Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 maggio 2018, n. 11330

Esposizione all’amianto - Parametri - Livelli di esposizione poco significativi

Fatti di causa

1. Con sentenza del 13.6.2012-25.6.2012 (nr. 692 del 2012), la Corte di Appello di Genova respingeva il gravame proposto da D.B. avverso la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto la domanda nei confronti dell'INPS di rivalutazione, con il coefficiente 1,5 di cui all'art. 13, comma 8, della legge 257/92, dei periodi di contribuzione, dal 2.2.1976 al 15.6.1982, dal 16.10.1989 al 31.1.1990 e dall' 1.2.1990 al 30.11.1996, in ragione dell'esposizione ad amianto.

2. La Corte territoriale, per quanto di rilievo in questa sede, escludeva che fosse stato raggiunto il decennio di esposizione, in assenza, per l'intero periodo in considerazione (in particolare dopo il 1992), di un'esposizione qualificata al rischio amianto da parte del lavoratore.

In proposito, osservava che le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico e recepite dal giudice di primo grado, fondate su plurimi elementi presuntivi, precisi e concordanti, erano corrette; che, inoltre, la prova orale richiesta era generica e come tale inammissibile; che, in ogni caso, il consulente aveva anche utilizzato un parametro di esposizione riferibile a lavorazioni diverse ("amianto, ciclo vita, trasformazione e utilizzo, tessuti in amianto, piegatura") rispetto all'attività in concreto svolta dal lavoratore (di carrellista addetto alla movimentazione ed allo stoccaggio di rottami di lavorazione) che implicava una esposizione, alla sostanza nociva, nettamente inferiore.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.B. con un unico motivo, cui ha resistito, con controricorso, l'INPS.

 

Ragioni della decisione

 

4. Con un unico motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod. proc. civ. - si denuncia la violazione degli artt. 420, 183 e 184 del cod. proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ. in relazione all'art. 244 cod. proc. civ.

Si censura la statuizione della Corte di Appello nella parte in cui ha ritenuto inammissibile, per genericità del relativo capitolo di prova, la prova testimoniale in merito ai compiti in concreto disimpegnati dal lavoratore e, conseguentemente, l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata circa l'erroneità dei parametri utilizzati dal consulente. Si critica, inoltre, la decisione per aver ammesso la consulenza tecnica senza prima aver espletato la prova orale.

5. Il motivo è infondato.

Trattasi tutte di censure che, formalmente prospettate in termini di violazione di legge, configurano piuttosto vizi di motivazione e mirano ad ottenere un diverso ed inammissibile accertamento fattuale operato dal giudice di merito.

Si osserva che per costante giurisprudenza di questa Corte, l'art. 360, comma 1, nr. 5) cod. proc. civ., nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche apportate dal DL nr. 83 del 2012 (applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza d'appello), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando cosi liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. nr. 24679 del 2013; Cass. nr. 27197 del 2011).

Nel caso di specie, è decisivo osservare che l'unica censura che investe la ratio decidendi fondata sugli esiti dell'indagine peritale attiene al fatto che l'elaborato sarebbe stato predisposto prima ed in assenza della prova testimoniale.

Come prospettata, la censura è da respingere, non sussistendo, in via astratta, alcun obbligo del giudice di provvedere nel senso indicato da parte ricorrente e non prospettando quest'ultima errori o incongruenze - a cagione della indicata, omessa attività processuale - nel ragionamento presuntivo del consulente, fatto proprio dai giudici di merito, che ha condotto al giudizio di fatto di insussistenza di una diffusione di fibre d'amianto nell'ambiente di lavoro superiore ai limiti di legge.

Nel pervenire al suo convincimento, la Corte territoriale ha seguito il ragionamento sviluppato dall'ausiliario ed ha valorizzato le circostanze rappresentate: a) dall'esistenza di un divieto di estrazione e commercializzazione dell'amianto dal 1993, b) dalla consapevolezza delle potenzialità nocive dello stesso, con connessa presunzione di interventi precauzionali, c) dagli esiti dei campionamenti ambientali dell'azienda sanitaria locale competente del 1998 che attestavano livelli di esposizione "assai poco significativi".

Le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un'opzione interpretativa del materiale probatorio, anche di derivazione peritale, del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch'esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr., ex plurimis, Cass., nr. 7123 del 2014).

6. Rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poiché diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.