricorso va ritenuto inammissibile e il ricorrente, soccombente, va condannato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi € 3.900,00, di cui € 3.800,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.