Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 settembre 2016, n. 17776

Licenziamento per giusta causa - Comportamento oltraggioso nei confronti del superiore - Non sussuste - Valutazione delle prove - Attendibilità dei testimoni - Reintegra nel posto di lavoro

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza resa pubblica il 14/11/2013, confermava la pronuncia del giudice di prime cure con cui era stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato in data 8/2/2008 da P.P. s.p.a. nei confronti di C.M., e condannata la società alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ex art. 18 l. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale osservava, per quanto in questa sede rileva, che gli addebiti ascritti alla dipendente e posti a fondamento del provvedimento espulsivo irrogato, avevano rinvenuto smentita all'esito delle dichiarazioni rese dai numerosi testimoni escussi, la cui attendibilità era stata sottoposta ad attento scrutinio, essendo emerso: a) che i compiti affidati alla ricorrente (sistemazione dei capi di abbigliamento nel reparto uomo), erano stati regolarmente svolti; b) che la lavoratrice si era allontanata dal posto di lavoro previa autorizzazione del capo area; c) che il malore che l'aveva colpita non era stato simulato, trovando riscontro nella certificazione medica versata in atti; d) che nessuna prova di un incitamento della C. alla propria madre ad inveire contro il direttore era stata acquisita, non risultando dimostrato, del pari, che la ricorrente avesse tenuto un comportamento oltraggioso nei confronti del superiore gerarchico.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società con sei motivi resistiti con controricorso dalla intimata.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo si denuncia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio in relazione all'art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.

Si lamenta che la Corte distrettuale abbia trascurato di valutare elementi fattuali atti a definire gli addebiti ascritti alla dipendente, e consistiti essenzialmente, nella arbitraria sospensione della prestazione lavorativa per fini personali mediante l'utilizzo di un bene aziendale (telefono) e nella insubordinazione al proprio diretto superiore espressa anche mediante una serie di atteggiamenti irriguardosi.

Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.

Al di là della modalità di stesura che lo connota, e che segue una linea già stigmatizzata da questa Corte con riferimento alla esposizione sommaria dei fatti della causa di cui ai cd. "ricorsi farciti", cioè confezionati in modo tale da riprodurre integralmente gli atti dei pregressi gradi e i documenti ivi prodotti, tra di loro giustapposti con mere proposizioni di collegamento, e ritenuti carenti del requisito di cui all’art. 366, n. 3 c.p.c. (vedi ex plurimis, Cass, 22/2/2016 n. 3385, Cass. 30/9/2014 n. 20589), non può tralasciarsi di considerare che il motivo tende a conseguire una rivisitazione degli approdi ermeneutici ai quali è pervenuta la Corte, inammissibile in sede di legittimità anche alla luce dell'art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. nella versione di testo applicabile ratione temporis.

La censura non appare, infatti, rispettosa dei dettami sanciti dall'art. 360 n.5, come novellato dal d.l. 22/6/12 n. 83 conv. in l. 7/8/12 n. 134, applicabile alla fattispecie ratione temporis.

Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053), la disposizione va letta in un'ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Scompare, quindi, nella condivisibile opinione espressa dalla Corte, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta quello sull’esistenza (sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.

Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell'art. 360 cod. proc. civ. concerne, quindi, l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo.

L'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai detti principi, sollecita un'inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminate dalla Corte territoriale, auspicandone un'interpretazione a sé più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

Lungi dal denunciare una totale obliterazione di fatti decisivi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione della controversia ovvero una manifesta illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune od ancora un difetto di coerenza tra le ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, si limita a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti.

Tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c..

Va al riguardo rimarcato che lo specifico iter motivazionale seguito dai giudici dell'impugnazione non risponde ai requisiti dell'assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l'esercizio del sindacato di legittimità.

La fattispecie concreta è stata, infatti, oggetto di approfondita disamina da parte della Corte territoriale che - come riferito nello storico di lite - facendo leva sui dati istruttori di natura testimoniale acquisiti in atti, è pervenuta all'accertamento della insussistenza degli addebiti ascritti alla lavoratrice all'esito di una compiuta disamina del quadro probatorio delineato in prime cure.

Si tratta di un percorso argomentativo che, congruo e completo, resiste alla censura all'esame.

Con il secondo mezzo di impugnazione, si deduce nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 n.4 c.p.c. per avere la Corte di merito aprioristicamente delibato in ordine alla inattendibilità del teste P., traducendosi detta valutazione, in violazione delle regole procedurali.

La censura si palesa inammissibile, in quanto introdotta mediante disposizione (art. 360 n.4 c.p.c.) non appropriata.

Il ricorso a tale strumento di impugnazione presuppone la denuncia di un vizio di attività, che sia determinato da erronea applicazione della legge processuale e sia idoneo a determinare la nullità dell'atto e di tutti quelli successivi dipendenti, sino alla sentenza.

Orbene, nello specifico, la ricorrente intende muovere una critica in ordine alla valutazione sulla inattendibilità del testimone A.P. (superiore gerarchico della C.) disposta dal giudice dell'impugnazione, secondo modalità che, all'evidenza, esulano dal mezzo di impugnazione utilizzato, non risultando vulnerata alcuna disposizione di ordine processuale (del resto, neanche indicata dalla società).

Detta critica ridonda, invece, in termini di vizio di motivazione ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.

Ed invero, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull'attendibilità dei testimoni - oggetto della presente doglianza - come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a correggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (cfr. Cass. 23/5/2014 n. 11511, Cass. 7/1/2009 n. 42).

Né, sotto altro versante, può ritenersi validamente impugnata tale statuizione del giudice dell'impugnazione, per violazione e falsa applicazione dell'art. 246 c.p.c. in riferimento all'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., giacché, secondo l'orientamento tracciato da questa Corte, e che va qui ribadito, la valutazione della sussistenza o meno dell'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., è rimessa - così come quella inerente all'attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni - al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se - come nella specie - risulta congruamente motivata. Cass. 4/6/2007 n. 12947, Cass. 19/1/2007 n. 1188).

Con la quarta censura è dedotta violazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, costituito dalle ingiurie e minacce profferite dalla lavoratrici nei confronti del superiore sig. P. e nell'aver aizzato contro di lui la propria madre.

Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. in relazione all'art. 360 n.3 c.p.c. per aver negato che il comportamento assunto alla lavoratrice, la quale aveva assistito alle minacce anche di morte, indirizzate dalla madre al proprio superiore, fomentando il suo atteggiamento aggressivo, non costituisse comportamento rilevante ai fini della giusta causa di licenziamento.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi siccome connessi, vanno disattesi.

Essi tendono a pervenire, anche a mezzo della denuncia del vizio di violazione di legge, ad una rivalutazione del quadro probatorio delineato in prime cure, come elaborato dalla Corte territoriale.

La violazione di legge viene infatti dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura attiene al vizio di motivazione, mirando a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame che è inibita nella presente sede di legittimità, giacché l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 16/7/2010 n. 16698, cui adde Cass. 18/11/2011 n. 24253, Cass. 16/09/2013 n. 21099 e, da ultimo, Cass. 11/1/2016 n. 195).

Tali aspetti del giudizio, come già rilevato in relazione al primo motivo di ricorso, attengono al libero convincimento del giudice e non assumono rilevanza in questa sede di legittimità, ai sensi del novellato disposto di cui all’art. 360, co. 1 n. 5, c.p.c..

Con il sesto motivo si deduce nullità della sentenza in relazione all'art. 360 n.4 c.p.c. per omesso esame del motivo di appello concernente l’aliunde perceptum e l'aliunde percipiendum.

Il motivo va disatteso.

In via di premessa va considerato che, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell'attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, qualora sia riscontrabile l'omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di legittimità può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti di fatto (vedi Cass. 28/10/2015 n. 21968, Cass. 11/11/2014 n. 23989 Cass. 11/4/2012 n. 5729, Cass. 1/2/2010 n. 2313).

Orbene, nello specifico ricorre proprio siffatta situazione.

La ricorrente, infatti, ha criticato la sentenza impugnata per avere omesso di scrutinare i motivi di appello rubricati sub. 15 e 16, con i quali si era limitata a dedurre che erroneamente il giudice di primo grado aveva disatteso l'eccezione, formulata nella memoria difensiva di costituzione, di aliunde perceputm, nonché le richieste istruttorie finalizzate a provare il percepimento di redditi da lavoro da parte della C., così come l'eccezione di aliunde percipiendum ai sensi dell'art. 1227 c.c., nonostante la lavoratrice non avesse provato di essersi iscritta al Centro per l'impiego, né di essersi attivata nella ricerca di una nuova occupazione. Ha chiesto, quindi, l'assunzione di informazioni ex artt. 210, 213 e 421 c.p.c., in relazione ai redditi da lavoro eventualmente da quest'ultima percepiti nel periodo successivo al licenziamento.

Benché la lacuna censurata sia effettivamente riscontrabile nella pronuncia qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che l'incedere argomentativo seguito dalla ricorrente in sede di gravame, non è consono ai principi affermati da questa Corte secondo cui, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (cfr. Cass. 12/5/2015 n. 9616, Cass. 17/11/2010 n. 23223). Ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute, è, quindi, necessario che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte provenga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l'entità del danno risarcibile (in tali sensi, vedi Cass. 1/9/2015 n. 17368, Cass. 10/4/2012 n. 5676).

Siffatti oneri non risultano adempiuti dalla società su cui gravavano, giacché critiche formulate alla sentenza di primo grado si sono concretate in una mera allegazione di circostanze, peraltro del tutto generiche, che non rispondono ai principi in tema di ripartizione degli oneri probatori testé riportati.

In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore dell'avv. B.I..

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell'ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore dell'avv. B.I..

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.