Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 26 aprile 2018, n. 10142

Procedura di collocazione in mobilità di lavoratori in esubero - Accordo con le organizzazioni sindacali - Criteri di selezione - Mancata accettazione della proposta aziendale di ricollocazione - Trasformazione del rapporto da part time a tempo pieno - Rifiuto - Licenziamento - Illegittimità - Reintegrazione con le stesse mansioni antecedenti al licenziamento

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza in data 28 settembre 2015 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da UPIM s.r.l. a D. M. in data 19 aprile 2011 ed ha ordinato ad OVS s.p.a. (già UPIM s.r.l.) la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con adibizione della lavoratrice alle stesse mansioni svolte al momento del licenziamento e condanna al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento al ripristino del rapporto, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione delle singole voci di credito al saldo, ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali oltre che alle spese di entrambi i gradi di giudizio.

2. La Corte territoriale ha accertato che l'accordo sindacale del 30 gennaio 2010, sottoscritto all'indomani dell'acquisizione da parte del gruppo COIN del controllo di Upim s.r.l., non prevedeva affatto lo svolgimento in regime di solo full time delle c.d. funzioni di regia tra le quali rientravano i compiti di capo reparto svolti dalla lavoratrice licenziata. Conseguentemente ha ritenuto che il richiamo contenuto nell'accordo del 21 gennaio 2011 al modello organizzativo aziendale non poteva essere interpretato come una autorizzazione a procedere a modifiche unilaterali dei rapporti di lavoro part-time, convertendoli in full time senza il consenso del lavoratore. Sotto altro profilo ha escluso, poi, che alla garanzia di conservazione del medesimo livello di inquadramento, contenuta nell'accordo conseguisse il diritto del lavoratore a conservare il medesimo orario. In definitiva secondo la ricostruzione della Corte di appello, in mancanza di una disciplina convenzionale sull'orario di lavoro, doveva trovare applicazione la regola generale che, nel contratto part-time, subordina al consenso dell'interessato la sua modifica non senza sottolineare che una disposizione di senso diverso si porrebbe in contrasto con norme inderogabili (art. 5 d.lgs n. 61 del 2000) e sarebbe perciò nulla. Ha poi rilevato che era risultato accertato che la società aveva chiuso alcuni dei suoi punti vendita, trasferendo altrove la sua attività, che, pertanto, non era cessata. Ha inoltre evidenziato che la ricorrente aveva accettato il trasferimento e si era opposta solo alla trasformazione a tempo pieno del rapporto. Quanto al rilievo del giudice di primo grado secondo cui il rifiuto dell'offerta occupazionale aveva costituito criterio di scelta del lavoratore da collocare in mobilità e non era stato assunto a giustificato motivo di licenziamento la Corte di merito ha evidenziato che il divieto posto dall'art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000 riguarda indifferentemente i licenziamenti individuali e quelli collettivi.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso OVS s.p.a. affidato a cinque motivi al quale ha opposto difese la D. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 380 bis.1. cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

4. L'eccezione di invalidità del mandato apposto a margine del ricorso per cassazione in relazione alla sua genericità è infondata atteso che è valida la procura apposta a margine del ricorso per cassazione, ancorché il mandato difensivo sia privo di data e conferito con espressioni generiche, poiché l'incorporazione dei due atti in un medesimo contesto documentale implica necessariamente il puntuale riferimento dell'uno all'altro, come richiesto dall'art. 365 cod. proc. civ. ai fini del soddisfacimento del requisito della specialità (cfr. in termini Cass. 05/12/2014 n. 25725 ed inoltre Cass. 2.12.2005 n. 26233 e Cass. 25.1.2001 n. 1058).

5. Con il primo motivo è denunciata la violazione degli artt. 4, 5, 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, dell’art. 12 delle preleggi, degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 e ss. cod. civ. in relazione alla comunicazione del 5 gennaio 2011, all'accordo sindacale del 21.1.2011 e alla proposta di ricollocazione del 29.3.2011 oltre che l'omesso esame di fatti decisivi per la definizione del giudizio accertati dalla sentenza e comunque emergenti dalla documentazione richiamata e dalle allegazioni difensive contenute nel ricorso proposto ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ.. Deduce la ricorrente che il criterio unico concordato con le organizzazioni sindacali per procedere alla collocazione in mobilità dei lavoratori in esubero era quello della mancata accettazione della proposta aziendale di ricollocazione con riguardo alla quale non vi era alcun obbligo di conservare la posizione di part time già ricoperta. Nell'accordo del 21.1.2011 si fa riferimento alla necessità di mantenere lo stesso livello di inquadramento ma non viene fatto alcun cenno all'orario di lavoro di tal che, ad avviso della ricorrente una proposta di modifica non configurerebbe la violazione dell'accordo denunciata. Non ci si troverebbe in presenza di una modifica unilaterale dell'orario di lavoro atteso che la proposta formulata poteva e doveva essere accettata dalla lavoratrice la quale, in via generale, era consapevole delle conseguenze previste dall'accordo di un eventuale rifiuto della ricollocazlone.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5, 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 e ss. cod. civ. in relazione alla proposta di ricollocazione del 29.3.2011 oltre che l'omesso esame di fatti decisivi per la definizione del giudizio con riferimento alle lettere del 6, 11, 13 e 18 aprile 2011 ed alla circostanza che la citata proposta di ricollocazione del 29 marzo 2011 non era stata mai accettata dalla lavoratrice che, viceversa, aveva formulato una controproposta a sua volta mai accettata dalla datrice di lavoro.

7. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116, 324 cod. proc. civ. e dell'art. 2909 e 2967 cod. civ. oltre che l'omesso esame di fatti decisivi in relazione all'art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Sostiene la ricorrente di aver puntualmente evidenziato nel corso del giudizio che il nuovo modello organizzativo del gruppo Coin richiedeva che le funzioni di regia (direttori, capi reparto, capi magazzino etc.) potessero essere svolte solo in regime di full time esigendo un presidio costante durante la giornata. Evidenzia che la ricorrente non aveva mai contestato tali circostanze che, pertanto, dovevano essere ritenute accertate. Sottolinea poi che neppure in appello erano state mosse critiche alla sentenza sul punto sicché l'accertamento della conformità della proposta formulata alla lavoratrice al nuovo modello organizzativo della società doveva essere ritenuto definitivamente accertato e conseguentemente la Corte di merito non avrebbe dovuto procedere ad un suo nuovo esame.

8. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1362-1367 e 2086 cod. civ. e dell'art. 41 Cost. in relazione agli accordi 30 gennaio 2010 e 21 gennaio 2011 e del comunicato sindacale del 22 febbraio 2010, del telegramma del 18 aprile 2011; la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116, 324 cod. proc. civ. e l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360 primo comma nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ.. La Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che se negli accordi del gennaio 2010 non vi era un richiamo alle c.d. funzioni di regia ed alle modalità particolari con le quali dovevano essere eseguite quelle prestazioni ciò non esclude che tale previsione era contenuta nel modello organizzativo aziendale (MOA) e se ne era tenuto conto nella proposta di ricollocazione della lavoratrice del 29 marzo 2011 che ne era stata resa edotta già con il telegramma inviatole il 18 aprile 2011. Tale circostanza non era mai stata contestata in giudizio e doveva perciò essere ritenuta accertata. Peraltro, secondo la società ricorrente, la determinazione aziendale di organizzare il servizio secondo un determinato schema di distribuzione dell'orario di lavoro e di durata giornaliera della prestazione non poteva essere sindacato dal giudice. Erroneamente poi la Corte di appello aveva tratto ulteriori elementi di valutazione da un comunicato sindacale risalente a più di un anno prima e relativo a tutt'altra questione non utilizzabile per poter pervenire al convincimento che il licenziamento della lavoratrice era stato determinato da una trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno.

9. Con il quinto ed ultimo motivo di ricorso è denunciata ancora una volta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5, 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, ed inoltre dell'art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000 e degli artt. 12 delle preleggi, 1362 e ss. cod. civ. in relazione all' accordi 30 gennaio 2010 e 21 gennaio 2011 e del comunicato sindacale del 22 febbraio 2010, del telegramma del 18 aprile 2011; la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116, 324 cod. proc. civ. e l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360 primo comma nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ.. Nel rammentare che il licenziamento era conseguito alla chiusura del punto vendita dove la D. lavorava ed al rifiuto della alternativa occupazionale proposta con passaggio da regime di part time a quello di full time, la ricorrente sostiene che la Corte di merito avrebbe erroneamente imputato alla modifica dell'orario il licenziamento che, più correttamente, era conseguito al rifiuto della proposta di ricollocazione formulata. Erra del pari la Corte nel ritenere che la proposta sarebbe stata invece accettata il 6 aprile 2011 pur se con rifiuto dell'orario a tempo pieno. Il giudice di appello avrebbe in violazione dell'art. 345 cod. proc. civ. ritenuto illegittimo l'accordo sindacale del 21 gennaio 2011 perché in contrasto con il d.lgs. n. 61 del 2000 sebbene tale questione non fosse mai stata sollevata dalla lavoratrice e comunque il riferimento all'art. 5 del citato decreto legislativo non era pertinente atteso che il recesso era conseguito, nell'ambito di un licenziamento collettivo, al rifiuto della nuova occupazione offerta e non ad una modifica dell'orario autoritativamente imposta.

10. Le articolate censure investono la sentenza sotto vari profili ma muovono tutte da un assunto. Il licenziamento della D. deve essere ricollegato al rifiuto da parte della lavoratrice di essere destinata ad una nuova sede di servizio, con identiche mansioni ed un diverso orario lavorativo, per effetto dell'adozione di un nuovo modello organizzativo aziendale, in virtù del quale alcune figure professionali dovevano essere presenti sul posto di lavoro per l'intero orario giornaliero.

11. Ciò di cui si controverte in primo luogo è se la Corte territoriale nell'interpretare l'Accordo del 21 gennaio 2011, con il quale è stato individuato il criterio di scelta dei lavoratori in esubero nella mancata accettazione di proposte aziendali di ricollocazione - con garanzia di preservare retribuzione, livello di inquadramento e mansioni per posizioni coerenti con il modello organizzativo aziendale - sia incorsa nel denunciato vizio di violazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 e ss. cod. civ. (variamente denunciato nel primo, secondo quarto e quinto motivo di ricorso).

12. Ritiene il Collegio che tale vizio non sia riscontrabile nell'interpretazione offerta dalla Corte di merito. Premesso che nelle articolate censure la ricorrente, piuttosto che evidenziare le violazioni delle disposizioni citate, si limita a proporre una diversa lettura dei vari atti che hanno regolato la procedura che non è consentita davanti al giudice di legittimità, ritiene comunque la Corte che il giudice di appello, nel ricostruire i fatti e verificare la legittimità dei comportamenti tenuti, ha preso correttamente ritenuto di dover verificare se vi era una lettura dell' Accordo del 21 gennaio 2011, con il quale erano stati concordati i criteri per l'individuazione del personale da collocare in mobilità e quindi licenziare, che fosse compatibile con la disciplina generale sul part tirine dettata dal d.lgs. 25.2.2000 n. 61, nel testo ratione temporis applicabile alla fattispecie. In particolare ha verificato se un'applicazione dell'Accordo come attuata dalla società oggi ricorrente fosse compatibile con l'art. 5 di quel decreto che al primo comma prevede, a tutela ed incentivazione del lavoro a tempo parziale che " Il rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o il proprio rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, non costituisce giustificato motivo di licenziamento."

13. Deve essere rimarcato allora come anche di recente ribadito da questa Corte, seppur con riguardo all'ipotesi inversa di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, che la modifica "ai sensi della disciplina dettata dal d.lgs. n. 61 del 2000, non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessita del consenso scritto del lavoratore". Si è infatti sottolineato che la modalità oraria è un elemento qualificante della prestazione oggetto del contratto part-time sicché, la variazione, in aumento o in diminuzione, del monte ore pattuito, costituisce una novazione oggettiva dell'intesa negoziale inizialmente concordata, che richiede una rinnovata manifestazione di volontà, e non è pertanto desumibile per "facta concludenza" dal comportamento successivo delle parti ex art. 1362 c.c." (cfr. Cass. sez. VI ord. 06/12/2016 n. 25006 e più di recente Cass. sez. IV 19.1.2018 n. 1375). Neppure nel caso in cui un contratto collettivo aziendale preveda il mutamento del

regime orario a part time come strumento alternativo alla collocazione in mobilità la regola della necessaria acquisizione del consenso scritto del lavoratore e stata ritenuta derogabile e, in applicazione della citata disposizione, si è sempre ritenuto che il rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisse giustificato motivo di licenziamento (cfr. Cass. 14/07/2014 n. 16089 ed ivi le richiamate Cass. 12/07/2006, n. 16169, 17/03/2003 n. 3898). A tali principi si è attenuto il giudice di appello osservando condivisibilmente che gli stessi sono applicabili tanto ai licenziamenti individuali quanto a quelli collettivi. Ad una corretta applicazione delle regole sopra richiamate consegue che l'Accordo con il quale si definiscono le regole della procedura di mobilità non può consentire implicitamente una modifica del regime dell'orario già esistente in quanto oggetto di specifico accordo tra le parti e, conseguentemente, l'offerta di una prestazione che incida sulla durata della prestazione è nulla perché, in contrasto con le citate disposizioni, determina una modifica unilaterale del regime di part time vietata dalla legge ed il licenziamento che ne è conseguito, sull'errato presupposto di un rifiuto della nuova collocazione aziendale, è stato correttamente ritenuto illegittimo. Diversamente si finirebbe per ritenere, contra legem, legittima una modifica autoritativa del part time che per le ragioni sopra esposte non è consentita.

14. Quanto alla decisività dell'omesso esame da parte della Corte territoriale del contenuto del Modello Organizzativo Aziendale da cui era poi scaturita la proposta di assegnazione mai accettata dalla lavoratrice osserva il Collegio che, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, la Corte ha correttamente ritenuto che l'esistenza di modifiche organizzative non autorizzavano perciò la conversione del rapporto da part time a tempo pieno. Si tratta di una valutazione degli elementi offerti all'esame del giudice di appello che non è censurabile in cassazione ove sia l'esito di una plausibile ricostruzione dei fatti stessi.

15. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e,liquidate in dispositivo, devono essere distratte in favore degli avvocati D. M. e G. T. che se ne dichiarano antistatari. Sussistono infine le condizioni di cui all'art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie, oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.