Giurisprudenza - CORTE DI APPELLO DI MILANO - Sentenza 15 maggio 2018, n. 617

Premio di natalità - Domanda - Madri regolarmente presenti in Italia - Condizioni

 

Motivi della decisione

 

Con ordinanza del 12.12.17 il giudice del lavoro del tribunale di Milano (dott.ssa R.) dichiarava il carattere discriminatorio della condotta di Inps per aver introdotto requisiti non previsti dall’art. 1 co. 353 L. 232/16 per poter beneficiare del cd. "premio di natalità";

ordinava all’ente di eliminare la condotta discriminatoria attraverso l’estensione del beneficio assistenziale a tutte le future madri regolarmente presenti in Italia che ne avessero fatto richiesta e che si fossero trovate nelle condizioni di cui all’art. 1 cit.; ordinava altresì all’ente di pubblicizzare l’ampliamento del novero dei beneficiari. Rigettava le ulteriori domande e condannava Inps al pagamento delle spese di lite.

Il giudice, superate sia l’eccezione di difetto di giurisdizione (ravvisando la giurisdizione del giudice ordinario vertendosi nell’ambito di diritti soggettivi) sia l’eccezione di improponibilità/improcedibilità della domanda (trattandosi di giudizio volto all’accertamento di condotte discriminatorie), respingeva l’eccezione di carenza di legittimazione ad agire delle odierne appellate ritenendo in primo luogo che la sussistenza della predetta condizione dell’azione andava verificata tenuto conto esclusivamente dell’affermazione della parte che, nel caso di specie, si dichiarava titolare del diritto ad agire ai sensi dell’art. 5 D. Lvo 215/2003 e osservando che, in capo alle associazioni ricorrenti, ricorrevano tutti i requisiti della normativa indicata.

Nel merito evidenziava l’insussistenza di un potere di Inps di restringere o identificare i potenziali aventi diritto alla prestazione assistenziale in questione.

Il giudice osservava che la norma individuava espressamente i presupposti fattuali dei beneficiari della prestazione economica, che nessuna disposizione normativa attribuiva a Inps il potere di derogare a una fonte normativa di rango primario, che la circolare, di natura regolamentare o meno, non poteva modificare la legge.

Riteneva quindi la natura discriminatoria delle circolari Inps nr. 39/17, 61/17 e 78/17 che avevano ristretto la platea delle destinatarie della prestazione sulla base di una distinzione ingiustificata basata sulla nazionalità.

Inps, che ha formulato anche istanza di sospensione della esecutività dell’ordinanza, nell’atto di appello lamenta in primo luogo l’erroneità della decisione con riferimento alla ritenuta legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti a suo parere non sussistente.

Osserva che nel caso di specie non si verte in materia di tutela di diritti umani e di libertà fondamentali in quanto il "premio di natalità" fuoriesce e non è collegato ai bisogni primari della personalità e che quindi alcun valido riferimento può essere fatto all’art. 43 D.Lgs 286/1998.

In particolare rileva: (i) che non possono dirsi soddisfatte le condizioni di cui agli artt. 4 e 4bis D. Lgs 215/2003 in quanto tali norme presuppongono che vi sia un soggetto, persona fisica, direttamente interessato dall’atto discriminatorio in nome e per conto o a sostegno del quale le associazioni possono intervenire mentre nel caso di specie le associazione sono le uniche parti attive del giudizio; (ii) che nessuna legittimazione può essere rinvenuta sulla base del D.Lgs 215/2003 non rientrando la prestazione in oggetto tra le prestazioni previdenziali, sociali o di sicurezza sociale, o tra le prestazioni essenziali finalizzate alla conservazione dell’integrità fisica o al sostentamento; (iii) che l’art. 3 co. 2 D. Lgs 215/03 precisa che "il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello stato né qualsiasi trattamento, adottato sulla base della legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti"; (iv) che infine non ricorre la condizione per l’azione collettiva della non individuabilità in modo diretto e immediato delle persone lese dalla discriminazione.

In secondo luogo Inps evidenzia la carenza di interesse ad agire delle associazioni mancando un interesse concreto e attuale all’azione derivante da una lesione ravvisabile solo in capo al soggetto richiedente la prestazione.

In terzo luogo contesta che il "premio di natalità" sia stato qualificato dal giudice come prestazione di natura assistenziale trattandosi invece di una misura finalizzata a favorire e incentivare le nascite collegata a politiche demografiche della famiglia e non al welfare assistenziale e osserva che, non potendo lo stesso neppure essere qualificato come prestazione di sicurezza sociale ai sensi dell’art. 3 par.1 lett. j) Regolamento 883/04, non può essere invocata la violazione della normativa europea.

Osserva che le circolari emesse applicano un principio immanente ed evincibile dalla stessa previsione di legge che, nel delineare l’irrilevanza della prestazione ai fini della determinazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 TU sull’imposta dei redditi, ha individuato quale elemento qualificatorio del destinatario il fatto che questi sia incluso nella comunità produttiva statale con un minimo di stabilità.

Infine l’istituto censura le modalità fissate dal giudice per la cessazione della condotta ritenuta discriminatoria non potendo egli disporre la rimozione o l’annullamento dell’atto amministrativo incriminato o l’adozione di un nuovo provvedimento con contenuto giudizialmente predeterminato.

Chiede pertanto la riforma dell’ordinanza e il rigetto delle domande avanzate con il ricorso di primo grado.

Hanno resistito le associazioni convenute chiedendo rigetto dell’appello e la conferma dell’ordinanza impugnata.

L’appello non può trovare accoglimento.

Non pare dubitabile che la discriminazione lamentata sia una discriminazione per nazionalità considerato che la differenziazione di trattamento che le circolari Inps hanno evidenziato e che le associazioni contestano è basata sul titolo di soggiorno e quindi sulla nazionalità.

Considerato che la maggior parte dei migranti presenti in Italia sono cittadini non comunitari appare evidente che il criterio della nazionalità, apparentemente neutro, viene di fatto ad assumere un connotato discriminatorio determinando uno svantaggio per tali soggetti.

Ciò posto, in punto a legittimazione ad agire delle associazione appellate il Collegio richiama i precedenti di questa Corte (tra cui nr. 110/15) il cui orientamento ha trovato conferma nelle sentenze della Corte di Cassazione nr.11165/17 e 11166/17 in tema di discriminazione per ragione di nazionalità.

Come osservato dalla questa Corte nella sentenza citata "la procedura relativa alle azioni antidiscriminatorie diverse da quelle relative al fattore di genere ha sofferto di una frammentarietà che ha reso complicata una facile ed effettiva tutela che ovviamente doveva essere finalizzata a un medesimo scopo, ossia alla rimozione della discriminazione, in relazione a qualsiasi fattore la originasse. Non a caso l’art. 44 D. Lgs 286/98 ha subito numerose modifiche, in particolare ai sensi dell’art. 34 D. Lgs. 150/2011, decreto che all’art. 28 ha finalmente unificato il rito previsto per le cause di discriminazione diverse da quelle di genere. Tale unificazione, ad avviso della Corte, opera anche sul piano della legittimazione ad agire degli enti collettivi legittimati nelle ipotesi di fattori discriminatori richiamati tanto dall’art. 44 T.U. sull’immigrazione che dall’art. 4 D. Lgs 215 citato ai sensi del combinato disposto di tali articoli con l’art. 28 co. 5 D. Lgs 150/2001. Infatti l’unicità della tutela antidiscriminatoria con riferimento ai fattori "razziali etnici, nazionali o religiosi" già prevista dal co. 1 dell’art. 44 citato ha trovato una conferma nell’art. 2 D.Lgs 215/2003 quanto ai due fattori relativi all’etnia e alla razza.

L’esclusione prevista dall’art. 3 co. 2 D.Lgs 215 citato si riferisce in particolare alla possibilità che lo Stato attui, per ragioni legate meramente all’ingresso nello Stato, delle normative regolatrici dell’immigrazione e delle modalità di accesso all’occupazione o alla previdenza e assistenza degli stranieri nei limiti del principio di ragionevolezza e di compatibilità sancito dalla normativa comunitaria ed espresso nelle direttive che sono fonte normativa sovraordinata a quella nazionale" (Corte di Appello Milano 110/15).

Tali considerazioni sono state riprese e sviluppate dalla Corte di Cassazione con le sentenze citate che hanno ritenuto non condivisibile la tesi sostenuta da Inps che richiama l'esclusione dall'orbita del decreto legislativo 215/2003 (art. 3) delle "differenze di trattamento sulla nazionalità" e che sostiene che la legittimazione processuale a esperire l'azione collettiva costituirebbe un'eccezione consentita solo per le fattispecie tassativamente previste dall'ordinamento e non sarebbe quindi suscettibile di interpretazione analogica.

Sul punto la Suprema Corte invero osserva che ciò "porterebbe a negare l'esistenza stessa e la rilevanza nell'ordinamento di discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità; ovvero l'esistenza di condotte offensive (o plurioffensive) nei confronti di una pluralità di soggetti accumunati dal fattore nazionalità e l'esigenza di garantire una protezione giudiziale di interessi condivisi da una pluralità di soggetti accomunati sotto il medesimo fattore della nazionalità, senza che costoro siano tenuti a prendere parte al processo o ad attivarlo individualmente."

La Corte evidenzia invero, in primo luogo, il rapporto che può essere instaurato tra gli artt. 2 e 4 del d.lgs. 215/2003 e l'art.43 T.U. immigrazione che prevede la nozione di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e ove "l’art 43 co. 1 e 2 considera la nazionalità tra i fattori di discriminazione vietati in ogni campo della vita sociale, con una previsione che comprende atti di qualsiasi tipo, inclusivi anche di offese a interessi di tipo collettivo; e pertanto anche le discriminazioni definite collettive ("ogni comportamento" di pubbliche amministrazioni o di privati che abbia "lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica")(...).

Quando il d.lgs. 215/2003 (all'art.2 co.2)) prevede, anzitutto, che sia "fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2" , è a questa nozione generale che intende quindi fare riferimento ovvero alla discriminazione di natura diretta o indiretta, individuale o collettiva, ivi regolata come oggettiva.

E quando, poi, all'art. 4, comma 1, il medesimo d.lgs. 215/2003 stabilisce che "la tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico" è alle stesse discriminazioni (individuali e collettive, dirette e indirette) ivi previste che intende rivolgersi, attraverso una previsione che riconnette logicamente lo strumento."

Osserva quindi la Corte che non può affermarsi che nel nostro ordinamento la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo rappresenti un'eccezione quando, al contrario, essa costituisce una regola ampiamente presente in sintonia con l'esigenza tipica della materia di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, a una serie indeterminata di soggetti dal rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva.

Individua così: l'azione, individuale o collettiva ex art. 5 d.lgs. 215/2003 per la repressione di comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine etnica; l'azione, individuale o collettiva ex art. 5, per la repressione di comportamenti discriminatori nell'ambito dei luoghi di lavoro e relativi alle condizioni di lavoro di cui all'art. 4 d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216;

l'azione, individuale o collettiva ex art. 5, per la repressione di comportamenti discriminatori in danno di persone con disabilità, di cui alla L. 6/2006; l'azione, individuale o collettiva ex art. 5, per la repressione delle condotte discriminatorie per ragioni di sesso nell'accesso a beni e servizi e loro fornitura, di cui all'art. 55-quinquies D. Lgs. 198/2006.

"Costituirebbe perciò una vistosa eccezione il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità. Un'eccezione che non è giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta, come si è visto, fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale (lavorativa ed extralavorativa) ai sensi dell'art. 43 TU immigrazione".

Né la previsione dell’art. 3 co. 2 D. Lgs 215/2003 può costituire argomento ostativo poiché "si tratta di una disposizione di carattere generale diretta a delimitare, sulla base della previsione della direttiva da cui deriva (art.3 co.2 Direttiva 2000/43/CE), il campo di applicazione dell'intervento normativo allo scopo di riservare allo Stato la regolazione sostanziale del trattamento dello straniero.

Essa però, ad avviso del collegio, non interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo testo di legge. Le "differenze di trattamento basate sulla nazionalità", di cui si discute alla luce della disposizione in oggetto, presente nel D. Lgs.215/2003, non potrebbero comunque giustificare trattamenti illeciti e oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni collettive per nazionalità (già disciplinate dall'ordinamento), che lo stesso testo normativo riconosce esplicitamente e alle quali intende volgere la tutela processuale ivi regolata."

Le associazioni in questione, in base all’art. 5 dello stesso D. Lgs 215, sono quelle iscritte nell'elenco approvato con decreto ministeriale (previsto appunto dall'art.5 del d.lgs. 215/2003) per le finalità programmatiche che le contraddistingue; tali associazioni, in base all'art. 52 del DPR 349/1999, devono essere qualificate dallo svolgimento di "attività a favore degli stranieri immigrati" e dallo " svolgimento di attività per favorire l'integrazione sociale degli stranieri" (non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia).

"Ora, affermare che esse possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle, non è solo palesemente illogico, ma introdurrebbe un ulteriore difetto di coordinamento tra norme di diverso livello, in quanto porterebbe a ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita a enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall'ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera).

Occorre inoltre richiamare il consolidato principio dell'ordinamento , avente natura cogente per qualsiasi giudice, secondo cui, di fronte a possibili interpretazioni differenti di un medesimo testo normativo, occorre sempre preferire l'interpretazione che risulti conforme alla Costituzione e al diritto comunitario.

Che la tesi negativa susciti immediati dubbi di costituzionalità (ai sensi degli artt. 3, 1 e 2 comma e 24 Cost.) pare qui evidente: sia ove si considerino le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte (senza ragionevole giustificazione) tra fattori di discriminazione che godono di eguale protezione nell'ordinamento (ai sensi dell'art. 43 TU immigrazione, d.lgs. 215/2003, d.lgs. 216/2003 e d.lgs.198/06); sia in relazione al fatto che il medesimo fattore della nazionalità rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse commessa o meno in ambito lavorativo.

Un ulteriore profilo di contrarietà alla Costituzione (art.117 Cost.) emergerebbe in relazione alla CEDU, in quanto il diritto al giusto processo (previsto dall'art.6) verrebbe diversamente garantito a seconda dei differenti fattori di discriminazione che risultano vietati nell'art. 14 (e nei quali vi è incluso quello relativo all'origine nazionale).

L'esclusione della legittimazione ad agire nella discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità non appare conforme ai principi di equivalenza ed effettività della tutela valevoli in ambito comunitario."

Conclude quindi la Corte "Tutte le disarmonie e i dubbi fin qui evidenziati, vengono superati se i vari rinvii normativi vengono composti... in una coerente logica di sistema, senza parcellizzazioni, valorizzando l'interpretazione complessiva e l'intenzione dello stesso legislatore il quale mostra in più sedi di considerare unitariamente i fattori di discriminazione in discorso anche sotto il profilo del loro trattamento processuale: apprestando appunto con il D. Lgs.150/2011 un unico procedimento (art.28) per le stesse discriminazioni (anche collettive) in cui si prevede la legittimazione dell' "ente collettivo" (art.34) ; sostenendo nell'art.2, comma 1 del D. Lgs. 215/2003 l'esistenza di una nozione di discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica, ma prevedendo al tempo stesso al comma 2 l'esistenza della discriminazione... ,anche collettiva, per nazionalità di cui all'art. 43 commi 1 e 2 testo unico immigrazione (nozione che il d.lgs. 215 intende mantenere ferma); predisponendo nell'art. 4 comma 1 una tutela avverso tutti gli atti e i comportamenti di cui all'art. 2 con una previsione ampia che non consente di mutilare alcun comma della stessa disposizione e di sterilizzare quindi il riferimento ivi contenuto alla nozione di discriminazioni anche collettiva per nazionalità; conferendo la legittimazione ad agire contro tutte le discriminazioni collettive contemplate nel decreto legislativo (attraverso l'art. 5 e il DPR cit.) ad associazioni qualificate dalla loro azione a favore degli stranieri (e quindi in relazione all'appartenenza nazionale) "

Alla luce di quanto esposto va confermata la conclusione cui è pervenuta l’ordinanza impugnata che ha ravvisato nell’ordinamento una legittimazione ad agire in capo agli odierni appellati in relazione alle discriminazioni collettive per nazionalità.

Va altresì respinta la censura mossa all’ordinanza nella parte in cui ha ritenuto sussistente il presupposto di cui all’art. 3 co. 3 D. Lgs 215/2003. Destinatarie delle circolari Inps in questione sono indistintamente tutte le donne straniere che possono beneficiare del premio in esame nel momento in cui si trovano nelle condizioni previste dalla legge per poterne usufruire. L’azione collettiva svolta dalle associazioni ha come oggetto la rimozione a monte di un atto "potenzialmente discriminatorio" nei confronti di soggetti difficilmente identificabili, come tale pertanto essa risponde perfettamente alla ratio di cui alla norma sopra indicata.

Va altresì respinto il motivo di appello in ordine all’eccepita assenza di un interesse ad agire in capo alle associazioni stante la riconosciuta esistenza da parte dello stesso istituto di una ampia platea di donne possibili beneficiarie del premio ma di fatto escluse dal beneficio.

Nel merito si osserva quanto segue. L’art 1 co. 353 L. 232/16 prevede che "a decorrere dal 1 gennaio 2017 è riconosciuto un premio alla nascita o all’adozione di un minore dell’importo di € 800,00. Il premio, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 del T.U. delle imposte sui redditi di cui al DPR 22.12.86 nr. 917, è corrisposto da Inps in unica soluzione su domanda della futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza o all’atto di adozione", Con la Circolare 39 del 2017 Inps, richiamata la norma di legge, ha precisato che "il premio alla natalità è riconosciuto alle donne gestanti o alle madri che siano in possesso dei requisiti attualmente presi in considerazione per l’assegno di natalità di cui alla legge di stabilità n. 190/2014 (art. 1, comma 125): residenza in Italia;

cittadinanza italiana o comunitaria; le cittadine non comunitarie in possesso dello status di rifugiato politico e protezione sussidiaria sono equiparate alle cittadine italiane per effetto dell’art. 27 del Decreto Legislativo n. 251/2007; per le cittadine non comunitarie, possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del Decreto Legislativo n. 286/1998 oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17 del Decreto Legislativo n. 30/2007, come da indicazioni ministeriali relative all’estensione della disciplina prevista in materia di assegno di natalità alla misura in argomento (cfr. circolare INPS 214 del 2016)."

E’ di immediata evidenza che la norma di legge che ha introdotto il "premio alla nascita" afferma esclusivamente che: tale bonus è riconosciuto dal 1.1.2017, è dell’importo di € 800,00, viene erogato su domanda della madre, al compimento del settimo mese di gravidanza o all'atto dell'adozione, non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 del T.U. delle imposte sui redditi.

E’ di altrettanta evidenza che Inps ha introdotto in sede amministrativa requisiti non previsti dal legislatore ma previsti invece per altra prestazione ovvero "l’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125, legge di stabilità n. 190/2014".

Così facendo Inps si è arrogata il potere di imporre in sede amministrativa condizioni o requisiti che la legge non ha né previsto né disciplinato, di introdurre modifiche a una norma di fonte primaria e di restringere, di conseguenza, la platea delle destinatarie del beneficio.

Del tutto condivisibile è pertanto l’affermazione del tribunale della illegittimità della condotta dell’Istituto ravvisabile proprio nell’aver voluto emettere circolari, aventi natura regolamentare, che attribuiscono alla legge un contenuto diverso da quello espresso dal legislatore.

Merita rilevare, peraltro, che tale aspetto non ha formato oggetto di specifica censura da parte di Inps che nel suo atto di appello non ha intaccato questa parte dell’ordinanza e che, in sede di discussione ha ammesso di aver "integrato i requisiti di una norma lacunosa"; integrazione evidentemente non consentitagli.

A ciò va aggiunto che così facendo Inps non solo con una propria circolare ha derogato alla norma di legge disponendo diversamente da quanto prescritto da quest’ultima ma lo ha fatto introducendo disposizioni evidentemente discriminatorie per nazionalità in quanto, ancorando la possibilità di ottenere il beneficio a una condizione quale il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ha introdotto una differenza di trattamento non giustificata da alcuna ragionevole e oggettiva finalità.

Sostiene l’Istituto che dal riferimento all’imponibile fiscale (laddove la norma di legge chiarisce l’irrilevanza della prestazione in oggetto ai fini della determinazione del reddito complessivo) è possibile evincere, implicitamente, la volontà del legislatore di collegare il riconoscimento della provvidenza al radicamento della destinataria nella comunità produttiva statale con un minimo di stabilità.

Premesso che tale interpretazione non appare sorretta da alcun elemento concreto avendo in realtà il legislatore scelto di non circoscrivere in alcun modo la platea dei destinatari, anche volendo ritenere che sia stato introdotto il requisito del "radicamento sul territorio" in quanto il destinatario deve essere soggetto fiscale in Italia, il beneficio non può che essere riconosciuto a tutte le donne straniere che, in quanto residenti sul territorio nazionale, sono tenute agli obblighi fiscali indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno ordinario o di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

La tesi sostenuta da Inps peraltro si scontra con il fatto che, stando alla circolare, il "premio di natalità" verrebbe comunque riconosciuto alle cittadine non comunitarie in possesso dello status di rifugiato politico e protezione sussidiaria benché a esse non sia consentito richiedere il permesso UE per lungo periodo e benché nei loro confronti non pare potersi ravvisare un pari radicamento sul territorio.

Inoltre, come evidenziato anche dal tribunale, il criterio indicato da Inps si scontra con il fatto che alle donne straniere verrebbe richiesto di risiedere in Italia da almeno 5 anni mentre alle donne italiane e a quelle comunitarie basterebbe risiedere in Italia da un giorno per poter ottenere il premio.

Ne consegue che la individuazione dei requisiti fatta da Inps, oltre che illegittima per le ragioni sopra esposte, va qualificata come discriminatoria escludendo dal beneficio per ragioni di nazionalità e senza alcuna ragionevole motivazione, una parte delle donne residenti in Italia per le quali ricorrono le condizioni previste dall’art. 1, comma 353, L. 232/2016.

La stessa invero si configura come discriminazione indiretta così come riportato dall’art. 43 del D. Lgs. 286/98 secondo il quale "costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

In ogni caso compie un atto di discriminazione: "... c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità,...".

Per quanto non oggetto di esame da parte del primo giudiece avendo egli ritenuto assorbita ogni questione relativa alla natura della provvidenza in esame, ritiene il Collegio opportuno chiarire che essa va certamente inserita tra le prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 3 del regolamento CE 883/2004 ove tra i settori della sicurezza sociale sono compresi alla lett. b) "i trattamenti di maternità e paternità assimilati". Non pare dubitabile che tra essi debba essere inclusa la prestazione in oggetto quale prestazione una tantum concessa in occasione della maternità.

Ne consegue che il cittadino extra UE ammesso in Italia ai fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale al quale è consentito lavorare (come nel caso di specie) ovvero ammesso a fini lavorativi ha diritto a tale beneficio in applicazione del principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 della direttiva 2011/98 che richiama il suddetto regolamento.

Tale principio, che è chiaro, preciso e incondizionato deve essere applicato direttamente dalle pubbliche amministrazioni e la sua violazione costituisce discriminazione.

Vanno infine respinte le censure sollevate in ordine alle modalità fissate dal giudice per la cessazione della condotta ritenuta discriminatoria atteso che, ai sensi dell’art. 28 D, Lgs 150/11 il giudice deve intervenite adottando ogni provvedimento utile alla rimozione della discriminazione e al ripristino del diritto; cosa che nel caso in esame non poteva che essere soddisfatta estendendo il beneficio a tutte le donne residenti in Italia che presentano le condizioni giuridico-fattuali previste dall’art. 1 co. 353 L. 232/16.

Alla luce di quanto esposto, l’appello va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo tenuto conto del valore della controversia e dei parametri di cui al D.M. 55/14.

Inps è altresì tenuta al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato di cui all'art. 13 co. 1 quater DPR 115/01 così come modificato dall'art. 1 co. 7 L. 228/12

 

P.Q.M.

 

Respinge l’appello contro l’ordinanza del 12.12.17 del giudice del lavoro del tribunale di Milano;

condanna Inps al pagamento delle spese del grado che liquida in € 3.600,00 oltre accessori e spese generali;

dichiara dovuto il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato di cui all'art. 13 co. 1 quater DPR 115/01 così come modificato dall'art. 1 co. 7 L. 228/12.