Giurisprudenza - TRIBUNALE DI CUNEO - Ordinanza 09 febbraio 2017

Perequazione automatica delle pensioni per gli anni 2012 e 2013 - Esclusione per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS - Riconoscimento integrale per i trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS e in diverse misure percentuali per quelli compresi tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS - Riconoscimento della perequazione per i trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il minimo INPS, relativa agli anni 2012-2013 come determinata dall'art. 24, co. 25, D.L. n. 201 del 2011, nella misura del 20 per cento negli anni 2014-2015 e del 50 per cento a decorrere dall'anno 2016

 

Il giudice del lavoro, nella persona della dott.ssa D.R. ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 1275/2015 R.G. Lav. promossa da: G.C., con il patrocinio dell'avv. G.I. ricorrente contro Inps, con il patrocinio dell'avv. C.M. convenuto il ricorrente, titolare di pensione VO n. 1004344, con decorrenza agosto 1992, dedotto di non aver usufruito, per effetto dell'articolo 24, comma 25, decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolimento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, della perequazione automatica per l'anno 2013; dedotto che la norma in questione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale; dedotto che la fattispecie è stata nuovamente disciplinata dal decreto-legge 65/2015, convertito con modificazioni dalla legge 109/2015.

 Tanto dedotto ha chiesto l'accertamento del diritto alla rivalutazione automatica della pensione per gli anni 2012 e 2013, con le conseguenti condanne a carico dell'INPS. E, in via subordinata, in ipotesi di ritenuta applicabilità della normativa sopravvenuta alla declaratoria di incostituzionalità, ne ha prospettato la illegittimità costituzionale, al fine della rimozione degli ostacoli normativi all'accoglimento delle conclusioni.

L'INPS si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso. 

Rilevanza della questione di illegittimità costituzionale

Il ricorrente sulla base del meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni così come introdotto dall'art. 34 comma 1 della legge n. 448/98, avrebbe diritto alla rivalutazione annua del trattamento pensionistico percepito: la rivalutazione era stata infatti bloccata per gli anni 2012-2013, in virtù dell'art. 24, comma 25 decreto-legge 201/2011 convertito dalla legge 214/2011, ma tale norma è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale 70/2015.

 Senonché, il legislatore è intervenuto con decreto-legge 65/2015 (conv. nella legge 109/2015) con normativa che si autoqualifica quale strumento di attuazione di tale pronuncia, affermando «Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di provvedere in materia di rivalutazione automatica delle pensioni al fine di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015..»

 Il provvedimento ha modificato l'art. 24, comma 25, dichiarato incostituzionale, e ha aggiunto il comma 25-bis. 

L'art. 1, primo comma, decreto-legge 65/2015 (conv. nella legge 109/2015) ha infatti stabilito quanto segue: «1. Al fine di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto del principio dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale, all'art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, sono apportate le seguenti modificazioni:

 1) il comma 25 è sostituito dal seguente:

 «25. La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013, è riconosciuta:

a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 

b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 

c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 

d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 

e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi».

 2) dopo il comma 25 sono inseriti i seguenti:

25-bis La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013 come determinata dal comma 25, con riguardo ai trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS è riconosciuta:

 a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 

 b) a decorrere dall'anno 2016 nella misura del 50 per cento».

 Orbene, secondo le allegazioni del ricorrente (non contestate dall'ente convenuto), nel 2011 la sua pensione lorda era di euro 1.544,56, superiore al triplo del trattamento minimo pari a euro 1.382,91; nel 2012 era di euro 1.547,59, superiore al triplo del trattamento minimo pari a euro 1.405,05.  In applicazione della norma da ritenersi vigente a seguito della dichiarazione di incostituzionalità egli avrebbe avuto diritto per il 2012 ad una rivalutazione pari al 2,7% per la quota sino al triplo della pensione, e del 2,43 % per la parte eccedente e sino al quintuplo; per il 2013 avrebbe avuto diritto ad una rivalutazione del 3% per la quota fino al triplo del trattamento minimo, e del 2,7% per la parte eccedente, al quintuplo del trattamento minimo.   Ciò che il ricorrente deduce allora è che in applicazione della norma di cui al decreto-legge 65/15, egli ha ottenuto a titolo di arretrati dovuti per effetto della citata pronuncia n. 70/2015 della Corte costituzionale un importo ridotto per effetto della perequazione minima stabilita dalla norma da ultimo introdotta (collocandosi nella fascia b), anziché l'ammontare dovutogli in applicazione della legge 448/98.

 Ha proposto pertanto il ricorso al fine di ottenere il pagamento della differenza tra quanto effettivamente percepito, a seguito del blocco della rivalutazione, con quanto avrebbe avuto diritto applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal 2013 sino al luglio 2015.

 La disciplina da ultimo introdotta pertanto ha dunque inciso sul valore del trattamento pensionistico riconosciuto al ricorrente. Giova peraltro sin da subito aggiungere che per effetto del disposto di cui al novello comma 25-bis tale incidenza è destinata a protrarsi nel tempo (per il triennio 2014 - 2016). 

Deve ritenersi chiara, perché espressa, l'applicabilità della norma sopravvenuta, alla declaratoria di incostituzionalità, all'ammontare delle pensioni maturare al biennio 2012-2014, non potendosi semplicemente, come sembrerebbe auspicare il ricorrente, ritenere l'acquisizione definitiva al suo patrimonio degli «arretrati» spettantigli: è evidente invero che quelli paventati dal ricorrente sono proprio gli effetti che la nuova disciplina vuole produrre e produce, senza che se ne possa prospettare una interpretazione diversa che sola consentirebbe dì evitare il ricorso alla pronuncia sulla legittimità della stessa.

 Di qui la rilevanza della questione proposta.

 Non manifesta infondatezza.

 L'art. 24, comma 25, decreto-legge 201/2011 (conv. Con modifiche nella legge 214/2011) aveva stabilito, «in considerazione della contingente situazione finanziaria», che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, fosse riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici d'importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento.

 Le pensioni di valore superiore a tre volte il trattamento minimo INPS non godevano pertanto di alcuna rivalutazione. Il blocco operava quindi per le pensioni d'importo superiore ad € 1.217,00 netti.

Con sentenza n. 70 del 30 aprile 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 24, comma 25, decreto-legge 201/2011, per contrasto con gli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., nella parte in cui ha previsto, per le ragioni anzidette, che la rivalutazione automatica fosse riconosciuta esclusivamente ai trattamenti pensionistici d'importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento.

 La pronuncia ha, o avrebbe dovuto avere, l'effetto di ripristinare l'integrale applicazione del meccanismo perequativo previsto dall'art. 34, primo comma, legge 448/98.

 L'intervento di cui al decreto-legge 65/2015 ha invece reintrodotto per gli stessi anni, 2012-2013, un nuovo sostanziale blocco della perequazione automatica, pur operando delle modifiche.

Nello specifico ha confermato l'esenzione integrale dalla disattivazione per le sole pensioni d'importo superiore a tre volte il minimo; ha elevato la soglia dell'esclusione totale della rivalutazione da tre a sei volte il minimo; tra la une e le altre ha inserito fasce intermedie, identificate sempre mediante il rapporto di valore tra trattamento complessivo in godimento e pensione minima, cui applicare la perequazione in misura parziale, con una percentuale inversamente proporzionale allo scarto tra il valore della pensione e quello della pensione minima (40% per quelli compresi tra tre e quattro volte la minima; 20% per quelli compresi tra quattro e cinque volte; 10% per quelli compresi tra cinque e sei volte). Ha poi ulteriormente limitato l'operatività della rivalutazione così stabilita, nella misura del 20% per il biennio seguente, 2014-2015, e del 50% per il 2016.

 Si prospetta in primo luogo la non manifesta infondatezza della questione della legittimità costituzionale della norma per contrasto con gli articoli 3, 36, 38 della Costituzione.

 Le modifiche apportate all'art. 24, comma 25, decreto-legge 201/2011 dal decreto-legge 65/2011 non risultano tali da sottrarre la norma alle medesime censure di incostituzionalità già fatte presenti e rilevate dalla Corte costituzionale. 

Si ripropongono infatti i vizi già rilevati dalla Corte costituzionale nel testo originario della norma: manca il rispetto del vincolo di scopo, tenuto conto della genericità delle giustificazioni poste a base del bilanciamento tra ragioni di spesa pubblica e tutela dei diritti dei pensionati; sono ancora una volta valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità nel meccanismo perequativo; viene confermato il carattere definitivo del sacrificio economico, perché manca una norma che preveda meccanismi di recupero futuro del valore reale dei trattamenti incisi; per le pensioni superiori di sei volte al trattamento minimo viene riprodotto e prolungato nel tempo l'azzeramento totale della perequazione.

 Conviene allora richiamare le ragioni per cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 24 decreto-legge 201/2011.

 La Consulta parte da precisi presupposti, sulla scorta delle acquisizioni rilevabili dalle precedenti pronunce in materia: «8. - Dall'analisi dell'evoluzione normativa in subjecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013). Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all'attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono. (...) Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato alla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all'adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.»

 Perciò: la perequazione automatica dei trattamenti di pensione è uno strumento tecnico diretto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost., connesso al principio di sufficienza della retribuzione, di cui all'art. 36, primo comma, Cost., dovendosi intendere il trattamento di quiescenza come una retribuzione differita (su cui già Corte costituzionale, 208/2014, 116/2013 nonché, con specifico riferimento alla dinamica retribuzione-pensione, 226/1993); le scelte legislative devono muoversi secondo finalità ragionevoli, nel rispetto del principio della eguaglianza sostanziale (ex art. 3, secondo comma, Cost.), ed evitando che esse si risolvano in una disparità di trattamento per alcune categorie di pensionati. 

Lo «scostamento» tra dinamica delle retribuzioni e quella delle pensioni deve pertanto mantenersi nel limite del «sopportabile» (cfr. ancora Corte costituzionale, 226/93), attraverso il, costante, bilanciamento delle esigenze di rispetto delle risorse finanziarie disponibili con la salvaguardia «irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona (Corte Cost., 316/2010), alla luce dei principio di cui agli articoli 36 e 38, II comma, Cost.: proporzionalità e adeguatezza, che devono sussistere non solo al momento del collocamento a riposo, ma vanno «costantemente assicurati anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta». Ne consegue che seppur non è dovuta una coincidenza automatica ed integrale tra pensione ed ultima retribuzione (Corte cost., 316/2010), va comunque garantito il costante adeguamento della prima alla seconda (Corte cost., 501/88).

La Corte è quindi giunta all'enunciazione del principio di diritto su cui si fonda la pronuncia di illegittimità:

«10.- La censura relativa al comma 25 dell'art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).

 Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. 

Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993). 

La disposizione concernente l'azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell'art. 25 del decreto-legge n. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell'art. 81 Cost.).

 L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l'adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.).

Quest'ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost.».

Una sospensione a tempo indeterminato della perequazione o la reiterazione frequente di misure dirette a paralizzarla, esporrebbero il sistema pensionistico a tensioni evidenti con i principi di proporzionalità ed adeguatezza. 

Difettano allora anche nella norma qui in esame i necessari requisiti di «eccezionalità» delle esigenze (onde far fronte a specifiche contingenze), tali non potendosi ritenere gli effetti nell'ordinamento di norma illegittima, e di adeguata limitazione degli effetti a quanto indispensabile a far fronte a tali esigenze. 

Il legislatore del 2011 è stato censurato dalla Corte perché non aveva esercitato il corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e tutela del potere di acquisto del trattamento pensionistico, avendo utilizzato un generico richiamo alla «contingente situazione finanziaria», senza rispettare il vincolo di scopo ineludibile del sacrificio economico imposto ai pensionati.

Ma allo stesso modo, l'introduzione del nuovo testo dell'art. 24 decreto-legge 201/11, così come sostituito con il decreto-legge 65/15, è stato giustificato dal «rispetto del principio dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica» e dalla «salvaguardia della solidarietà intergenerazionale, cioè da enunciazioni generiche e relative a finalità già insite di per sé (ai sensi, rispettivamente, degli articoli 81 e 38 Cost.) in ogni iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica. 

Nella relazione illustrativa al disegno di legge le ragioni vengono espresse ponendo come unico riferimento i maggiori oneri finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il 2012 ed il 2016 proprio per effetto della riattivazione del meccanismo perequativo dell'art. 69 legge 388/2000 conseguente alla sentenza 70/15 della Corte costituzionale, mentre manca qualsiasi accenno alla ragione per cui si intende comunque riequilibrare il disavanzo con l'intervento sul sistema pensionistico e sul perché esso venga modulato con le specificità di cui sopra si è detto. 

Anche nelle enunciazioni di principio è pertanto già palese l'elusione del giudicato costituzionale.

 Inoltre, il testo dell'art. 24 comma 25 così sostituito ha effetti distribuiti su più anni e destinati a diventare permanenti, non essendo previsto il recupero futuro del mancato incremento rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici. Con un'unica disposizione si è dunque realizzata di fatto una reiterazione annuale della paralisi del meccanismo perequativo, in contrasto col monito più volte ripetuto dalla Corte costituzionale. 

Vale la pena ricordare che la Corte ha chiaramente evidenziato che «Deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato».

 Una delle ragioni di censura della norma, che risiede nel fatto che essa non abbia previsto alcun «recupero» dell'incremento perequativo a partire degli anni successivi, incremento che avrebbe potuto avvenire se al termine del blocco la rivalutazione fosse applicata partendo da una base di pensione già «virtualmente» aumentata dell'importo di perequazione non corrisposto, non solo è stata mantenuta, ma si è aggrevata. 

Vengono inoltre incise pensioni anche di valore economico modesto, comunque non rilevante, con applicazione del meccanismo di rivalutazione in percentuali tali da svuotarne il valore.

 Conviene sul punto osservare, con la difesa, come la stessa Corte abbia anche con riferimento alle soglie di ragionevolezza dei metodi applicati, sviluppato delle differenziazioni che consentono di effettuare delle valutazioni. 

La Corte ha infatti valutato le diverse scelte effettuate dal legislatore, avallando, con dei limiti, la scelta del passato legislatore di diversificare la dinamica perequativa per aree di riferimento. Sono state individuate le due diverse tecniche adottate del legislatore per diversificare le percentuali di incremento: la prima, per fasce di importo pensionistico, presuppone l'attribuzione della perequazione a tutta la platea dei pensionati, sia pure con percentuali di incremento decrescenti per ciascuna fascia di importo pensionistico percepito con il crescere del trattamento complessivo. Ne costituiscono esempi (citati in sentenza) l'art. 24, comma 4, legge n. 41/1986; l'art. 11, decreto legislativo n. 503/92; l'art. 69, legge n. 388/2000. 

Tale sistema viene esplicitamente validato dalla Corte in quanto «non discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo».

 La seconda, per trattamenti complessivi percepiti e dunque per scaglioni di soggetti destinatari in base ai trattamenti percepiti, è solo citata (vedi art. 1, comma 483, legge n. 147/2013), tale norma reca uno scarto progressivo moderato delle percentuali di perequazione (95% per i trattamenti superiori al triplo del minimo INPS; 75% per quelli superiori a quattro volte; 50% per quelli superiori al quintuplo; 40- 45% per quelli superiori al sestuplo). 

Come osservato dalla difesa del ricorrente l'adozione di tale tecnica è profondamente diversa dalla prima poiché attribuisce ai pensionati con trattamenti maggiori una percentuale minore di perequazione su tutto il trattamento percepito, laddove con il precedente sistema gli stessi pensionati avrebbero percepito una percentuale di incremento più favorevole per le quote più basse del loro trattamento. 

E' solo la modestia e con ciò, la ragionevolezza, della decrescita della percentuale ad escludere radicali differenze - tra le diverse platee di percettori, e con ciò discriminazioni tra gli stessi.

La riduzione delle percentuali (40% invece del 95%; 20% invece del 75%; 10 % invece del 50%; zero invece del 40-50%) rende la norma estremamente differente e finisce per offrire aumenti poco più che simbolici, a fronte di una diversificazione operata non più per fasce di importo ma per soggetti percettori. 

Si prospetta in secondo luogo come non manifestamente infondata la questione di legittimità della norma alla stregua dell'art. 136 Cost., anche in conseguenza di quanto sopra osservato.

La norma in esame invero, presentandosi come volta ad affrontare le conseguenza della pronuncia di illegittimità, senza peraltro che si fosse creato un vero e proprio vuoto normativo, per essere automatica l'applicabilità della norma vigente sino al decreto-legge del 2011, ha negli effetti vanificato la portata retroattiva della pronuncia di incostituzionalità, eludendone il significato, riproducendo la stessa tecnica di applicazione della perequazione, solo lievemente edulcorata, ma non maniera tale da riuscire a correggerne la già ritenuta irragionevolezza.

Violando co ciò il c.d. «giudicato costituzionale». Deve ricordarsi al riguardo che secondo le recenti pronunce della stessa Corte, deve essere adottato, nel valutare l'estensione del giudicato costituzionale, un approccio sostanziale. 

La Corte ha infatti affermato che l'illegittimità della norma che, «evidentemente priva di autonomia, si prefigge soltanto di ricostituire una base normativa per «effetti» e «rapporti» relativi a contratti che, in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale, ne sarebbero rimasti privi: né il carattere temporaneo della disposizione sembra risolvere il problema e nemmeno attenuarne la portata. 

Al riguardo, va rammentato come, sin da epoca ormai risalente, la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di sottolineare il rigoroso significato della norma contenuta nell'art. 136 Cost.: su di essa - si è detto - «poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto essa toglie immediatamente ogni efficacia alla norma illegittima», senza possibilità di «compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione» (sentenza n. 73 del 1963, che dichiarò la illegittimità di una legge, successiva alla pronuncia di illegittimità costituzionale, con la quale il legislatore aveva dimostrato «alla evidenza» la volontà di «non accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma illegittima, ma di prolungarne la vita sino all'entrata in vigore della nuova legge»; tra le altre pronunce risalenti, la sentenza n. 88 del 1966, ove si è precisato che il precetto costituzionale, di cui si è detto, sarebbe violato «non solo ove espressamente si disponesse che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia», ma anche ove una legge, per il modo con cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, perseguisse e raggiungesse, «anche se indirettamente, lo stesso risultato»). Principi, questi, ripresi e ribaditi in numerose altre successive decisioni (fra le altre, le sentenze n. 73 del 2013; n. 245 del 2012; n. 354 del 2010; n. 922 del 1988; n. 223 del 1983). Se appare, infatti, evidente che una pronuncia di illegittimità costituzionale non possa, in linea di principio, determinare, a svantaggio del legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un «esproprio» della potestà legislativa sul punto - tenuto anche conto che una declaratoria di illegittimità ha contenuto, oggetto e occasione circoscritti dal «tema» normativo devoluto e dal «contesto» in cui la pronuncia demolitoria è chiamata ad iscriversi -, è del pari evidente, tuttavia, che questa non possa risultare pronunciata «inutilmente», come accadrebbe quando una accertata violazione della Costituzione potesse, in una qualsiasi forma, inopinatamente riproporsi. E se, perciò, certamente il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia, è senz'altro da escludere che possa legittimamente farlo - come avvenuto nella specie - limitandosi a «salvare», e cioè a «mantenere in vita», o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di produrne.

Il contrasto con l'art. 136 Cost. ha, in un simile frangente, portata addirittura letterale.

 In altri termini: nel mutato contesto di esperienza determinato da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volontà normativa censurata dalla Corte; un altro conto è emanare un nuovo atto diretto esclusivamente a prolungare nel tempo, anche in via indiretta, l'efficacia di norme che «non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 - Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)» (Corte cost., 16 luglio 2015, n. 169). 

L'indirizzo espresso da questa decisione trova conferma nella già citata sentenza 173/2016: pur escludendo nella fattispecie l'elusione del giudicato costituzionale (rappresentato dalla sentenza 116/2013), infatti, ne ha vagliato il rispetto anche con riferimento non solo al tenore testuale della norma successiva, ma anche ai suoi «effetti» e finanche alle «finalità»

La emanazione della norma ha chiaramente impedito alla declaratoria d'illegittimità costituzionale dell'art. 24, comma 25, decreto-legge 201/211 di produrre le conseguenze previste dall'art. 136 Cost., cioè la cessazione ex tunc degli effetti della norma dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia. 

Non manifestamente infondata è allora anche la questione di costituzionalità alla stregua dell'art. 136 Cost.

 

P.Q.M.

 

 Visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge 87/53,

 a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme di cui all'art. 24, comma 25 e 25-bis, decreto-legge n. 201/2011, convertito nella legge 214/2011, nel testo sostituito dall'art. 1 decreto-legge n. 65/2015 (convertito in legge 109/2015) per violazione degli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione; 

b) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme di cui all'art. 24, comma 25 e 25-bis, decreto-legge n. 201/2011, convertito nella legge 214/2011, nel testo sostituito dall'art. 1 decreto-legge n. 65/2015 (convertito in legge 109/2015), nella parte indicate al capo a), per violazione dell'art. 136 della Costituzione; 

Visti gli articoli 295 codice di procedura civile e 23 legge n. 87/53,

 c) sospende il presente procedimento

 d) ordina trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale;

 e) dispone che la presente ordinanza, letta in udienza, sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; 

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 31 maggio 2017, n. 22.