Giurisprudenza - TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA - Ordinanza 28 ottobre 2015

Fallimento e procedure concorsuali - Concordato preventivo - Risoluzione del concordato - Attribuzione al Tribunale del potere di dichiarare d'ufficio il fallimento, in mancanza della richiesta del debitore o dei creditori o del pubblico ministero - Omessa previsione - Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), art. 186 in combinato disposto con l'art. 137

 

 1. Con ricorso depositato il 1° luglio 2015 la Azienda agricola I.T. di E. e L.F. - premesso che il 3 luglio 2009 questo tribunale omologava il concordato preventivo meramente liquidatorio proposto dalla E.I. S.r.l.; che essa ricorrente era creditrice di € 14.919,94; che il termine finale per l'adempimento del concordato previsto nel ricorso era di cinque anni dall'omologa; che alla data di deposito del ricorso non era stato eseguito alcun riparto in favore dei creditori - tutto ciò premesso, chiedeva al tribunale di pronunciare la risoluzione per inadempimento del concordato predetto.

 All'udienza del 26 ottobre 2015 (dopo un rinvio dalla precedente udienza del 22 settembre 2015 a causa della nullità della notifica del ricorso) comparivano l'avvocato A.N. per l'Azienda agricola ricorrente, il liquidatore giudiziale (dottor R.P.), il liquidatore sociale (dottor C.M.), nonché. l'avvocato P.G., che dichiarava di assistere, benché priva di procura, i resistenti.

 L'avvocato N. produceva ricorso notificato ed insisteva per la domanda di risoluzione del concordato preventivo.

Il dottor P., liquidatore giudiziale, dichiarava a verbale che la procedura concordataria non aveva ancora eseguito alcun riparto, nemmeno a favore dei creditori in prededuzione, e che l'andamento della procedura non consentiva in alcun modo l'attuazione del programma liquidatorio nei termini previsti.

 Dichiarava altresì di non opporsi alla risoluzione del concordato preventivo.

 Dal canto suo, il liquidatore sociale confermava quanto detto dal liquidatore giudiziale e si associava alla richiesta di accoglimento della domanda di risoluzione.

 Il giudice relatore si riservava, quindi, di riferire al tribunale.

 2. La risoluzione del concordato preventivo è disciplinata dagli articoli 186 e 137 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, nella loro formulazione attuale risultante dalle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 5/2006 (che ha modificato il solo art. 137) e con il decreto legislativo n. 169/2007 (che ha ritoccato entrambe le disposizioni).

 Ritiene il collegio che il combinato disposto dei menzionati articoli contrasti con gli articoli 3, 35 primo comma, 38 secondo comma, 41 primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, a seguito della domanda di risoluzione del concordato preventivo formulata da uno o più creditori, il tribunale possa dichiarare d'ufficio il fallimento, ove manchi richiesta in tal senso da parte del debitore o dei creditori predetti o del pubblico ministero.

3. Nel presente giudizio camerale, la questione di legittimità costituzionale precedentemente delineata è, in primo luogo, rilevante.

Infatti:

(A) come si desume da quanto sopra esposto, la ricorrente «Azienda agricola I.T. di E. e L.F.» ha chiesto la risoluzione del concordato preventivo della debitrice E.I. S.r.l., senza tuttavia chiedere il fallimento. 

Il ricorso è stato tempestivamente proposto, in quanto il termine finale previsto dalla proposta concordataria per l'ultimo adempimento era «cinque anni dall'omologa»: essendo questa intervenuta - come si è detto - con decreto del 3 luglio 2009, il termine per proporre la domanda di risoluzione (ai sensi dell'art. 186, terzo comma) scadeva il 3 luglio 2015.

 (B) ritiene inoltre il tribunale che l'inadempimento non sia di scarsa importanza. 

Come si è visto sopra, dalle dichiarazioni rese dal liquidatore giudiziale (confermate anche dal liquidatore sociale), la procedura di concordato non ha consentito sino ad oggi il pagamento di alcun creditore.

 Sicché, sia che si consideri - come parametro per valutare la non scarsa importanza dell'inadempimento - la generalità dei creditori (ossia il rapporto tra l'ammontare complessivo delle pretese creditorie soddisfatte e quelle non soddisfatte), sia che si consideri il credito del singolo creditore che agisce per la risoluzione, è fuori discussione, nel presente caso, che sussista l'ulteriore presupposto previsto dall'art. 186, secondo comma, della legge fallimentare per la pronuncia di risoluzione, ossia la non scarsa importanza dell'inadempimento.   (C) da ultimo, nella procedura concordataria della E.  non è indifferente, sotto il profilo economico e finanziario, per i creditori concorsuali e per tutti gli altri soggetti che hanno avuto o hanno rapporti negoziali con l'impresa insolvente il fatto che il tribunale possa o non possa dichiarare il fallimento.

 Infatti, dai rapporti riepilogativi periodici depositati dal liquidatore giudiziale (conoscibili d'ufficio da questo tribunale) si desume che nel dicembre 2013 sono stati posti in vendita due lotti immobiliari, costituiti da un compendio aziendale (prezzo base € 5.308.700) e da un terreno limitrofo (prezzo base € 3.102.529); che nessun interessato ha presentato offerta d'acquisto; che l'affittuaria d'azienda, A.i.M. S.r.l., ha presentato un'offerta d'acquisto per un valore inferiore alla stima peritale aggiornata; che, in considerazione della mancanza di altre offerte, il Liquidatore giudiziale ha prolungato il termine finale di affitto dell'azienda, fissandolo (in accordo con la controparte) all'agosto 2016; che l'impresa affittuaria ha una prelazione sull'azienda da alienare; che, nondimeno, in caso di alienazione dell'azienda a terzi, il contratto prevede l'obbligo dell'affittuaria di procedere al rilascio di essa; che l'unico credito recuperatile è quello vantato verso la C.L.C. S.r.l., per il quale è stata avviata espropriazione forzata immobiliare; che tuttavia, pur essendo intervenuta l'aggiudicazione in quel processo esecutivo, l'aggiudicatario non aveva versato il residuo prezzo ed era stato dichiarato decaduto.

 In conclusione, la domanda di risoluzione è pienamente fondata e, una volta rimosso il concordato preventivo, la gestione dell'insolvenza della E.I. S.r.l. e l'amministrazione del suo patrimonio verrebbero rimesse, in mancanza di fallimento, ad una fase liquidatoria destrutturata e incoerente, caratterizzata, da un lato, da atti dispositivi totalmente rimessi all'impresa tornata in bonis e, dall'altro, dalla possibile (ed anzi probabile) aggressione incontrollata del patrimonio da parte del ceto creditorio. 

In una situazione del genere, la tutela degli interessi dei creditori concorsuali e dei lavoratori subordinati dell'impresa affittuaria (come meglio si dirà in seguito) sarebbero difficilmente tutelabili in modo accettabile.

 4. La questione di legittimità costituzionale è, in secondo luogo, non manifestamente infondata.

 Anzitutto, ritiene il tribunale che le norme sopra menzionate (articoli 186 e 137) non possano essere interpretate diversamente, ossia nel senso che residuerebbe comunque uno spazio per la declaratoria di fallimento d'ufficio da parte del tribunale.   Infatti, nonostante l'art. 186 richiami l'art. 137 e nonostante quest'ultimo stabilisca che «la sentenza che risolve il concordato riapre la procedura di fallimento (...)» (dunque senza vietare espressamente un intervento officioso da parte del tribunale), la giurisprudenza della Suprema corte di cassazione è ormai consolidata nel senso che una pronuncia di fallimento d'ufficio è comunque esclusa dalla legge fallimentare attuale (non solo nel procedimento ex art. 15, ma anche) in sede di risoluzione del concordato preventivo (per tutte si veda Cassazione Sezioni unite n. 9934/2015).

 Occorre allora verificare se il «diritto vivente» desumibile dalla interpretazione del testo normativo ormai favorita dalla Cassazione, sia esente da censure di manifesta irragionevolezza e sia rispettoso di altri diritti costituzionalmente protetti.

 5. Potrebbe obiettarsi a quanto sopra esposto che l'attribuzione o la mancata attribuzione al tribunale del potere di dichiarare d'ufficio il fallimento dell'imprenditore a seguito della risoluzione del concordato preventivo rientri nella piena discrezionalità del legislatore e costituisca, dunque, una scelta legislativa rimessa a quest'ultimo.

 Rileva tuttavia il Collegio che la discrezionalità normativa non equivale ad arbitrio. Al contrario, essa deve essere sempre esercitata in modo ragionevole e coerente con i principi costituzionali.

6. Ora, nonostante il settore fallimentare sia stato oggetto dal 2005 di più riforme, alcune definite «organiche» (ci si riferisce al decreto-legge n. 35 del 2005 ed ai successivi decreti-legge e decreti legislativi: n. 5/2006, n. 169/2007, sino al recente decreto-legge n. 83 del 2015), in realtà il legislatore ha più volte modificato la materia, ma solo intervenendo solo sulle procedure previste dal regio decreto 16 marzo 1942 n. 267.

 In altri settori dell'ordinamento le norme che disciplinano le procedure concorsuali che potremmo definire «speciali» sono rimaste invariate.

 Così, ad es., è rimasta invariata la disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, di cui al decreto legislativo n. 270/1999 («Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza»).

L'art. 69 di essa prevede - ancora oggi - che, «qualora, in qualsiasi momento nel corso della procedura di amministrazione straordinaria, risulta che la stessa non possa essere utilmente proseguita, il tribunale su richiesta del commissario straordinario o d'ufficio, dispone la conversione della procedura in fallimento».

 Medesima previsione di conversione d'ufficio è prevista dall'art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge (c.d. Marzano) n. 347/2003.

 Stesso potere è attribuito nelle liquidazioni coatte amministrative c.dd. speciali all'autorità amministrativa che sovraintende alla procedura.

 Ad es., l'art. 80 del decreto legislativo n. 385/1993 (testo unico bancario) e l'art. 57 del decreto legislativo n. 58/1998 (testo unico finanza) prevedono il potere del Ministero dell'economia e delle finanze, su proposta della Banca d'Italia (nel caso delle società di intermediazione mobiliare, anche su proposta della Consob), di disporre con decreto la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività bancaria o di intermediazione mobiliare «anche quando sia in corso l'amministrazione straordinaria» dei predetti enti (banche e società di intermediazione): il che evidentemente determina la conversione della prima procedura nella seconda.

 7. D'altra parte, nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinate dalla legge n. 3 del 2012, si assiste ad una disciplina opposta, caratterizzata dalla possibilità di convertire l'accordo di composizione (art. 10) e il piano del consumatore (art. 12-bis) nella più generale procedura denominata «liquidazione del patrimonio» (art. 14-ter) solo su iniziativa dei creditori e non d'ufficio (art. 14-quater). 

8. Ora, si deve qui ribadire che è sicuramente rimesso alla discrezionalità del legislatore di attribuire o non attribuire il potere di intervento officioso nella conversione delle procedure concorsuali, ma volta che nell'ordinamento permangano diverse tipologie di istituti in tema di insolvenza dell'impresa, la scelta predetta dovrebbe essere coerentemente e ragionevolmente esercitata a seconda delle caratteristiche di ogni singola procedura. 

Ebbene, la legge n. 3 del 2012 consente il ricorso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento a soggetti che hanno dimensioni imprenditoriali (o anche non imprenditoriali) di assoluta modestia: imprenditori non fallibili (perché sotto soglia ex art. 1 della legge fallimentare), imprenditori agricoli (decreto legge n. 98/2011, art. 23, comma 43), start-up innovative (art. 31, primo comma, del decreto-legge n. 179/2012), soggetti che non esercitano affatto il commercio (consumatori).

 Non appare pertanto irragionevole rimettere, in tali casi (dove le ripercussioni giuridiche, economiche e sociali derivanti dall'insolvenza sono, di solito, minime), l'iniziativa per la conversione della procedura (di accordo o di piano in quella di liquidazione) totalmente all'iniziativa dei creditori, tenuto conto della scarsa incidenza di essa sulla tutela di diritti costituzionalmente protetti.   Ed è del pari ragionevole e coerente con i principi costituzionali che nelle procedure concorsuali destinate ad imprese di maggiori dimensioni (quali quelle previste dalla legge Prodi bis, dal Testo unico bancario, dal Testo unico finanza) il potere di conversione sia attribuito (o più correttamente: sia stato mantenuto, nonostante l'intervenuta riforma «organica») all'autorità giudiziaria o a quella amministrativa che sovraintendono alle procedure.

 Tuttavia, proprio perché la procedura di concordato preventivo disciplinata dagli articoli 160 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267 appare destinata ad imprese di maggiori dimensioni - a ben vedere, parificabili per importanza e grandezza alle imprese assoggettabili alle liquidazioni coatte amministrative speciali o ad amministrazione straordinaria - proprio per tale ragione, si diceva, appare per contro irragionevole la soppressione totale del potere di dichiarare d'ufficio il fallimento dell'imprenditore volta che sia intervenuta, su ricorso dei creditori, la risoluzione del concordato (dichiarazione di fallimento che, unitamente alla risoluzione del concordato, integrerebbe, nella sostanza, una vera e propria conversione della prima procedura nella seconda). 

9. La scelta irragionevole del legislatore (nel senso, come già detto, della totale soppressione del potere di dichiarare d'ufficio il fallimento a seguito della risoluzione del concordato preventivo) porta a conseguenze giuridiche e fattuali parimenti irrazionali. Come si desume dalle conseguenze riassunte al precedente paragrafo 3, è palese che la conversione o la mancata conversione del concordato preventivo E.I. S.r.l. in fallimento (come anche la conversione o la mancata conversione di una qualunque altra procedura concordataria) ha dirette ripercussioni su molti diritti costituzionalmente protetti, tra i quali possiamo annoverare i seguenti:

 (a) il diritto dei lavoratori alla tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 35, primo comma, Costituzione); tutela che nell'ordinamento riceve attuazione (anche) in virtù della legge fallimentare, laddove essa prevede, ad es., che il trapasso dell'azienda debba avvenire anche «avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali» (art. 104-bis);

 (b) il diritto dei lavoratori a che siano «preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di (...) disoccupazione involontaria» (art. 38, secondo comma, Costituzione); mezzi che sono assicurati grazie a vari istituti disciplinati dalla legislazione giuslavoristica in materia di procedure concorsuali e di rapporti di lavoro pendenti (ad es. la legge 223/1991);

(c) il diritto di iniziativa economica privata (art. 41, primo comma) spettante ai creditori concorrenti, che comprende non solo il momento iniziale di scelta dell'attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento e, dunque, la libertà di disporre dei beni destinati alla propria impresa, la libertà di investire i propri capitali in essa, la libertà di destinarli alla produzione o allo scambio di beni o servizi o all'acquisizione di ricchezza, la libertà contrattuale, il potere di organizzare il proprio processo produttivo.

Pertanto, mentre nell'un caso (quello delle liquidazioni coatte speciali e dell'amministrazione straordinaria) tutti questi diritti riceverebbero una adeguata tutela in sede giurisdizionale (o amministrativa), nel caso del concordato preventivo risolto (cui non sia seguito il fallimento) essi riceverebbero protezione solo nell'ambito della libertà negoziale delle parti (debitore tornato in bonis) e nel corso di una procedura liquidatoria volontaria. La tutela di questi diritti costituzionali richiede, per contro, che la valutazione circa l'opportunità o la necessità della conversione della procedura concorsuale (in ciò, si ripete, si sostanzia la risoluzione del concordato preventivo e la conseguente dichiarazione di fallimento) o della sua definitiva cessazione (nell'ipotesi di risoluzione senza fallimento) non possa essere rimessa alla sola decisione di soggetti privati (o del pubblico ministero, che peraltro nemmeno è obbligatoriamente chiamato a partecipare al giudizio camerale di risoluzione). 

Essa impone, invece, che - laddove manchi l'iniziativa dei privati (o del pubblico ministero) e siano tuttavia sussistenti esigenze di tutela dei diritti dei creditori o di terzi - sia l'autorità giudiziaria a valutare l'utilità, l'opportunità o la necessità della conversione.

 La totale incoerenza ed irragionevolezza del sistema è messa bene in luce dal caso dell'impresa che ha i requisiti dimensionali per essere sottoposta all'amministrazione straordinaria ex decreto legislativo n. 270/1999: in questa ipotesi, mentre la conversione della procedura di amministrazione straordinaria nel fallimento potrebbe essere disposta d'ufficio, ai sensi degli articoli 69 e 70 del decreto legislativo n. 270/1999, nel caso in cui la stessa impresa sia stata ammessa al concordato preventivo, alla risoluzione di quest'ultimo non seguirebbe il fallimento, a meno che non vi sia un'iniziativa in tal senso dei creditori o del pubblico ministero. 

10. L'irragionevolezza dell'impianto normativo (articoli 186 e 137) e la lesione dei diritti di iniziativa economica dei creditori, di tutela del lavoro e dei lavoratori in caso di disoccupazione involontaria non vengono meno per il fatto che l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento sia comunque demandata ad alcuni soggetti, che teoricamente potrebbero richiedere, oltre alla risoluzione del concordato preventivo, anche il fallimento: donde - si potrebbe concludere - l'irrilevanza o la superfluità di qualsiasi potere officioso del tribunale.   E' stata infatti la stessa Corte costituzionale (sentenza 240/2003) che - nel dichiarare infondata la questione di legittimità dell'art. 6 della legge fallimentare nel testo anteriore al 16 luglio 2006, laddove essa prevedeva la possibilità di dichiarare d'ufficio il fallimento dell'imprenditore insolvente - ha espressamente affermato che tale intervento officioso era giustificato proprio per «le prevalenti finalità pubblicistiche che caratterizzano la procedura fallimentare». 

Stesso criterio ermeneutico è stato adottato da Corte costituzionale n. 46/1995, questa volta (non per mantenere, ma) per reintrodurre una iniziativa officiosa soppressa da interventi legislativi, laddove vengano in considerazione nel procedimento giurisdizionale interessi costituzionalmente garantiti.

 11. Infine, la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 186 della legge fallimentare, che si richiede con la presente ordinanza, non contrasta con il disposto dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, che prevede che ogni processo si svolga «davanti ad un giudice terzo ed imparziale», sol che si consideri che - secondo l'insegnamento della stessa Corte costituzionale (sentenza 240/2003) - soltanto l'impulso iniziale al procedere deve provenire da un soggetto diverso da quello chiamato a giudicare: condizione che è sicuramente garantita dal mantenimento della legittimazione a chiedere la risoluzione del concordato preventivo solo in capo ai creditori.

 

 P. Q. M.

 

Visti gli articoli 134 e seguenti della Costituzione, 295 del codice di procedura civile, 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, così provvede:

 I. dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 137 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, in relazione agli articoli 3, 35 primo comma, 38 secondo comma, 41 primo comma, della Costituzione, laddove esso non prevede che, a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato preventivo ad iniziativa di uno o più creditori, il tribunale possa dichiarare d'ufficio il fallimento dell'imprenditore, qualora non vi sia domanda in tal senso da parte dei creditori, del pubblico ministero o dello stesso debitore;

II. sospende il giudizio camerale n. 174/2015 di risoluzione del concordato preventivo n. 9/2008 a carico della E.I. S.r.l.;

III. dispone la trasmissione della presente ordinanza e degli atti del fascicolo n. 174/2015 alla Corte costituzionale;

IV. ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri e che sia comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

 

---

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 01 febbraio 2017, n. 5