Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25 agosto 2016, n. 17339
Licenziamento disciplinare - Contegni extralavorativi - Reintegra nel posto di lavoro
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 6.11.13 la Corte d'appello di Potenza, in riforma della sentenza di rigetto emessa il 17.1.12 dal Tribunale di Melfi, dichiarava illegittimo perché sproporzionato il licenziamento disciplinare intimato l'8.7.04 da S.A.T.A. - (...) S.p.A. a M.Q., del quale ordinava la reintegra nel posto di lavoro con le conseguenze economiche di cui all'art. 18 legge n. 300/70 (nel testo previgente alla novella di cui all'art. 1 legge n. 92/12).
Il licenziamento era stato intimato per avere il lavoratore imbrattato una toilette aziendale per scrivere, con l'uso di feci, la frase "A morte i capi".
Per la cassazione della sentenza ricorre S.A.T.A. - (...) S.p.A. affidandosi a cinque motivi.
L'intimato resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604/66 nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto la pur accertata condotta dell'odierno controricorrente come non sussumibile nel concetto di giusta causa, violazione ancor più evidente considerando che persino contegni extralavorativi (a differenza di quello oggi in esame) e meno gravi sono stati ritenuti in giurisprudenza passibili di licenziamento perché tali da scuotere la serenità del rapporto di colleganza fra dipendenti e di collaborazione con l'imprenditore.
Il secondo motivo denuncia vizio di insufficiente, contraddittoria e illogica motivazione nella parte in cui la Corte territoriale, per reputare come non meritevole della massima sanzione disciplinare la condotta di M.Q., ne ha valorizzato la qualifica operaia, lo stato di salute (era affetto da sindrome depressiva reattiva) e l’assenza di precedenti disciplinari nei nove anni in cui si è protratto il rapporto di lavoro: si obietta in ricorso che il livello di immoralità e di inciviltà del gesto era tale da poter essere percepito anche da persona di scarsa istruzione e di basso livello di inquadramento contrattuale.
Il terzo motivo prospetta vizio di contraddittorietà e illogicità della motivazione là dove la sentenza ha escluso la rilevanza penale del fatto, che invece - replica la ricorrente - deve essere ravvisata in relazione ai reati di minaccia, atti contrari alla pubblica decenza, deturpamento e imbrattamento di cose altrui e getto pericoloso di cose.
Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 324, 327, 329, 346 c.p.c.e dell'art. 2909 c.c. per avere la Corte territoriale valutato, per escludere la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato, lo stato di salute del lavoratore, in tal modo andando ultra o extra petita e violando il giudicato ormai formatosi sull'asserita incapacità naturale al momento della commissione dell'illecito (esclusa dalla sentenza di primo grado) e sulla prova della sindrome depressiva reattiva.
Il quinto motivo denuncia omesso esame d'un fatto decisivo per il giudizio e vizio di motivazione per avere i giudici d'appello ignorato analoghi episodi di imbrattamento in precedenza verificatisi nella stessa toilette aziendale, ancorché non se ne sia raggiunta la prova di ascrivibilità all'odierno controricorrente.
2- I primi tre motivi - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - sono inammissibili, atteso che, ad onta del richiamo a norme di diritto che si legge nel primo mezzo, in realtà sollecitano soltanto un generale nuovo apprezzamento in punto di fatto della vicenda.
Si premetta che, per costante giurisprudenza, il giudice di merito deve necessariamente valutare se vi è proporzione tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto anche delle circostanze oggettive e soggettive della condotta e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. - richiamato dall'art. 1 della legge n. 604/66 - alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).
In altre parole, il giudice investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di recesso (ossia che costituisca notevole inadempimento degli obblighi del dipendente) e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità dell'accaduto. Infatti, è pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia in quanto la condotta sia idonea a ledere irrimediabilmente l'affidamento circa la futura correttezza nell'eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico (cfr. ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).
A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza, bisogna tener conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari etc.
È quel che ha fatto la sentenza impugnata, che nel reputare la condotta come non tanto grave - in concreto - da meritare il licenziamento ha valorizzato lo stato di salute psichica dell'odierno controricorrente, il suo modesto livello culturale (desunto dalle mansioni espletate) e l'assenza di precedenti disciplinari in tutto il precedente arco temporale del rapporto di lavoro.
Si tratta d'un apprezzamento di merito che, proprio perché tale, questa S.C. non può correggere in alcun modo.
E una volta che il giudice di merito abbia negato in concreto la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ai connotati oggettivi e soggettivi del fatto addebitato in via disciplinare, è vano interrogarsi sulla sua astratta riconducibilità ad una delle ipotesi di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento previste dalle legge o dal contratto.
Dunque, poiché la gravità della condotta va indagata sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo) sia in concreto (in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l'hanno caratterizzata), il difetto di uno dei due profili di gravità esclude la sufficienza dell'altro.
Per la stessa ragione è sterile obiettare che il fatto per cui è processo debba sussumersi sotto norme incriminatrici diverse da quella esaminata dai giudici d'appello.
Quanto al vizio di motivazione, la sua denuncia si infrange contro la vigente formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell'art. 54, co. 3°, d.l. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 in poi e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata).
Invero, il nuovo testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. rende deducibile per cassazione solo il vizio di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
In tal modo il legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all'originaria formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. del codice di rito del 1940.
Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell'interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di "minimo costituzionale", ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.
Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c.
Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.
Per l'effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Secondo le S.U., l'omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche l'omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.
L'omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell'ottica della sentenza n. 8053/14 come il "tassello mancante" (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.
Invece, i motivi in esame non rispondono ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U. e lamentano vizi di motivazione che non sarebbe stati denunciabili neppure alla luce del previgente (e più ampio) testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c., perché suggeriscono esclusivamente un nuovo e diverso apprezzamento in punto di fatto, non consentito in sede di legittimità.
3- Del pari inammissibili sono le residue censure.
Il quarto mezzo travisa il senso della motivazione esposta dalla Corte territoriale che, lungi dall'affermare una qualche incapacità naturale dell'odierno controricorrente (che, d'altronde, ne avrebbe escluso ogni responsabilità disciplinare, mentre i giudici d'appello hanno ribadito che l'infrazione andava severamente punita, ma con una sanzione conservativa), si è limitata a valutare lo stato di salute psichica del lavoratore come mera circostanza idonea ad attutire (insieme con gli ulteriori rilievi richiamati nel paragrafo che precede) la gravità in concreto del fatto.
A sua volta il quinto motivo, oltre a risultare formulato senza rispettare l'autosufficienza nei termini a riguardo fissati dalla summenzionata sentenza n. 8053/14 delle S.U., deduce l'omesso esame d'un fatto che la ricorrente medesima riconosce - in sostanza - come non decisivo: non si vede come possa diversamente apprezzarsi la condotta del lavoratore alla luce di precedenti analoghi illeciti disciplinari che si ammettono come non provati a suo carico.
3- In conclusione, il ricorso è da dichiararsi inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 4,100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.